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V.
Gli parve di respirare più liberamente quando l’aria aperta lo percosse sul volto, rinfrescando il calore delle sue membra ardenti di febbre: quella dolce sensazione gli parve fargli bene. Per la strada Vittoria scese alla Marina. A misura che l’influenza di quella bella sera s’insinuava nel suo organismo, egli sentiva però crescere e giganteggiare un fantasma che voleva scacciare con tutte le forze dell’essere suo... che l’atterriva.
Sotto il Seminario, vicino Porta Marina, in una bottega, udì i suoni di alcuni strumenti da fiato e da corda che eseguivano una polka, e i passi saltellanti e vigorosi di coloro che ballavano.
— Costoro si divertono; — diss’egli, — chi sa se anch’io vi potrei almeno dimenticare!...
Fece alcuni passi per entrare nella bottega di tabacchi che precede l’ignobile sala da ballo, ma non ebbe la forza di farlo. L’istinto, l’abitudine piuttosto, del giovane bene educato non gli permise di mischiarsi senza transazioni a quanto vi avea d’impuro e d’abietto in quella gentaglia, operai d’infima classe, lustrastivali, borsaiuoli, barcaiuoli e femmine di mala vita, che componevano la società di quel ballo.
— Oh! stordirmi! stordirmi!... — esclamò egli, con un accento quasi doloroso, fermo in mezzo al viale ove avea incontrato Narcisa e questa l’avea guardato.
E partì di buon passo per la strada Stesicorea; ai Quattro Cantoni entrò alla Villa di Sicilia.
Era la capitolazione del giovane di buona famiglia, che non osava ancora penetrare nella taverna per ubbriacarsi e cercava la taverna elegante. Al garzone, che gli domandava cosa ordinasse, rispose di non saperlo, di recare quel che voleva, come per esempio un’insalata, purchè l’accompagnasse di una bottiglia di marsala.
Il cameriere guardò sorpreso quel giovane che beveva una bottiglia di marsala su di un’insalata.
Pietro fu quasi atterrito, quando, riflessa dirimpetto a lui, su di uno specchio, vide una sinistra figura da spettro, col cappello ammaccato, i capelli incollati e cadenti sul volto di un pallore che sembrava terreo, magro in modo da far luccicare straordinariamente il bagliore che la febbre dava ai suoi occhi, i quali sembravano più grandi; cogli abiti scomposti; egli stentò un pezzo a riconoscere se stesso, e finalmente un riso amarissimo errò sui suoi labbri violacei.
Il cameriere gli recò quanto avea ordinato; egli cominciò a bere il vino senza toccare l’insalata. Allorchè sentì i polsi battergli più forte, le gote animarsi, i vapori annebbiare la sua testa, ancora vertiginosa, egli si alzò, dopo aver pagato lo scotto, ed uscì.
— Ora andiamo al ballo! — mormorò con triste sarcasmo; — forse anch’ella, a quest’ora, è alla sua festa!...
E scacciando un’ultima volta quest’immagine che, anche fra i fumi del vino, anche nel momento che si stordiva per non vederla e che la fuggiva nello stravizzo, trovava modo d’inchiodarglisi ferocemente nel cervello, egli corse alla Marina; esitò ancora un istante prima di mettere il piede su quella soglia, e finalmente entrò nella bottega che precedeva lo stanzone ove si ballava. Fingendo di dover comprare sigari, domandò a colui che stava al banco se l’entrata al ballo era libera per tutti, pagando; colui lo squadrò dal capo alle piante, come sorpreso che un giovane il quale indossava abiti piuttosto eleganti venisse a cercare una tal festa; poi, alzando le spalle con ruvida indifferenza, gli rispose con un cenno del capo affermativo. Brusio, pagati alla porta i pochi centesimi che davano diritto all’entrata, passò nella sala da ballo.
Era, come abbiamo accennato, una stanza assai grande, illuminata da lampade ad olio, con alcune panche disposte in giro alle pareti, su di una delle quali sedevano un contrabbasso, un violino ed un flauto che facevano saltare col movimento della polka una ventina di ballerini e ballerine.
La vista del giovane in cappello a cilindro fece impressione certamente, poichè le danze furono sospese, e tutti si volsero a guardare con curiosità il nuovo venuto; poco dopo incominciò a farsi udire un mormorio di cattivo augurio contro quell’importuno che veniva a disturbare il loro passatempo.
— Egli viene a ridere di noi... il signorino! — esclamò una delle donne, che si appoggiava alla spalla di un uomo atletico, vestito di velluto e di volto assai caratteristico.
— Noi non andiamo a mischiarci alle sue smorfiose... quando essi si divertono!... — gridò un’altra.
— Non vogliamo seccatori qui! non vogliamo spie! — urlò una terza voce.
— Ora vado a prendere per le spalle questo piccino e te lo metto fuori, — disse l’uomo erculeo alla sua donna.
E si avanzò, col cipiglio arrogante, verso di Brusio, il quale ancora esitava ad inoltrarsi.
