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UN SOGNO.
La prima rappresentazione del «Paradiso terrestre» al Goldoni è rimasta famosa per la tempesta che scatenò in teatro e per le polemiche che accese nella stampa. Dopo lo spettacolo, ad un tavolino del Caffè Francese, intorno a donna Maria di Varga, furono espressi vivacemente e rumorosamente i più disparati giudizî, magnificando alcuni la commedia di Guglielmo Baglioni, altri condannandola, approvandone gli uomini la tesi, scandalizzandosene le signore. Solo Ferdinando Anselmi taceva, volgendosi ad ascoltare gl’interlocutori e le interlocutrici senza far cenno di consenso nè di dissenso; ma poichè egli era il giudice più autorevole, donna Maria gli si rivolse, chiedendogli perentoriamente la sua opinione.
— Se permettete — diss’egli — io vi abbandonerò l’opera d’arte. Dal momento che un autore propone, dibatte e a modo suo risolve una tesi, bisogna considerarlo come un professore, un predicatore, un propagandista, la cui orazione potrà essere, rettoricamente, più o meno smagliante, ma le cui idee, e non già le immagini, importano. Ora Baglioni ha questo merito indiscutibile: di averci posto dinanzi un certo aspetto del problema dell’amore, al quale, pur essendo, o forse appunto per essere di semplicissima ed ovvia osservazione, non si attribuisce ordinariamente la dovuta importanza. Il titolo, che la signora Graziani e il mio amico Mauri particolarmente disapprovano, mi pare invece, scusate, molto graziosamente scelto. Voi sapete come nei miti biblici che sembrano più favolosi i credenti cerchino e trovino il preannunzio delle moderne affermazioni scientifiche: così i sei giorni della creazione sarebbero le epoche geologiche, e la formazione della donna dalla costola di Adamo significherebbe la separazione dei sessi dal primigenio ermafrodito. Ma vi è un punto dove la favola discorda dalla realtà scientificamente accertata e volgarmente osservata: quando narra che Adamo peccò a istigazione d’Eva. Non si trova, invece, nessuna forma di vita sessuata nella quale la femmina compia l’ufficio d’istigatrice: tutte le specie, al contrario, si estinguerebbero se i maschi dovessero aspettare di essere invitati a nozze. Non che invitare, la femmina ha essa bisogno d’essere pregata, corteggiata, sollecitata ed all’occorrenza sopraffatta. L’invenzione del serpente è un omaggio tributato alla realtà; se non che, questo rettile insinuante, il quale non parla e non può parlare per proprio conto, appartenendo ad una specie diversa e disforme, è un personaggio simbolico del quale non si può trovare il preciso equivalente nella commedia umana. Baglioni, in quel Gorli a cui sono toccati i fischi più sonori, ha voluto rappresentare il seduttore disinteressato, per conto altrui, per amore dell’arte: invenzione che poteva farsi accettare se si fosse incarnata in una persona viva. Non neghiamo che il tipo esista; diciamo che Baglioni non lo ha veduto nella vita reale, e per conseguenza non gli ha soffiato nei polmoni quella dell’arte. I serpenti a due zampe, col fiore all’occhiello e il monocolo all’occhiaia, non spingono Eva ad offrire la mela ad Adamo, ma le dimostrano la convenienza di mangiarla insieme con loro. È vero bensì che qualcuno, invece di gustare il frutto proibito, riesce precisamente a farlo offrire ad un altro; ma questo effetto non è mai premeditato; è anzi involontario e sgradito. E se tale fosse stato il caso rappresentato da Baglioni, i suoi amici non avrebbero dovuto durare tanta fatica per difenderlo contro i fischi e le risa degli avversarî. Un moto interiore della sua coscienza od un avvenimento estraneo alla sua volontà poteva benissimo impedire al Gorli di ottenere per sè il premio dell’opera serpentina. Chi di voi rammenta la baronessa di Sclàfani? Il serpente della povera donna Emilia fu un amico di casa, il quale, dopo averla tolta alla quiete, dopo averle messo addosso la febbre della curiosità, del desiderio, del pericolo, si ritrasse, preso a un tratto dallo scrupolo di offendere il marito, di cui era intimissimo....
— Come? Come? — interruppe donna Maria. — Narrate!
— È una storia piuttosto lunga, mia cara amica, e del resto sta scritta in un libro; se volete, domani ve lo porterò. Il fatto è questo: che in tutta la serie degli esseri viventi l’istinto dell’amore, attivo e prepotente nei maschi, è nelle femmine non solamente passivo, ma accompagnato da un istinto tutto contrario, di resistenza, di disamore, che rende perfettamente ragione degli aggettivi qualificativi appioppati a voi donne dal secondo Dumas, quando vi definì creature illogiche, subalterne e malefiche....
Vivaci esclamazioni di protesta provocarono queste parole nelle astanti, specialmente da parte di donna Maria e della signora Graziani, mentre qualcuno degli uomini, prima diffidenti e quasi ostili, le approvavano. Anselmi si strinse nelle spalle, con un muto sorriso, finchè il coro discorde non tacque; allora, con un gesto della mano che invocava silenzio, riprese pacatamente:
— Non nego, non nego che il novantanove per cento delle soddisfazioni nostre, di noi uomini, in amore, dipendano precisamente dalla vittoria riportata sulla vostra passività, sulla vostra apatia, sulla vostra riluttanza, e che se vi trovassimo tutte disposte a seguirci ad un semplice cenno, come quella signorina laggiù — e in così dire additò una vistosa e solitaria cliente seduta a un deserto tavolino dell’elegante Caffè — la mancanza di difficoltà nell’impresa ne scemerebbe l’attrattiva e ne farebbe anche passare la voglia; ma i danni della lotta, anche quando vinciamo, chi li enumera, chi li valuta, chi li somma? Il gatto torna tutto insanguinato dell’amplesso della deliziosa gattina: vi rammentate quello della «Gioia di vivere» di Emilio Zola? Voi non ci graffiate la pelle.... sebbene!... talvolta!... ma lacerate il nostro cuore, mortificate il nostro orgoglio, avvilite la nostra dignità, spremete lacrime amare dai nostri occhi. Abbiamo riso del personaggio di Baglioni, che si ritrae al momento buono per lasciare il posto all’amico; ma non ridono nelle scuderie, al tempo della monta, quando, per evitare che le riluttanti giumente sconcino con un calcio il prezioso purosangue, le fanno prima abboccare con un qualunque ronzino; il quale, se le belle si mostrano disposte a dargli ascolto, è poi tratto da parte e costretto a cedere il posto al nobile e valente stallone....
Un altro coro di scandalizzate proteste coprì la voce dell’oratore; la signora Graziani, con una deliziosa smorfietta tra di disgusto e d’ilarità, lo sfidò:
— Ma insomma, che cosa volete? Si può sapere che mai dovrebbero fare, secondo voi, queste povere donne? Se voi stesso riconoscete che la grande arrendevolezza di quelle signorine vi nausea?
— Precisamente! Nè solo quando è venale, ma anche se disinteressata la pronta dedizione dispiace ed inquieta, come sintomo di anormalità. Una certa resistenza è naturale, necessaria, conveniente; un certo sforzo per vincerla non riesce tutto penoso, perchè sforzo vuol dire esercizio di forza, e la coscienza della forza giova, piace ed esalta. Dirò di più: anche quando la resistenza è invincibile, anche quando l’amante respinto è ridotto alla disperazione, alla pazzia, al suicidio, egli non ha da prendersela se non col destino, o con sè stesso, per essersi innamorato d’una creatura insensibile, d’una bellezza inutile, direbbe Maupassant; ma l’assurdità delle resistenze volute, studiate, prolungate oltre il ragionevole, complicate con gli adescamenti, con le gelosie, con le rivalità, coi falsi pudori, coi mendicati doveri, con tutti i peggiori artifizî della civetteria, quelle sono le più penose e pericolose. Disgraziatamente sono anche le più frequenti. Dico anzi che sono la regola. Ordinariamente, dopo la vittoria, si dimentica quanto il suo conseguimento è costato di supplicazioni, d’implorazioni, di umiliazioni, di amarezze, di torture, di commozioni penose e logoranti, di assurde e ridicole esagerazioni spacciate per ubbriacare e scuotere l’oggetto del nostro desiderio, di tempo e di fiato e di pianto sprecati; ma chi può vantarsi di non esser passato per queste pene e di non aver fatto questo sciupìo? Chi ha trovato una donna, dico una donna e non una mercenaria nè un’ammalata, chi ha trovato una creatura bella d’aspetto e degna nell’anima, capace di arrendersi semplicemente, naturalmente, sottraendosi al tributo di falsità che l’istinto e le tradizioni del suo sesso le impongono, e sottraendo per conseguenza anche noi al tributo di menzogne e di lacrime; una creatura capace di comprendere senza tante storie la sincerità dell’ardore suscitato, col minimo di storie occorrente per infiammarsi o per riscaldarsi a sua volta?
