Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.


UNA MONETA INEDITA


DI CAMPOBASSO



Alla moneta della città di Campobasso, conosciuta e descritta dal Galanti, dal Giustiniani, dal Muratori, dal Vergara, oggi bisogna aggiungerne una, diversa dalla prima, ed affatto inedita1.

Venne essa, da un anno appena, raccolta tra le mura del diruto castello feudale in S. Croce di Magliano, insieme ad altre già note di Campobasso e di Acaja. Al pari di queste è di biglione, o, più italianamente, di argento con forte lega di rame. Buona è la sua conservazione, quantunque non sia fior di conio. Il tipo è quello dei tornesi, così chiamati dai tournois, denari della chiesa di Tours, che si cominciarono a coniare nella seconda metà del secolo sesto.

Essa ha il tondello del diametro di diciannove millimetri, la costa di circa cinque decimillimetri, ed il peso di grammi due e mezzo. Nel diritto è in rilievo una croce slargata nelle sue punte, detta croce patente, in un circolo di perline, girata dalla leggenda CAMPIBASSI, che comincia con una cometa e termina con una stella di sei raggi ai lati d’una crocetta; tale leggenda vien circoscritta in un’altra corona di perline, dalla quale avanza poco campo. Nel rovescio poi è il castello o il fastigio d’un tempio2, (nel quale altri videro erroneamente le manette e i ceppi, che usarono per emblema i re di Francia, dopo la prigionia di Lodovico IX), e nella restante area, proprio ai lati inferiori di tale impronta, sorgono due gigli, cari ai re francesi, mentre intorno è segnata pure l’epigrafe CAMPIBASSI chiusa da puntini, invece della nota leggenda Nicola Come. L’epigrafe comincia e termina con una stella di sei raggi ai fianchi d’una crocetta posta in cima al castello, e più grossa di quelle impresse nelle altre monete di Campobasso. Il biglione è di qualità molto più scadente di quella delle altre comuni di detta città.

Quali le differenze tra l’attuale e la già cognita moneta campobassana?

Prima fra tutte la qualità del metallo, per la lega più bassa, inoltre i gigli non comparsi mai in altri esemplari, ed infine la dizione Campibassi in luogo della solita Nicola Come.

Date queste notevolissime varianti, non è possibile, a mio credere, assegnare alla nuova moneta il secolo XV inoltrato, come all’altra di Campobasso3, (che si vuole da taluno4 allogare in epoca molto più remota); ma bisogna rimontare all’occaso del XIV od all’alba del XV, non potendosi attribuirla a Nicola Monforte.

Ed infatti, se avesse avuta comune l’origine con l’altro tornese, che porta il nome del Conte Cola Monforte, per qual ragione questi, uomo ambiziosissimo5, avrebbe trasandato di porre il proprio nome sulla nostra moneta, nel tempo in cui egli, temuto e rispettato, cercava ogni mezzo per ostentare i diritti della sovranità, fra cui vi è quello di battere moneta?

D’altra parte quell’omissione, che non giovava punto al piccolo despota, sarebbe riuscita a tutto benefizio della città di Campobasso; poichè avrebbe potuto far intendere, che questa godeva di una certa libertà comunale, ed aveva ottenuto il privilegio di battere moneta, in quanto che solo ai comuni liberi si permetteva nei tempi trascorsi la coniazione delle monete con stemma e leggenda propria6, che non ricordava alcun principe.

Ma la via più certa, per assegnare il tempo della nuova moneta, sta nella serie cronologica dei Conti di Campobasso. Per indicare la quale, io mi avvalgo tanto della Dissertazione storico-critica della casa Manforte dei conti di Campobasso, quanto all’Elenco delle concessioni del feudo di Campobasso, fatte da diversi sovrani, secondo i diplomi esistenti nel Grande Archivio di Napoli.

Dal 1250 al 1326 Campobasso fu dato, con investitura feudale, a Tommaso Artuso conte di Celano, a Guglielmo conte di Laureto, e poi di mano in mano a Roberto, a Guglielmo e a Tommasella di Molise.

Alla morte di Tommasella, che fu maritata ad un conte Riccardo di Gambatesa, dice la Dissertazione, fu, per eredità, investita del feudo di Campobasso la figliuola Sibilla, maritata a Giovanni Monforte venuto di Francia nel 1312.