— Che vuoi tu? — gli disse colla voce dura dell’imperio che esercitava sui suoi compagni quando gli fu faccia a faccia, covrendolo quasi col suo largo petto e la sua alta statura.
— Non ho da dirlo a te, nè a nessuno qui! — rispose il giovane, irritato, quantunque avvinazzato, da quella brutale famigliarità, guardandolo fisso negli occhi.
— Per Cristo! non hai da dirlo a me? — rispose sghignazzando il colosso. — Ma sai che qui sei in casa mia, e che se ti prendo fra l’indice ed il pollice ti stritolo?!...
— S’è casa tua ci resto! — disse Pietro coll’ostinazione dell’ubriachezza o del puntiglio giovanile; — in quanto a stritolarmi provati!
E incrocicchiò le braccia sul petto, stendendo un passo in avanti e postandosi solidamente sulle sue gambe snelle ma nervose, come se aspettasse l’assalto.
L’altro fece ancora un passo, minacciandolo dello sguardo più che del gesto, con la bravata audace e cinica che dà la coscienza della superiorità fisica in tali uomini; e mormorò, con voce che cominciava ad essere rauca d’ira, accostandosi sin quasi a toccarlo col petto:
— Vattene!
— No! — rispose Pietro bruscamente.
Il gigante stese le braccia per afferrarlo; le braccia muscolose del giovane lo ributtarono due o tre passi all’indietro con un vigore che il bravaccio non avrebbe mai supposto in quel corpo magro e svelto; allora mise un urlo di rabbia: l’urlo della iena che ha sentito pungersi mentre scherzava; e afferrata una sedia la slogò di un sol colpo sul pavimento, tornando quindi verso di Brusio con la sbarra pesante e ruvida fra le mani, che brandiva sulla sua testa come una clava. Pietro, dal canto suo, fu lesto ad impadronirsi del bastone di uno dei suonatori, che si erano salvati dietro le panche, e a pararsi il colpo con quello.
Allora cominciò un combattimento accanito e feroce fra l’uomo atleta, che mugghiava come un toro ferito per la rabbia che non poteva sfogare, rabbia accresciuta dalla inopinata resistenza che incontrava e che gli toglieva il prestigio d’invincibilità nell’opinione dei suoi compagni, ed il giovane alto, sottile, pallidissimo, colle grosse labbra chiuse e sdegnose, l’occhio scintillante, la fronte alquanto calva, altiera ed impassibile, su cui si appiccicavano i capelli arruffati e si schiacciava il suo cappello a cilindro. Per fortuna Pietro aveva studiato la scherma del bastone con maggiore attenzione di quanta ne avesse messa ad ascoltare le lezioni del canonico Russo; fu perciò col massimo piacere degli spettatori, comprese le femmine, che questi assistettero a quel duello singolare fra i due avversarii degni di starsi a fronte l’un l’altro; essi battevano le mani ai bei colpi, e incoraggiavano con acclamazioni i combattenti. Brusio non era più uno straniero per loro, un signorino, ora che maneggiava sì bene il bastone.
L’uomo vestito di velluto avea il braccio e le reni solidi come bronzo, e molta abilità in questa maniera di scherma, ciò che gli faceva menar colpi che calavano giù rombando terribilmente; il giovane però, se non avea la forza muscolare del suo avversario, lo vinceva nell’elasticità e sveltezza dei movimenti e nel sangue freddo inalterabile, che in lui era uno strano effetto della collera, con cui aggiustava i suoi colpi e parava quelli che gli venivano. Tutt’a un tratto una legnata violenta di Brusio spezzò la spada colla quale il bravaccio parava il colpo alla testa, e si vide quest’ultimo stramazzare a terra colle braccia stese: avea il cranio spaccato.
Successe uno straordinario tafferuglio: alcuni gridavano evviva, altri imprecavano e minacciavano Pietro più seriamente al certo di quanto fosse stato minacciato sino allora, poichè nella mezza luce si vedevano luccicare lame di coltelli affilati.
— Silenzio, canaglia! — si udì gridare una voce la quale avea tutte le gradazioni fra quella dell’uomo e quella della donna, — questo giovanotto lo proteggo io! è dei nostri!... Ha cuore e pugno... Egli vuol essere dei nostri, giacchè è venuto; non è vero?
— No! no! Sì! sì! — urlarono alcune voci avvinazzate: — Non vogliamo cappelli! non vogliamo signorini!... Viva il signorino! egli ha il pugno di ferro! egli ha vinto Nicola!
Nulla avrebbe potuto sedare quello schiamazzo, e Pietro avrebbe corso fors’anche il più grave pericolo, minacciato dalla vendetta degli amici del caduto, quantunque difeso anche dal piccol numero dei suoi ammiratori; un altro combattimento, in più grandi proporzioni, era almeno imminente, se non fosse entrato in quel punto il padrone dello stabilimento; il quale, impassibile sin’allora a quanto era avvenuto, dietro il suo banco della prima camera, accorreva dimostrando nel gesto e nella fisonomia l’importanza della notizia che recava:
— I carabinieri! — diss’egli — I carabinieri! — fu gridato da ogni parte.