— Io.
Intenti a seguire le argomentazioni del facondo oratore, gli astanti si volsero, un poco stupiti, al suono della nuova voce. Aveva risposto Alberto Mauri.
— Tu? I miei complimenti! Dove l’hai trovata?
— In sogno.
— Volevo ben dire! In sogno, anch’io.
— Ma nessun sogno può paragonarsi al mio.
— Proprio?... Ma proprio?... Narratelo allora! Sentiamo!... — dissero le signore.
— Anselmi — osservò Mauri rivolto a donna Maria — non ha voluto riferirvi la storia della baronessa di Sclàfani come troppo lunga per quest’ora: è il tocco e un quarto, e neppure il mio sogno è breve!
— Il tocco e un quarto!... — esclamarono più voci femminili. — «A casa, a casa....» — intonarono poi, sull’aria della «Cavalleria rusticana».
La comitiva si sciolse; alcuni montarono in legno, altri si congedarono dirigendosi verso il centro della città; donna Maria, la signora Graziani, suo fratello, Anselmi e Mauri si avviarono lentamente verso i quartieri alti.
— Se lo narraste ora, il vostro sogno? — propose la signora di Varga. — Susanna è nottambula come me, e non si dorrà di rincasare mezz’ora più tardi: è vero?
— Mauri! — rispose l’interrogata volgendosi al giovane. — Ve ne preghiamo!...
E per le vie deserte, a tratti avvolte nella penombra, a tratti fortemente rischiarate dalle lampade ancora veglianti nella notte alta, Mauri, in mezzo alle due dame che gli altri cavalieri circondavano dagli altri lati, narrò.
— .... È alquanto difficile significare le impressioni del sogno: voi sapete che si distinguono da quelle della veglia per qualche cosa, appunto, di ambiguo, di indefinibile, di evanescente. Talvolta, è vero, sono d’una vivacità straordinaria, da superare le più gagliarde e profonde della vita reale; ma, subito dopo, al dischiudersi degli occhi, il ricordo se ne attenua e sbiadisce e sfuma. Sogni deliziosi o terribili, tutti ne abbiamo fatti e ne facciamo; ma di quanti serbiamo memoria?...
«Io ero nel più bel paese del mondo, una spiaggia tutta frondosa e fiorita, dinanzi a un mare azzurro aleggiato da tepide brezze, veleggiato da candide ali. Un tempio marmoreo sorgeva dinanzi al mare, ed era dedicato alla Fortuna. Giorno e notte la gente vi traeva da ogni parte, per tentarla, e coloro che la mutevole Dea favoriva ne uscivano carichi d’oro, e quelli che osteggiava si precipitavano, ridotti alla miseria e alla disperazione, da altissime rupi sopra irte scogliere. Il tintinnio dell’oro scandeva le musiche echeggianti sotto le vôlte del tempio; creature di favolosa bellezza vi si aggiravano, affascinanti come sirene. La donna dalla cui vista rimasi abbagliato non era la più desiderata: altre si traevano dietro codazzi di spasimanti; ed io sentivo il bisogno di render conto a me stesso della mia scelta, pensando a quel che ci accade quando siamo dinanzi alla mostra d’un gioielliere. Anche se non abbiamo da comprar nulla, se fantastichiamo che qualcuno, un amico straricco e generoso, o lo stesso mercante, ci offra di portar via un oggetto di nostro gusto, noi non preferiamo il più vistoso, ma il più squisito. Come dire la squisitezza, la leggiadria, la grazia, l’incanto, il fascino di quella creatura? Mai ne avevo vista un’altra altrettanto espressiva. Il fervore della sua intima vita non si rivelava solamente dagli occhi profondi, mutevoli, languidi e sfavillanti, limpidi e tenebrosi, ma da ogni tratto del viso, da ogni atteggiamento della persona. La chioma bionda e ricciuta era tutta ardore, tutta capricci; le guance avvampavano come per baci che invisibili labbra vi stampassero o si sbiancavano come per parole mortali che ella sola udisse; nei fremiti delle sue proprie labbra, delle mobili nari, delle mani nervose, passavano baci, sorrisi, carezze, repulse, disdegni, meraviglie, desiderî, cupidigie, tutti i moti d’un’anima sincera, tutti gli atteggiamenti d’una vita intensa. Era straniera, principessa, ricca a milioni; ma non sfoggiava la sua ricchezza: in mezzo a gente che ostentava il lusso più ricercato, era semplice, disadorna, quasi dimessa; ma nella sua semplicità nessuna riusciva altrettanto elegante, d’una eleganza così discreta, istintiva, connaturata, la più rara, la più invidiata, quella che non si acquista.
«Suo marito, gigantesco, soldatesco, poteva esserle padre. Tentava costui assiduamente la fortuna alle tavole del giuoco, con singolare freddezza, con perfetta padronanza di sè stesso; mentre, intorno a lui, non vedevo se non facce pallide o accese, occhi spalancati, avide bocche, mani frementi. Ella non giocava: leggeva, ricamava, passeggiava nei giardini incantati, lungo il placido mare; ed io non sapevo in che modo accostarla per dirle il prodigioso effetto che la sua vista aveva prodotto in me. Mi pareva che tutte le donne prima conosciute nulla m’avessero rivelato del sesso loro, che ella soltanto lo incarnasse, ne possedesse tutti gli attributi, ne potesse rivelare tutto il mistero. E mentre così pensavo, sentivo anche l’impossibilità di giungere a lei, come ad una vetta altissima, inaccessibile. Ci sta ella dinanzi, sul cielo azzurro, tra le nubi, e par quasi che la tocchiamo con la mano, e che uno slancio ce la farà guadagnare; ma se il desiderio ha le ali, le gambe sono di piombo e c’impediscono di muovere un passo. Tale era l’angoscioso sentimento della mia impotenza, mentre volevo compiere eroismi che avrebbero fermato l’attenzione di lei. Improvvisamente le parlai. Che stranezza! aver pensato di gettarmi in mare per trarre un naufrago alla riva, di raggiungere a corsa sfrenata un cavallo impazzato per afferrarlo e domarlo, di meritarmi con qualche impresa similmente ardua e nobile un suo sorriso, ed ottenerlo poi col più semplice e comune dei gesti!...
«Ella che non avevo mai vista nelle sale del giuoco, vi si appressò una volta mentre anch’io mi accingevo ad entrarvi. I giocatori che vi s’ingolfavano, impazienti di raggiungere i loro posti, avidi di guadagno, ignoravano o dimenticavano i più elementari doveri di cortesia: si affollavano, si sospingevano, si urtavano, come impazzati: io le cedetti il passo e trattenni coloro che mi stavano dietro, reggendo la bussola. Mi guardò, come stupita dell’atto; sorrise con indicibile grazia, e mormorò nella sua lingua:
«— Molto gentile!
«Tanto tempo addietro, a scuola, io avevo studiato quel nordico idioma, ma per mancanza di esercizio lo avevo quasi del tutto disimparato: ad un tratto l’espressione adatta alla circostanza mi salì alle labbra:
«— Doveroso semplicemente!...