Da Giovanni e Sibilla nacquero Riccardo e Manfredi. Il primo ebbe nel 1326, da Roberto d’Angiò, la concessione di Campobasso, e il secondo quella di S. Croce di Magliaiio e di Casalvatica. Questo Riccardo, poi, in memoria del suo avo materno, aggiunse al cognome Monforte quello di Gambatesa, e perciò da molti scrittori F uno va confuso con l’altro Riccardo. Della moglie di Riccardo il nome non è giunto sino a noi.

Guglielmo, figlio di Riccardo, e terzo del nome fra i signori di Campobasso, fu sì caro a re Ladislao, che fatto prima consigliere di Stato, venne poi innalzato a vicerè nella campagna di Roma e Maremma. Guglielmo, sposatosi ad una signora di casa Montagnana, generò con lei tre figli: Angelo, Carlo e Riccardo.

Nel dominio di Campobasso Angelo fu il quarto conte di casa Monforte, e con Giovanna di Celano, sua consorte, procreò Nicola e Carlo. Questi due giovani, formati alla scuola dell’insigne capitano Giacomo Caldora, divennero entrambi valorosi guerrieri, che in parecchie memorie del tempo vengono con lode ricordati; ed in particolare Antonio Panormita, nel registrare i nomi di coloro, che furono compresi nel generale parlamento tenutosi in Napoli da Alfonso I d’Aragona il 28 febbraio del 1443, fra gli altri signori intervenuti, menziona un Cola di Campobasso pel conte di Campobasso suo padre, ed un Carlo di Campobasso7.

Nicola, come primogenito, successe al padre Angelo. Egli edificò nel 1458 su gli avanzi dell’antico castro, i quali ricordano le costruzioni dell’epoca osca8, il superbo castello, le cui mura sfidano tuttavia gl’insulti del tempo, munendolo di tutte le opere di difesa utili o necessarie a quell’epoca9. Per aver preso le parti degli Angioini, venne da Ferdinando I d’Aragona spodestato; ond’è che lasciato il regno, seguì in Francia il Duca di Angiò nel 1462. Colà passò a militare sotto Carlo il Temerario: dal quale essendo stato percosso con una guanciata, si vendicò dell’offensore, abbandonandolo a tradimento: e poichè la sua diserzione aveva contribuito alla disfatta e alla morte del Duca di Borgogna innanzi alle mura di Nancy, scrisse nella sua bandiera il motto: Ingentia marmora findit caprificus.

Angelo II, figlio di Nicola, fu richiamato in Napoli dal re Ferdinando, riebbe il dominio di tutti gli stati posseduti dal genitore, e così divenne il sesto Monforte conte di Campobasso. Prese per moglie Giovannella Caracciolo.

Nicola II figlio di Angelo II, ultimo Monforte conte di Campobasso, sollevò alla discesa di Carlo Vili la bandiera di Francia, e quindi fu costretto a lasciare tutti i suoi possessi nelle mani del re Ferrante II di Aragona.

L’Elenco, ricavato dal Grande Archivio di Napoli, ci dice, che la prima concessione del feudo di Campobasso venne nel 1326 fatta da Roberto d’Angiò a Riccardo Monforte; che questi abbia avuto per successore Carlo; e Nicola I appare figlio di Carlo, piuttosto che di Angelo. Poi dal 1395 al 1464 si dice ritornato alla corona il feudo di Campobasso. Nel 1465 di nuovo tu conceduto ad Angelo figlio di Nicola I. e da Angelo lasciato in eredità a Nicola II, il quale n’ebbe l’investitura nel 1495.

Ma poichè l’Elenco salta da Riccardo a Carlo, che, quale cadetto, non ebbe mai il dominio di Campobasso; e poichè fa tornare questo dominio alla corona dal 1395 al 1464, mentre in quel tempo vi ebbero l’alta e la bassa giurisdizione Guglielmo, Angelo e Nicola, io preferisco di attenermi alla Dissertazione, che (salvo la inconseguenza di attribuire i medesimi fatti così a Nicola I, come a Nicola II), ci dà la vera serie dei Conti di Monforte.

Premesse queste notizie, a me par certo che il denaro di Campobasso con la leggenda Nicola Come debba riferirsi a Nicola I, e giammai a Nicola II. Coloro i quali l’hanno attribuito a quest’ultimo si son presa la cura di aggiungere, che egli fu il conte di Campobasso, che tradì Carlo il Temerario, oppure che visse fra gli anni 1450 e 1462; e con tali determinazioni venivano a correggere la inesattezza della parola numerale. Ed invero il breve, oscuro dominio dell’ultimo conte di Campobasso male risponde alla manifestazione di vigorosa signoria feudale, implicita nella coniazione delle monete: mentre un tal tatto si addice benissimo a tutti gli atti di Nicola I.

Nondimeno F. de Saulcy10, cui ripugnava pure quest’ultima attribuzione, recisamente affermava, che i tornesi di Campobasso fossero del secolo XIV, non già del XV. Ma quando egli emetteva quest’opinione, i dati scientifici si presentavano in modo, da dargli un’apparenza di ragione. In quanto che se la zecca di Clarenza cessò di battere moneta con Roberto figlio di Filippo di Taranto, cioè nel 1364, pareva poco probabile, che i tornesi dei principi di Acaja si prendessero ad imitare, ad un secolo di distanza, da un conte di Campobasso.

Ma oggi la questione ha mutato aspetto. Già la serie dei conti di Campobasso, che io ho voluto premettere, dimostra, che il primo conte di nome Nicola essendo colui, che si ribellò a Ferdinando I con la venuta di Giovanni d’Angiò, il tornese con la leggenda Nicola Come non può risalire oltre la metà del secolo XV. E poi, il secolo di distanza, fra le ultime monete di Acaja ed il primo tornese coniato nel Reame, non è più un’obbiezione dopo la scoverta del tesoretto di Napoli avvenuta nel 1886. Poichè questo, con i tornesi napoletani battuti sotto Carlo di Durazzo e Ladislao, cioè dal 1384 al 1414, ha dimostrato11, che quando in Grecia decadevano i dominii latini, e la loro moneta scarsamente coniata non bastava agli scambi commerciali, che il Reame di Napoli aveva col principato di Acaja ed il ducato di Atene, allora appunto cominciarono le zecche del regno a produrre i tornesi richiesti dal commercio. E nulla vieta, o meglio tutto induce ad ammettere, che a quella rinnovellata coniazione di tornesi abbia partecipato Campobasso con la moneta, che io ho la fortuna di pubblicare. La quale perciò si può riferire o al conte Guglielmo, o ad Angelo I, che vissero al tempo di Ladislao.

I piccoli gigli, che fiancheggiano il castello, possono ritenersi come il segno parlante, che ricorda il Monforte, autore della moneta. Il quale, più modesto del proprio figlio, o nipote Nicola, non osò di far imprimere il proprio nome, e fu contento del segno, che indicava la parentela della sua famiglia con la Casa reale di Francia.

Più tardi il conte Nicola, volendo battere moneta trovava un modello quasi domestico a cui attenersi: e così entra ultimo nella serie dei tornesi napoletani quello di Nicola di Monforte conte di Campobasso. Al quale io ho, in questa mia povera illustrazione, attribuito sempre una sola moneta. Ma prima di por termine, non voglio mancar di avvertire, che sulla fede dell’anonimo autore della Dissertazione, Nicola di Campobasso coniò altre due monete, che esistevano presso il canonico Alessandro Maria Kalefati. Entrambe con i tipi della croce patente e del castello, hanno per leggenda. l’una Nicola de Monf )( Comes Campobassi12, l’altra Nicola Com )( de Monfort13. Ma fino a quando la loro autenticità non venga meglio documentata, credo sia più prudente attenersi all’unico tornese, che trovasi nelle pubbliche e nelle private raccolte. Vi è parimenti da notare, che il tornese del conte Nicola fu, da imitatori o contraffattori, combinato con elementi delle monete di Acaja, o in maniera nuova riprodotto. Lo Schlumberger14 addita tre tornesi di tal fatta: in uno il nome Nicola è ripetuto sui diritto e sul rovescio, in altro è unito a Clarentia, in un terzo Nicola Conn è unito a Florens P. Ach.

S. Elia a Pianisi, Aprile 1895.

Francesco di Palma.          



  1. Ceduta al Museo Nazionale di Napoli.
  2. Ducange, Glossar. mediae et infimae latinitatis.
  3. De Petra G., Tesoretto di monete tornesi.
  4. De Saulcy Francesco, Numismatique des Croisades.
  5. Albini P., Lo stemma di Campobasso. ~ Perrella A., L’antico Sannio, ecc.
  6. Garrucci R., Saggio della storia d’Isernia.
  7. Ciarlanti G. V., Memorie storiche del Sannio.
  8. Mommsen, Friedlaender, Albini, Perrella.
  9. Muratori, Galanti, Perrella, Albini.
  10. Op. cit., alla nota 3, pag. 169.
  11. De Petra G., Op, cit., alla nota 2.
  12. Dissertazione, frontispizio.
  13. Dissertazione, pag. XI.
  14. Numismatique de l’Orient latin, Paris, 1878, pag. 357, nota 4.


Note

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