«La rividi a pranzo, alla tavola rotonda.... Come mai nel mio stesso albergo? Non me ne ero accorto prima, o vi si era traslocata quel giorno?... Stava seduta ad una tavola non molto discosta dalla mia, ed io che l’avevo trattata con tanto rispetto dinanzi all’entrata delle sale, con altrettanta indiscrezione fermai allora su lei l’avido sguardo. Non parve che se ne accorgesse. Dopo pranzo, quando il marito l’ebbe lasciata, mi ritrovai accanto a lei nel vestibolo, presso al guardaroba: le chiesi il permesso d’aiutarla a mettersi il mantello, le porsi la borsa ed i guanti.
«— Grazie!... — disse ella. — Siete italiano?
«— Come lo sapete?
«— Non è difficile indovinarlo, al viso, ai modi, all’accento.
«Mai avevo udito voce così musicale, una voce di contralto, grave e dolce, come d’oro. Le sue ultime parole furono dette in francese. Si era accorta di qualche mio errore nel parlare la sua lingua? Voleva rendermi più agevole la conversazione?
«— Venite nelle sale di giuoco? — le domandai, adoperando il francese a mia volta.
«— Non giuoco.
«— Che importa! Vedere gli altri è uno spettacolo.
«— Penoso.
«— Non sempre.
«— E voi, giocate?
«— Talvolta.
«— Che cercate nel giuoco?
«— Il giuoco!
«— Buona fortuna!
«Mi porse la mano soave con moto lento, pieno di grazia; si allontanò con passo lieve; la vidi sparire, svanire, quasi svaporare tra le ombre del giardino.
«Alla tavola verde, fin dal primo colpo, le monete cominciarono ad accumularsi dinanzi a me. Vinsi, vinsi, non so quanto, non so come, con le puntate più rischiose, contro tutte le probabilità. Non le calcolavo, buttavo la posta sopra un numero qualunque, giocando veramente per giuoco, come per conto d’un altro, come se le monete fossero gettoni. Invece di badare ai colpi della fortuna, consideravo coloro che la sfidavano, studiavo le loro espressioni e i loro atteggiamenti: i visi pallidi, smarriti, con gli occhi fuori dell’orbita, degli uomini in disdetta; quelli animosi, ridenti, coi muscoli del viso corsi da lievi tremiti, di coloro che vincevano; le donne più avide, più intente, con moti e scatti nervosi alle perdite; lente e come assorte nei calcoli, ma tuttavia inconsapevoli durante le vincite.... Accumulandosi l’oro e i biglietti di banca dinanzi a me, qualche cosa come ventimila franchi, mi parve di udire la voce di lei che ammonisse: «Ora basta!...»; ma non l’ascoltai, continuai a puntare, con eguale, con maggiore disinvoltura, come ebbro. E cominciai a perdere. La fortuna si era stancata. Non mi arrestai: volli sfidarla. A poco a poco tutta la vincita sfumò, perdetti anche il denaro che avevo portato meco. Quando non ebbi dinanzi altro che due monete d’oro, lasciai il posto, uscii nel giardino. Ella era ancora lì; le andai incontro, col cappello in mano.
«— Avete vinto o perduto?
«Trassi di tasca le due monete e gliele mostrai.
«— È tutta la vostra vincita?
«— È quanto mi rimane, dopo aver vinto ventimila franchi.
«Ella tacque un poco, poi domandò:
«— Che conto fate del denaro?
«Per tutta risposta, con un moto istintivo, con uno scatto improvviso, lanciai le due monete lontano, tanto lontano che non si udì il rumore della caduta.
«Il gesto non la stupì. La notte era divina, senza vento, tutta costellazioni rutilanti come serti di gemme; Venere, perla miracolosa pendente sulla linea dell’orizzonte, rigava il mare del suo riflesso, quasi liquefacendosi. Sentii gonfiarmi il petto da un desiderio di morte.
«— Così getterei la vita per voi, — mormorai, — per vedervi apparire stanotte lassù, in camera mia....
«Non parve offesa nè semplicemente stupita dalle mie parole, come se avessi espresso un sentimento naturale e doveroso, una verità elementare ed ovvia. Se avesse risposto una sillaba, se avesse fatto un cenno, avrei scavalcato la terrazza precipitandomi in mare. Come mi era sembrato di non aver bene conosciuto nessuna donna prima di lei, così mi sembrò in quel momento di non aver mai veramente vissuto: tutta la vita mi parve destituita di valore e di significato senza l’amor suo.
«Il marito sopravvenne: ella mi presentò. Neanch’io mi stupii che ella conoscesse il mio nome. Certamente doveva averlo trovato sulla tabella dei viaggiatori dopo aver saputo il numero della mia camera. Ma io non avevo pensato di fare altrettanto con lei, non sapevo come si chiamasse.... Su, in camera, durante la notte insonne, restai a lungo immobile sopra una poltrona, mi buttai vestito sul letto, tornai a levarmi più volte, sempre con lo sguardo all’uscio, come se da un momento all’altro dovesse schiudersi, come se un’ombra bianca, lieve e silenziosa, dovesse apparirvi. Non apparve, ma la vanità dell’aspettazione non mi deluse, come non mi aveva stancato la sua lunghezza. Tanto avevo disperato, prima di parlarle, tanto mi era sembrata lontana, formidabile, inaccessibile, altrettanto mi sentivo ora animato da luminose speranze.
«Il domani la incontrai nella sala di lettura. Le dissi, come la cosa più semplice del mondo, come la sola cosa che dovessi naturalmente dirle:
«— Perchè non siete venuta?
«Mi guardò senza meraviglia; sorrise appena; rispose con un’altra domanda, socchiudendo gli occhi:
«— Perchè mi avete aspettata?
«Allora parlai. Tutto ciò che avevo sentito per virtù sua, il senso di vanità trovato in tutte le cose e l’ebbrezza di vivere accanto a lei, la moltiplicazione di tutte le mie potenze vitali e la dispersione d’ogni mia volontà, la certezza che mi avesse compreso e il bisogno di annientarmi per provarle la mia sincerità: tutti i contrasti della sfiducia e della fede, delle esaltazioni e degli abbattimenti, tutto le dissi con una eloquenza della quale io stesso ero meravigliato. Mai avevo parlato con tanta facilità, con tanto impeto, con tanto fuoco, nella mia propria lingua; non una parola mi mancava nella straniera, come se qualcuno, un suggeritore invisibile, me le venisse dettando, da un libro.
«— Come volete ch’io creda a questo amore? — domandò ella quando tacqui.
«— Che cosa ve lo impedisce?
«— Mi conoscete da qualche giorno, mi avete parlato due volte appena!
«— Una sarebbe bastata.
«— Non sapete chi sono, donde vengo, dove vado, come penso, quanto valgo. In queste condizioni non è possibile amare: si può desiderare soltanto.
«— Forse che l’amore è una cosa diversa da questo desiderio veemente, cocente, struggente, supplice, disperato, mortale, vitale? Non so chi siete? So che siete la bellezza, la meraviglia, la grazia, la seduzione, l’incanto. Che cosa vorreste che sapessi di più? Il resto che m’importa? Il resto che importa? Non si avvilisce l’amore riducendolo al desiderio, poichè quando il desiderio cessa, resta l’indifferenza o il disgusto.
«Mi parve di aver formulato una di quelle sentenze la cui verità è lampante, inconfutabile, assiomatica; mi stupii meco medesimo di essere così concettoso e persuasivo.
«Ella disse:
«— Tutti i giuochi vi sono familiari, compreso quello delle parole.
«Il richiamo al giuoco mi suggerì un’idea:
«— Volete che ci affidiamo al caso?
«— Come sarebbe a dire?
«Non potei spiegarmi, sopravvenendo gente di sua conoscenza. La invitai per il pomeriggio in una «Tea-room», una sala dove gl’Inglesi prendevano il tè, dinanzi a minuscole tavole, senza far rumore, quasi compiendo un rito.
«— Il caso governa tutta la nostra vita, sempre, anche quando ci crediamo maggiormente padroni di noi stessi. Esso ci ha sospinti alla stessa ora, da luoghi tanto discosti, in quest’angolo del vasto mondo; esso determinerà i nostri futuri rapporti. Pensate ai vostri antichi amori: non dipesero da un concorso di circostanze fortuite? Al convegno dove foste vinta, lo scoppio d’un temporale, l’incontro di un importuno, il malessere d’un parente, l’arrivo d’una notizia, il più piccolo contrattempo vi avrebbe fatto mancare. Se l’uomo che vi sedusse avesse parlato un giorno prima o un giorno dopo, un’ora prima o un’ora dopo, se non avesse toccato un certo tasto, se non avesse preso un certo atteggiamento, se non avesse proferito una certa frase, se non avesse taciuto una certa parola, non vi avrebbe soggiogata. La vostra passione o la vostra saggezza, la vostra sconfitta o la vostra vittoria, tutto il destino della nostra intima vita, tutta la successione dei nostri casi esteriori, sono stati e sono continuamente determinati da avvenimenti minimi, infimi, imprevisti, imprevedibili, indipendenti da noi, prodotti dal giuoco di forze cieche ed inconsapevoli. Oggi, a quest’ora, nè io nè voi possiamo dire che cosa accadrà di noi: tanto è probabile che ci perderemo di vista fra qualche giorno o qualche settimana, senza conoscerci più addentro, dimenticandoci, quanto che ciascuno di noi debba vivere indelebilmente nella memoria e nel cuore dell’altro. Invece di aspettare che il caso compia l’opera sua più o meno lentamente e c’imponga a nostra insaputa la sua risoluzione, vogliamo interrogarlo subito ed uniformarci consapevolmente alla sua risposta?
«— In che modo?
«Trassi di tasca il taccuino, ne strappai due foglietti, scrissi sull’uno: «Partite», sull’altro: «Restate».
«— Ecco: vedete queste due parole su questi due pezzi di carta?
«— Le vedo. E poi?
«— Io arrotolo i cartellini in modo che non si possano distinguere l’uno dall’altro, li getto nel mio cappello, così.... Voi ne prenderete uno: se sarà quello dove si legge «Partite», partirò domani col primo treno, sparirò, non vi rivedrò mai più; se sarà l’altro....
«Ella mi guardò un istante con occhi ingranditi dalla curiosità e dallo stupore; poi scoppiò in una risata, una risata schietta, sonora, squillante, che ci attirò gli sguardi severi degli astanti scandalizzati.
«— Sapete che siete un originale? Nessuno mi crederà, quando narrerò che mi fu fatta una simile proposta!
«— Mai proposta fu più ragionevole. Della stravaganza ha l’apparenza soltanto.
«— Io dovrei esser vostra per aver posto la mano sopra un pezzo di carta piuttosto che sopra un altro? Voi sareste contento di prendere una donna così, come si vince un oggetto alla lotteria?
«— Non come un oggetto!... Siate sincera! Dentro di voi c’è un contrasto di opposti impulsi, di istinti antagonistici: molte voci vi dicono di resistere, ma qualcuna, sia pure una sola, parla pure in favor mio. Se vi fossi odioso, o soltanto indifferente, non sareste, a quest’ora, in questo luogo, con me. Voi mi respingete e mi attirate ad un tempo, volete ascoltarmi e non volete abbandonarvi: non sapete precisamente qual è la vostra volontà. Da questa incertezza il caso vi farà uscire a poco a poco: sarà lui quello che vi agguerrirà contro la tentazione o che se ne renderà complice. Io vi propongo di affrettarne il responso. Se dirà ch’io resti, non dovete far altro se non ascoltare la voce che vi parla per me, che vi dice la forza della vampa suscitata in me, l’intensità della gioia che mi dareste, a cui voi stessa partecipereste....
«— E se sortisse il cartellino con la parola «Partite»? Partireste come promettete, senza far nulla per tentare di rivedermi?
«— Ve lo giuro su quanto ho di più sacro.
«— E volete ch’io creda al desiderio che v’arde? Che cosa è dunque questo vostro incendio, se siete capace di spegnerlo con un atto di volontà?
«— Ma non di volontà! Non mi fraintendete! La mia volontà non è irresoluta come la vostra. La mia volontà, il mio piacere, il mio bisogno sarebbe di prendervi fra le braccia, di stringervi al petto, di portarvi via come una cosa preziosa, un tesoro trafugato, un bene essenziale; ma se, dopo aver tentato tutte le vie del vostro cuore, dopo avere aspettato tutte le occasioni propizie, non riuscissi a commuovervi, dovrei pure necessariamente uniformarmi all’avverso destino. Se sortisse la parola che mi ingiungesse d’andarmene, mi rassegnerei al decreto della sorte, come se le vostre stesse labbra lo avessero proferito.
«Allora fece un gesto col capo che mi parve di consentimento. Le porsi l’urna improvvisata perchè prendesse uno dei cartellini. Distese infatti la mano, ma per respingere il mio braccio.
«— No!
«— Perchè non volete?
«— Avete risposto a tutte le mie obbiezioni, ma ve n’è ancora una che non potete distruggere.
«— Quale?
«— Trovatela!
«La cercai, infatti, ma infruttuosamente. La mia attenzione era incapace di soffermarsi sul quesito, di antivederne tutte le soluzioni possibili. Mi rammentavo di certi tormentosi problemi algebrici studiati a scuola, pensavo al binomio di Newton, sentivo di dover adattare alla circostanza il calcolo delle combinazioni. Tentavo di ragionare: — Il caso, interrogato, potrà rispondere «sì» o «no», mentre ella stessa, in cuor suo, potrà propendere per il «sì» o il «no». Allora possono determinarsi queste combinazioni: ella può dir di «sì» e il caso dire anch’esso di «sì».... o di «no» e il caso di «no».... o di «no».... o di «sì».... o di «no».... — e la mia mente si confondeva in questo giuoco di alterne risposte.
«Quando ebbe goduto un poco del mio imbarazzo ella si alzò, dicendomi:
«— Accompagnatemi a casa: ho molte lettere da scrivere.
«— Non vi rivedrò fino a domani?
«— È molto difficile. Domattina parte mio marito.
«— Allora verrete a pranzo con me?
«— Volentieri, se potessi. Ma nel pomeriggio partirò io stessa.
«— Non è una difficoltà.
«— Ma all’ora del vostro pranzo non sarò più qui!
«— Non importa! Non vi chiedo di rinunziare alla partenza. Mi basta che accettiate l’invito.
«— Se non si tratta d’altro che di accettare!
«— Grazie! Penserò poi io a farvi mantenere l’impegno.
«— Sono molto curiosa di sapere come farete! A che ora, il vostro pranzo?
«— All’ora vostra consueta, naturalmente.
«— Io pranzo alle otto.
«— Resta stabilito per le otto.
«— Benissimo. Sapete che prenderò il lampo delle sei e quindici?
«— Farò tesoro dell’informazione. Alle otto sarete a tavola con me.
«Avevo parlato senza sapere che cosa dicessi, per il bisogno di parlarle, per trattenerla meco, per ottenere da lei qualche cosa, non foss’altro a parole; quando compresi ciò che avevo detto, quando domandai a me stesso come avrei fatto per vincere, una luce m’illuminò. Nelle profondità della coscienza un piano si era disegnato, a mia insaputa, e mi si presentava ora con tutti i particolari. Il treno-lampo delle sei e quindici doveva essere quello di Parigi. Il domani sera, alle cinque e mezzo, salii in camera mia a cambiarmi, m’annodai la cravatta nera al collo, indossai lo «smoking»; alle sei e dieci arrivai alla stazione, senza valigie. Quando ella mi vide entrare nella sala d’aspetto diede in una matta risata.
«— Grazie d’esser venuto a salutarmi! Vi manca un bel mazzo di fiori da offrirmi!...
«— Non avete di che ringraziare. Compio semplicemente il mio dovere. Chi invita deve aspettare i proprî ospiti. I fiori, ch’io sappia, si fanno trovare sulla mensa.
«— Ah! Ah!...
«Tintinnio di campanelli, sbattere d’usci, fischi prolungati: il treno entrò sbuffando sotto la tettoia. Ella si alzò, io presi la sua borsa, le feci strada tra la calca, l’accompagnai fino alla carrozza coi letti, l’aiutai a salire sul terrazzino, porsi il suo minuscolo bagaglio al conduttore.
«— Avete tutto? — le domandai.
«— Tutto, grazie!
«Mentre ella dava a verificare i suoi biglietti, mi volsi intorno. L’uomo che cercavo, in livrea, con un foglio nella sinistra e una matita nella destra, annotava le ordinazioni dei viaggiatori: gli feci cenno d’avvicinarsi, gli dissi rapidamente:
«— Un pranzo riservato, per due, da servirsi dopo Cannes. Avete fiori?
«— Pochi, signore, e non belli.
«— Telegrafate a Nizza per procurarvene. Eccovi del denaro.
«— Benissimo!
«Adempiuta la formalità della verifica, ella si rivoltava in quel punto per dirmi, col più grazioso dei suoi sorrisi e stendendomi la mano:
«— Ancora una volta grazie!... Buona permanenza!...
«Una tromba squillò, la macchina fischiò. Io che ero rimasto dinanzi al terrazzino, col cappello in mano, mi ricopersi, mi afferrai alla colonnina, e montando risolutamente sulla carrozza, corressi:
«— Dite buon viaggio, piuttosto.... Ma l’augurio è soverchio, perchè in vostra compagnia queste ore voleranno deliziosamente.
«La risata alta, argentina, cordiale, riecheggiò mentre il treno si metteva in moto.
«— Ridete, ridete pure. Ora siete in mio potere!
«— Come sarebbe a dire?
«— Ospite in casa mia!
«— Sul treno?
«— Avete accettato, sì o no, di pranzare con me?
«— Ho accettato!
«Non so come passò quella prima ora, non rammento che cosa dicemmo. Vi sono molte altre lacune nel ricordo del mio sogno. Voi sarete anzi stupite ch’io vi riferisca tutti questi discorsi; ma, naturalmente, non garantisco che tali fossero le nostre precise parole; nè, del resto, importa che sieno testuali, se ce n’è il senso.... Rammento benissimo che da quanto ella diceva non traspariva il minimo cruccio; mi pareva anzi piacevolmente stupita e incuriosita dall’avventura. Alla stazione di Nizza m’affacciai al terrazzino: vennero i fiori, rose e garofani meravigliosi; gliene offersi una parte:
«— Permettete? Poichè ne avete espresso il desiderio! Quelli della mensa saranno più tardi al loro posto.
«L’uomo in livrea passava sulla fronte del convoglio gridando:
«— Wagon restaurant!... Wagon restaurant!...
«— Ma è già l’ora di andare a tavola! — osservò la mia ospite.
«— Per gli altri. Voi non avete detto che pranzate alle otto? Alle otto sarete servita.
«— Siete perfetto!
«La parola che definiva lo stato dell’animo mio, la tensione dei miei nervi, l’esasperazione della mia volontà, mi salì alle labbra:
«— Sono pazzo....
«— Allora, diciamo che siete un pazzo perfetto!
«Ci chiamarono nella carrozza da pranzo quando avevo stabilito: allo scoccare delle otto. Quel treno era d’una puntualità cronometrica; tutte le circostanze sulle quali avevo fatto assegnamento si avveravano, con una precisione, con una facilità che mi stupivano, come dovute all’intervento di una forza misteriosamente propizia; il sordo timore d’un contrattempo, la secreta inquietudine per qualche improvvisa difficoltà o pericolo, si disperdevano. La nostra tavola era tutta fiorita; alle altre non c’era più nessuno. Il cameriere ci serviva come un automa, impassibile alle risate della mia compagna. Ella mangiava e rideva. Tra uno scoppio di risa e l’altro, esclamava:
«— Che stravaganza!... Conoscervi da tre giorni, avere accettato un invito a pranzo per la certezza di evitarlo, e trovarmi ora qui, con voi, mentre il treno ci porta via correndo a ragione di ottanta chilometri l’ora!...
«— Avevo ragione di dirvi che avrei vinto?
«— Avete vinto!
«Volevo sorridere di trionfo, ma sospirai di rammarico:
«— E che mi vale?
«— Non siete contento?
«— Io?... — mi corressi; — io sono felice!...
«La sua bellezza sfolgorava. Alla luce delle lampadine incappucciate di rosso, tra le rose, la carnagione del suo viso, delle sue braccia nude velate da una bionda pruina, aveva riflessi di raso vivo. I suoi occhi sfavillavano, accesi dal piacere, dall’ilarità, dalla curiosità. Quella animazione era bene opera mia, ed io dicevo tra me che bisognava essere di molto difficile contentatura per non gustare il singolare incanto, il delizioso turbamento di quell’ora fugace su quel convoglio in fuga. Prima di conoscerla, che cosa non avrei dato per poterla avere con me, da sola a solo, nell’intimità d’una specie di viaggio di nozze? Il cameriere che ci serviva, i viaggiatori che ci avevano visti scendere e risalire da una carrozza all’altra, non dovevano crederci sposi in piena luna di miele? Io non dovevo avere eccitato un senso d’invidia pungente tra gli uomini che ammiravano quella stupenda creatura?... Cinquantacinque franchi e cinquanta centesimi di pranzo, settanta franchi di fiori, venti franchi di mancia: l’illusione di esser parte della sua vita, la realtà di occuparne un’ora, mi venivano ancora a buon mercato.
«Traendo con le labbra di fragola lievi boccate di fumo dalla sigaretta che le avevo offerta, ella discuteva meco, per l’appunto, quanto valga l’amore d’una donna, che cosa metta conto di fare per ottenerlo.
«— Nulla!... — affermava sdegnosamente. — Se fossi uomo non farei nulla.
«— Dovreste distinguere, almeno, fra donna e donna.
«— Sono tutte uguali! Non valgono più di questo.... — e col mignolo scosse la cenere della sigaretta nel calice del vino spumante.
«— Se anch’io dicessi così?
«— Non sareste galante, ma vi stimerei sincero.
«— Ecco, per esempio, — esclamai con finta serietà, — valeva proprio la pena che lasciassi l’albergo, il mio buon letto, per farmi sballottare fino a Marsiglia e tornarmene poi solo, nel cuore della notte, per niente?
«Ella mi guardò con uno strano sorriso, il sorriso della sfinge dopo aver proposto l’enimma. Voleva dire che essendo io causa del mio male, non avevo da prendermela con altri fuorchè con me stesso? Oppure che la mèta del mio viaggio poteva anche essere più lontana ch’io non credessi?...
«Il treno rallentò: era il momento di tornare ai nostri posti. La riaccompagnai sulla carrozza coi letti, schiusi l’uscio della sua cabina, lasciai che ella passasse, m’indugiai un istante per considerare il lettuccio già pronto ad accogliere la bella persona. Ella mi stese la mano dicendomi:
«— Vi ho conosciuto abbastanza per giudicarvi uomo di spirito. Mi resta da sapere se siete gentiluomo.
«— Sentite, — risposi, — se la mia assicurazione non basta a lasciarvi dormire tranquilla, non posso far altro che buttarmi a capo fitto giù nella via....
«E feci il gesto di aprire il finestrino. Ella mi fermò col braccio.
«— Ho visto che siete testardo. Sareste capace di fare ciò che dite. Se v’impegnate ad accettare una proposta, sono sicura che manterrete la parola.
«— Qualunque cosa mi chiediate.
«— Sapete perchè vado a Parigi?
«— No. Probabilmente....
«— Probabilmente?...
«— Per raggiungere un amante.
«— Ora siete maligno. Vado a raggiungere mia sorella, che torna da Bruxelles.
«— Debbo credervi?
«— Ve lo posso provare.
«— Bisognerebbe che vi seguissi sino alla fine del vostro viaggio.
«— Dipende da voi.
«— Non chiedo di meglio.
«— Se mi promettete di ripartire subito, prendendo il treno del sud in coincidenza con quello che avrà trasportato mia sorella, io vi permetterò di accompagnarmi fino a Parigi.
«— Ve lo prometto. A che ora arriva vostra sorella?
«— Non lo so. Troverò al telegrafo sue notizie. Può darsi che venga col treno delle due e quindici: in tal caso lasceremo in deposito i miei bagagli, entreremo in città, mi inviterete a colazione e mi riaccompagnerete poi alla stazione. Ma se arrivasse alle dieci e trenta dovreste ripartire immediatamente, non avremmo altro tempo che di prendere una tazza di latte al «buffet». Vi conviene?
«— È detto che resterò con voi fino all’arrivo di vostra sorella?
«— È detto.
«— Allora, buona notte!
«— Buona notte.
«La lasciai, andai a buttarmi sul mio giaciglio, con una nuova febbre addosso, la febbre dell’aspettazione. Il treno precipitoso mi sembrava troppo lento. A Parigi! A Parigi! Non vi ero stato ancora, avevo sempre rimandato a miglior tempo quel viaggio tanto desiderato, quasi prevedendo di doverlo compiere in circostanze romanzesche, di dover giungere nella metropoli in compagnia d’una straordinaria creatura. A pochi passi da me, dietro alcune pareti di assi, quali pensieri volgeva ella nella mente? Che cosa provava per me? A quali prove mi avrebbe sottoposto? Forse non lo sapeva ella stessa; molto probabilmente riposava, tranquilla, serena, mentre io contavo le ore di quella notte eterna. Come avevo già provato la sensazione fisica dell’inarrivabile, provavo ora quella dell’interminabile: mai più si sarebbe fatto giorno, mai più saremmo giunti.... Un sobbalzare più brusco sugli scambii più frequenti, un fischiare più lungo e rauco, ed eccoci a Parigi. Corsi incontro alla mia compagna; prima d’ogni altra cosa vidi che aveva appuntato al seno i fiori della sera innanzi. All’ufficio telegrafico, quando lesse il foglietto azzurro, un nuovo sorriso, enimmatico come quello rivoltomi sulla soglia della cabina, le sfiorò le labbra.
«— Leggete.
«Lessi. La sorella diceva che le era stato impossibile partire, che sarebbe arrivata il domani alle dieci e trenta. Un lampo di gioia dovette accendermi lo sguardo.
«— Mi avete promesso di restare con me fino all’arrivo di vostra sorella?
«— Ve l’ho promesso.
«— Non mi potete più mandar via fino a domani! A che albergo scendete?
«— Io scendo al «Grand Hôtel», ma siccome vi andrà domani anche mia sorella, non è possibile farmi vedere oggi lì con voi.
«— Dove volete dirigervi allora? — le domandai, per non confessarle che venivo a Parigi la prima volta.
«— Non so.... — rispose, cercando. — Mi conoscono anche al «Bristol».... Ho sentito parlar bene del «Louvre»....
«— Al «Louvre»! — ordinai al facchino che portava il suo piccolo bagaglio. Le chiesi anche la ricevuta dei bauli, li feci ritirare come se fossero miei, e salimmo sopra un omnibus della Compagnia ferroviaria, tutto pieno di gente diretta, come per una tacita intesa, allo stesso albergo: alcuni viaggiatori, sopravvenendo tardi, restarono a terra. Noi vi stemmo pigiati, a disagio, e io domandavo a me stesso il perchè di tanta ressa, che cosa mai veniva a fare tutta quella folla. Le vie e le piazze della metropoli mi passarono dinanzi come dietro la lente d’un cosmorama, come dipinti sopra uno scenario, tanta era la mia inquietudine di non trovare alloggio, di dover cercare un altro albergo, di doverle confessare che non conoscevo la città. Giunti che fummo, domandai al portinaio:
«— Avete posto?
«Bisognava dire: — Dateci due camere — per evitare che ci considerassero come sposi. L’equivoco era tanto naturale, che ci guidarono ad una camera nuziale.
«— Ne abbiamo bisogno di due, — dissi al cameriere.
«— Mi rincresce, — rispose quell’uomo, — ma non abbiamo altro che questo salottino.... — ed in così dire schiuse uno degli usci laterali, mostrandomi una piccola stanza sprovveduta ed incapace d’un letto, addobbata soltanto d’un divano, di qualche poltrona, d’una scrivania e d’una specchiera.
«— Va bene, — dissi, soggiungendo poi, sottovoce, rivolto alla mia compagna: — La camera è vostra, io dormirò su quel divano.
«Ella che durante le trattative era rimasta a guardare tutt’intorno, indifferente, si tolse il cappello quando fummo soli, si tolse i guanti, si acconciò dinanzi allo specchio dell’armadio i capelli. Io trassi dalla sua borsetta il mazzo delle chiavi, dischiusi i suoi bauli e la sua cappelliera, e cominciai a trarne fuori la roba.
«— Vi ringrazio! — esclamò con effusione. — Fare e disfare i bauli è per me lo scotto insopportabile del piacere di viaggiare.
«— Sono qui per risparmiarvi ogni pena.
«Dalle vesti, dalle gonne, dai corpetti esalava un profumo acuto, carnale, inebbriante. La biancheria intima era d’una ricchezza straordinaria, le camicie da notte particolarmente, morbide, seriche, spumose, orlate di trine finissime, infiocchettate d’azzurro e di roseo. Da un involto trassi le pantofole, tutte acciaccate dalla pressione: ridiedi loro la forma perduta perchè fossero pronte ad accogliere i piedi, dei quali ottenni così la misura e quasi sentii il contatto.... Quando ella ebbe tutto ciò che le occorreva, mi disse:
«— Ecco: basta così! Ancora grazie!
«— Di niente! Ora avrete bisogno di cambiarvi, di riposare. Vi lascio; tornerò verso mezzogiorno, per la colazione: volete?
«— A mezzogiorno, benissimo. Arrivederci.
«— Arrivederci!
«Pensavo che un altro sarebbe stato meno riguardoso, non avrebbe insistito per le due camere, non si sarebbe tratto da parte con tanta discrezione; ma sentivo anche di non averne nessun merito, giudicandola semplicemente doverosa, ragionevole e prudente. Tentare di abusare di lei sarebbe stato un errore, oltre che una volgarità: io potevo offenderla ed alienarmela. Dovevo stender le mani per significare che desideravo cogliere il dolce frutto? Ma il mio desiderio non aveva più bisogno di altre espressioni, a quell’ora.... Ed io non volevo strappare il frutto, volevo che cadesse da sè. Con l’idea che quello fosse un viaggio di nozze, provavo l’imbarazzo presentito nell’immaginare di trovarmi con una sposa, avvertivo il pericolo di urtarla con qualche espressione od atteggiamento intempestivamente confidenziale.... Bisognava aspettare. Da un momento all’altro, naturalmente, per un incidente imprevedibile, per una parola, per quell’opera del caso di cui le avevo dimostrato l’importanza, i nostri rapporti si sarebbero mutati nel senso dei mio desiderio.
«Uscii nelle vie. Un sentimento di stupore mi occupava: ero a Parigi, dove avevo tanto sognato di andare, un giorno; e vi ero per un giorno, in sogno — poichè avevo, a tratti, la coscienza di sognare. Allo stupore s’aggiungeva l’imbarazzo, non sapendo da che parte rivolgermi, a qual mèta avviarmi. Ma superiore alla somma dell’imbarazzo e dello stupore era un altro sentimento, esagerato, di sogno: la vergogna di andare attorno, a quell’ora mattutina, con lo «smoking» serotino. Mi pareva che tutti i passanti mi guardassero curiosamente, che gli stessi gendarmi mi tenessero d’occhio, insospettiti. Come avrei fatto se mi avessero fermato e chiesto le mie carte? Ah, ecco: mi sarei fatto condurre all’ambasciata, dove qualcuno, un segretario, un addetto, avrebbe saputo dire chi ero. Passando dinanzi ad un negozio di abiti fatti, vi entrai per comprare un soprabito. Comprai anche una camicia, che indossai, col pretesto di vedere se mi stava bene, perchè quella portata in viaggio era tutta sgualcita; mi annodai al collo un’altra cravatta, di colore, acquistata anch’essa lì per lì. Quando tornai all’albergo con questo nuovo aspetto, ella mi disse in tono di amabile rimprovero:
«— Ah! mi avete dunque ingannata?
«— Come mai?
«— Fingendo di partire improvvisamente, senza bagaglio! Avevate invece spedito le vostre valigie, se ora vi siete cambiato!
«— Ma niente affatto! Queste sono mentite spoglie: osservate!... — ed apersi il soprabito perchè vedesse l’abito nero.
«Rise ancora, mentre le spiegavo come avevo fatto e le chiedevo il permesso di tenere il soprabito in sala da pranzo per non espormi alla curiosità dei commensali con quel ridicolo «smoking» a colazione. Ella era riposata, fresca, smagliante, più vaga, più deliziosa che mai. La colazione fu squisita; dopo uscimmo in carrozza; l’accompagnai in un giro di compere. Che impressione! Io non so se un giorno prenderò moglie; con grande probabilità continuerò ad astenermene; ma se mi accadrà di sposare una creatura diletta, se me la porterò via per il mondo, non credo che potrò provare un senso di gioia così pieno, di così intima felicità come quello che mi occupò. Mi pareva che quella donna fosse mia realmente, che io entrassi con lei in una nuova esistenza. Con che gioia le fiorii di nuove rose fresche il seno! Il tempo era delizioso, il cielo divino, la metropoli tutta fervida di vita. Ne cercavo i luoghi celebri, i monumenti insigni, descritti nei libri, illustrati negli albi; ma non li riconoscevo, o li ritrovavo diversi da quelli che immaginavo: taluni più vasti e solenni, altri al contrario più semplici ed angusti. Quando ella non ebbe da far altro, andammo al museo del Louvre. Che senso di meraviglia durante quella sfilata attraverso le sale meravigliose, specchiate dai pavimenti come da acque di lago, in mezzo alla profusione dei capolavori! Ella se ne rivelava giudice fine e sagace: le tele e le statue dinanzi alle quali si soffermava spiccavano realmente per qualche singolare qualità d’invenzione o di fattura, ed in quella creatura vibrante e fremente l’ammirazione si rivelava con la commozione della voce, con l’umidore degli occhi, con l’imminenza del pianto. Fino a quel momento io avevo apprezzato in lei la bellezza della forma ed il brio dello spirito; fra i miracoli dell’arte, riconoscevo l’acutezza della sua intelligenza, la serietà della sua cultura, la delicatezza dell’anima sua: cose prima intuite, ma ora misurate. E come mi lodavo di essermi frenato, di non averla offesa con qualche brutalità!... Usciti dal museo le offersi il tè. Andammo a prenderlo all’«Hôtel Riche»: mi indicò ella stessa quel sito, oppure mi rammentai che qualcuno me ne aveva parlato.... dove?... quando?... Chi sa!... Venticinque franchi di tè: i prezzi mi sono rimasti nella memoria non solamente per l’altezza straordinaria, ma anche per una sottile inquietudine di restare a corto di quattrini. Partendo per poche ore, non avevo pensato di dover rifornire il portafogli: quelle cinque o seicento lire che conteneva mi erano sembrate più che sufficienti; ma non sarebbero finite presto, spendendo a quel modo? Che importa! Avrei telegrafato, avrei lasciato in pegno le perle del mio sparato. E poi, la squisitezza del godimento era tanta, che nessun’ansia, nessuna paura l’avrebbe mai pagata abbastanza.
«Tornammo a casa al tramonto, mentre sul cielo d’oro si accendevano innumerevoli lune d’argento. Ella montò su in camera, dovendo vestirsi per il pranzo e per il teatro: passando dinanzi ad un ufficio di locazione avevamo prese due poltrone per l’«Opéra». La lasciai salir sola. Se avessi obbedito all’istinto, l’avrei seguita come la sua propria ombra; ma non volevo che le mie assiduità le pesassero, che mi giudicasse importuno ed esigente. Dopo avere sfogliato i giornali nella sala di lettura, salii anch’io, entrai nel salottino, mi disciolsi dinanzi allo specchio la cravatta di colore e riannodai la nera: mi ritrovai subito in tenuta da sera.
«— Siete pronta? — le domandai, dietro l’uscio, dopo avervi discretamente picchiato.
«— Eccomi!
«Era abbagliante di bellezza e d’eleganza, da far gridare, da far morire. Entrò al mio braccio nella sala splendente di luci: tutti gli sguardi si fermarono su noi, su lei. Come s’intitolava, di chi era il melodramma che davano all’«Opéra»? Non rammento altro se non che aveva per argomento una leggenda del nord. Certo io non udii mai una musica così divina. Tutti i sentimenti ai quali ero in preda dal momento che avevo conosciuto la mia compagna fino a quell’ora, la mia meraviglia, il mio desiderio, la mia febbre, la mia esaltazione, erano significati da quei suoni, da quei canti, come se io stesso li avessi espressi dal fondo dell’esser mio, come se fossero esalati dalle mie labbra nei languori dell’estasi, negli ardori della brama. Ella udiva e taceva con me; durante gli intermezzi proferì giudizî, intorno al valore espressivo della musica, ai rapporti fra questa e la poesia, che non si colgono spesso su labbra femminili. Accanto a quella straordinaria creatura, tra la folla festosa della sala fastosa, dinanzi ai vivi quadri che fantastici eroi e bellezze miracolose di ninfe e di amazzoni componevano e scomponevano sulla vasta scena, in mezzo all’oceano di onde sonore dilaganti dall’orchestra potente, un vapore di ebbrezza mi salì al cervello: all’ultima scena, una scena di amore sovrumano e di eroica morte, la tentazione prepotente di stendere la mano, di prendere quella della mia compagna, la mano nervosamente afferrata al bracciuolo della poltrona, di stringerla forte per significare in qualche modo la mia commozione, mi fece sollevare il braccio; ma poi mi contenni. Finito lo spettacolo le proposi di entrare in un Caffè; quando ne uscimmo ella volle tornare a casa a piedi. Pareva che il mio pensiero fosse il suo: prolungare le ore di quella notte. Era ella spinta dallo stesso mio sentimento? Io aspettavo l’avvenimento risolvente, l’incidente decisivo. Un’immagine mi occupava: quella della nave nella cui stiva le mercanzie si accatastano: le botti, le casse, le balle, i cesti; più carico essa riceve, più si immerge, finchè il livello del mare raggiunge il limite estremo segnato da una riga bianca sui fianchi poderosi; ma poichè quel segno è grosso parecchi centimetri, e molte e molte altre tonnellate farebbero abbassare lo scafo di qualche frazione di millimetro appena, così è ancor possibile imbarcare tanta altra roba, e ancora infatti se ne imbarca; non parliamo dei passeggeri col loro bagaglio, perchè essi sono troppo poca cosa a paragone della capacità del battello, e quanti ne arrivano tanti vi salgono; ma ecco che il livello preciso della massima immersione possibile, il livello segnato dalla linea ideale, infinitamente più sottile di un filo di capello, dalla linea matematica, senza spessore apprezzabile dai sensi umani, sta per esser toccato; ed ecco che per conseguenza bisogna andar cauti, perchè ora ogni aggiunta al carico potrebbe determinare il tracollo.... Era un paragone simile a quello del bicchier d’acqua che una semplice goccia fa traboccare; ma non so perchè io mi apprendessi a questo della nave; forse per un’associazione d’immagini, trovandomi in viaggio? Da trenta ore io condividevo la vita di quella donna; avevo percorso con lei tanta strada, avevo trascorso un’intera giornata in sua compagnia, insieme avevamo fatto e visto e detto tante cose; la nostra intimità si era venuta sempre più stringendo ad ogni episodio di quell’avventura. L’ora critica era imminente, ormai, come per la nave sotto carico: quando essa sta per toccare l’ultimo limite del galleggiamento, si può ancora imbarcarvi qualche balla, e poi ancora qualche botte, e poi ancora qualche barile; ma, a furia di aggiungere altri pesi, anche piccoli, arriva pure un momento in cui questa cosa paradossale è possibile: che un pacco, meno ancora, un plico, meno ancora, una striscia di garza, la manderà a fondo. La mia compagna m’aveva consentito tante cose, da un giorno e mezzo, restando perfettamente padrona di sè; io m’ero astenuto da ogni atto, da ogni discorso che potessero sembrare minimamente aggressivi: una parola, un gesto, uno sguardo me l’avrebbe fatta cadere nelle braccia.... Io prolungavo l’aspettazione per cogliere l’istante propizio: voleva ella forse ritardarlo?
«Ad una cert’ora fu impossibile restare nel Caffè: già i camerieri raccoglievano le seggiole, le disponevano sui tavolini, spargevano segatura di legno sul pavimento, spegnevano una parte delle lampade elettriche. Quando arrivammo all’albergo il portone, naturalmente, era chiuso. Il portiere di notte ci aperse, il cameriere di guardia ci accompagnò fin sull’uscio del salottino, girando la chiavetta della luce. Dischiusi io l’uscio della camera da letto, dicendo alla mia compagna:
«— Vivessi mill’anni, non dimenticherò mai le impressioni che vi debbo.
«— Partirete domani col treno che arriverà da Calais?
«— Il treno arriverà alle dieci e trenta per ripartire alle undici e cinque. Se volete, v’accompagnerò alla stazione; quando andrete incontro a vostra sorella vi lascerò: potrete assicurarvi coi vostri occhi che salirò su quel convoglio.
«— Senza discenderne dall’altra parte?
«— Mi sono comportato in modo da farvi sospettare della mia sincerità?
«— Avete ragione!...
«— Ora siete stanca? Volete andare a dormire?
«— Che ore sono?
«— Le due meno un quarto.
«— È più che tempo!
«— Buona notte! — le augurai, stendendole la mano.
«— Mi rincresce veramente — rispose, ricambiando la mia stretta — che ne dobbiate passare un’altra a disagio.
«— Starò più comodamente su questo divano che non sul treno. Soltanto, se permettete....
«— Dite pure!
«— Vorrei prendere un guanciale dal letto.
«— Ma ve ne prego!
«Entrai in camera, presi il guanciale, tornai ad augurarle:
«— Buona notte!
«— Buona notte!
«E chiusi l’uscio dietro di me. Avrei potuto indugiarmi ancora per dirle: «Non è incredibile questa nostra situazione? Non sarò oggetto di beffe, quando narrerò fino a che segno ho mantenuto la mia parola?...» Ma questi, e simiglianti discorsi, sarebbero stati pretesti evidenti e grossolani: tanto sarebbe valso trasgredire più sostanzialmente la promessa fatta. L’incidente che doveva risolvere quella nostra situazione non si era ancora prodotto, la parola non era stata detta, lo sguardo non era stato scambiato. Il caricamento della nave era cessato alla linea matematica della massima immersione possibile. La porta chiusa dietro di me era come il boccaporto inchiavardato. Non ostante, io restavo nella medesima fiduciosa aspettazione. Non accade tante volte di prendere a bordo qualche collo sopra coperta?...
«Disponendomi a passare la notte su quel divano, vi accomodai il guanciale e andai ad accostare gli scuri della finestra. Dinanzi all’uscio che mi divideva da lei porsi l’orecchio, udii cigolare i gangheri dell’armadio, aprire qualche cassetto, rimuovere le porcellane sul lavabo, versare dell’acqua nella catinella. Senza ragionarvi sopra, per un moto istintivo, attaccai l’occhio al buco della serratura: non vidi altro che un’ombra trascorrere sulla parete: il tappeto attutiva il rumore del passo. Tornato al divano mi tolsi l’eterno «smoking», e ad un tratto pensai d’aver fatto male, la mattina, non comperando, oltre quella da giorno, anche una camicia da notte. Come era possibile riposare con quel colletto, quel petto e quei polsini tanto abbondantemente insaldati che parevano di legno? E allora, con gli occhi della mente e del desiderio, rividi le camicie da notte della mia compagna, quelle camicie nivee, fragranti, carezzose, lievi come di garza.... Tornai ad accostarmi all’uscio: non si udiva più nulla. Picchiai con le nocche delle dita, discretamente.
«— Chi è?
«— Sono io.... vorrei pregarvi....
«— Che dite? Non capisco....
«Un poco più forte, ma non troppo, per paura che qualche vicino udisse, ripresi:
«— Siete a letto?
«— Non si sente!... Aspettate.
«Dopo qualche momento udii risonare la voce più da presso, quasi dietro l’uscio.
«— Che cosa volete?
«— Sentite, vorrei darvi una preghiera.
«— Dite su!
«— Non posso dormire con questa camicia insaldata come una corazza.
«— E che posso farci?
«— Vorreste prestarmi una delle vostre?
«Mi rispose una delle sue risate più sonore, più provocanti, più scandalose, da destare i vicini immersi nel sonno. Concitatamente, ma studiando di frenarmi, insistetti:
«— Che c’è da ridere?... Volete destare tutto l’albergo?... Mi avete compianto perchè mi tocca passare la notte sopra un divano!... Potete contribuire ad alleviare il mio tormento.... Se ci avessi pensato, mi sarei provvisto stamani dal camiciaio, quando comprai quella da giorno.... temete che ve la sciupi, la vostra camicia?
«— Non temo, no!... Ah!... Ah!... Ma non pensate?... Come non pensate?...
«— Che cosa?
«— Quanto sarete buffo!
«— Che ve ne importa, se non mi vedrete?
«— Ah! Ah! Ah!
«— Sono contento di tenervi di buon umore, ma ridete un poco più piano!... Me la date, sì o no?
«— Ma proprio?... Dite proprio sul serio?
«— State pur certa che non sono d’umore da scherzare.
«— Se la volete proprio.... Un momento: aspettate....
«La voce tacque. Tesi l’orecchio: silenzio profondo. Poi un gemito di molle: ella era tornata a letto. Poi la voce risonò ancora una volta, lontana, percorsa ancora da fremiti d’allegria:
«— Venite a prenderla....
Il narratore, che aveva fatto qualche pausa qua e là, nei punti salienti del racconto, per eccitare la curiosità delle uditrici, per accrescere l’effetto delle cose dette, fu a questo punto costretto a tacere dalle esclamazioni delle signore:
— Basta così!... Abbiamo capito!... Vi facciamo grazia del resto!...
— Ma lasciatelo dire!... — intervenne Ferdinando Anselmi. — Egli deve certo soggiungere una cosa essenziale: che nessuna donna di carne e d’ossa gli ha mai fatto provar nulla di minimamente paragonabile a ciò che provò con quella del sogno: è vero?
— È vero.
— Accade sempre così. Disgraziatamente, anche tu dovesti destarti sul più bello, e te ne rimase come un senso di vuoto, come un bisogno di stender la mano per trattenere il fantasma fuggente, come un’angoscia nostalgica ed inconsolabile.
— Qui t’inganni, — rispose Alberto Mauri. — Io mi destai di molto buon animo, il domani, nella camera dell’«Hôtel Riche», a Parigi.
— Come?... Che vuol dire?... Ma dunque?... Ma allora?...
— Così. Vi ho detto che fu un sogno, perchè del sogno ebbe la stranezza, la difformità, l’incredibilità; perchè se vi dicessi che fu realtà, non potrei darvene la prova, nessuna prova, neanche il più piccolo indizio. Di quella donna io non seppi e non so il nome. Il domani della notte nuziale l’accompagnai alla stazione e la lasciai andare incontro alla sorella: da quel momento non l’ho mai più riveduta. Mi chiese di non scriverle, di contentarmi che neanche ella mi scrivesse, di non guastare con parole inutili il ricordo del nostro unico giorno d’amore. Dietro di noi, neanche la più tenue traccia. All’«Hôtel du Louvre», a Parigi, ci chiesero naturalmente i nostri nomi, ma neppur io potrei ritrovarli su quel registro, perchè furono nomi fantastici, inventati da lei, da lei stessa trascritti, e perchè non conosco la sua scrittura. Non solamente agli altri, ma neanche a me stesso io posso più dimostrare che non sognai. Il luogo reale dove la conobbi, dove non sono più tornato, è nella mia memoria trasfigurato: se vi ho parlato di una riva incantata e d’un tempio della Fortuna, è perchè Montecarlo e il Casino, da quell’unica volta che li vidi, hanno perduto i loro contorni reali nei miei ricordi, si sono annebbiati e confusi. Di lei non so più nuova, se vive o se è morta, dov’è, che cosa fa; e se volessi rintracciarla, non saprei da che parte rivolgermi; e se lo sapessi, non ne farei nulla. Col suo fulgore tollerabile, con la sua accessibile e umana divinità, ella mi diede nella vita reale l’impressione del sogno: bene è che resti confusa con le figure del sogno, con le immagini della fantasia, con le incerte creature nate dal desiderio folle e distrutte dal rapace obblio.