E tosto amici e nemici si fusero in un lodevole accordo a nascondere in uno stanzino il mal capitato Nicola, cui, quantunque fosse rinvenuto e mandasse lamentevoli gemiti, nessuno avea badato, a lavare il pavimento lordo di sangue, e a tirare i suonatori da sotto le panche.
— La Fasola! la Fasola! — fu gridato da tutti.
Venti braccia soffocarono Pietro in un energico amplesso; e venti voci, anche di quelle che avevano minacciata la sua vita un momento innanzi, gli susurrarono:
— Siamo amici, non è vero? Sei dei nostri!... Vuoi essere dei nostri?
— Sì, son dei vostri!... amici! tutti amici! — rispose Pietro, urlando tanto forte da cercare di soffocare le stesse parole che proferiva; stendendo le mani alle venti mani nere e callose che gli venivano stese, onde stordire tutto quello che sentiva d’ignobile, di ributtante, di vile in quell’accozzaglia alla quale veniva a domandare le sue distrazioni; ballando anche lui quella ridda infernale sul sangue versato da poco e ancora tiepido... Egli, a misura che le acri esalazioni di quei cenci e di quei corpi, e l’esaltazione avvinazzata di quel tripudio cominciarono ad offuscargli il cervello, come il Marsala non aveva potuto fare; egli, che aveva avuto ribrezzo a toccare la mano di quella femmina, spudorata corifea della festa, ch’era stata la donna di Nicola, cominciò a saltare più furiosamente degli altri, a stringersi più ebbro quell’abbietta creatura fra le braccia...
Due ore dopo mezzanotte egli usciva stordito, briaco da quell’orgia; ancora sbalordito dal baccano che avea fatto il suo cuore; mormorando come per illudersi anche in quel momento:
— Oh! la vita!... Questa è la vita!... Donne e vino!... Viva l’allegria!
Da quel giorno, o piuttosto da quella notte, Pietro Brusio cominciò una vita indegna ed abbietta, di cui egli cercava occupare tutti gli istanti con gli eccessi più sfrenati, per non darsi il tempo neanche di vedere dov’era caduto. Egli faceva sforzi sovrumani per annegare nel frastuono, nell’ubbriachezza, quanto sentiva ancora di elevato e di nobile nel suo cuore, che gli rimproverava come un rimorso la vita che menava, e gli faceva pensare spesso, malgrado la sua disperata volontà, malgrado gli eccessi a cui ricorreva, a quella donna fatale di cui malediva la memoria.
Spesso fra le orgie più impure, nell’ubbriachezza più profonda, egli rimaneva in disparte, muto, pallido, coll’occhio fisso e pensieroso. Spesso, al contrario, stringendosi una di quelle femmine da trivio fra le braccia egli mormorava un nome cogli occhi umidi di lagrime: ciò che rendeva dapprincipio attoniti, e faceva ridere dappoi i suoi compagni di stravizzo.
Egli logorava la giovinezza del suo cuore e del suo corpo in questa vita febbrile, divorante, che s’era imposta; fuggiva lo sguardo della madre e delle sorelle come se avesse temuto di contaminarle col suo, come se avesse temuto che la muta eloquenza dell’occhio umido della madre gli facesse sentire tutta l’infamia dell’abbiettezza in cui affogava le sue memorie e il suo amore, che provava ancora rigoglioso e potente. Fuggiva gli amici di una volta, che forse avrebbero potuto rimproverarlo col loro freddo contegno; Raimondo, cui non si sentiva bastante coraggio di avvicinare.
Siamo al Giovedì Grasso. Brusio ha passato più di quattro mesi di questa vita; è divenuto il corifeo di questa canaglia composta di femmine da trivio e di uomini perduti; e in quella sera, tutti mascherati in modo poveramente e orribilmente grottesco, vanno al Teatro a farvi pompa del cinismo del vizio, della brutalità della violenza, della petulanza della miseria colpevole; occupano la galleria, ove mangiano, bevono, contendono ed urlano anche nel tempo della rappresentazione, malgrado la presenza delle numerose Guardie di Pubblica Sicurezza e dei Reali Carabinieri. Dopo la recita aspettano l’apertura del ballo mascherato per lanciarsi, coi loro costumi sudicii, in mezzo alla platea, per mischiarsi a quella società elegante che non sentonsi in diritto d’avvicinare coi loro cenci, e per farlo ne cercano il coraggio nell’ebbrezza, nell’esaltazione e negli eccessi.
Brusio, in prima fila fra di essi, sul proscenio, indossando un travestimento tutto suo, composto di cappuccio, casacca e pantaloni di pelle di montone (vestito che egli avea denominato da orso), si occupava metodicamente a dar fiato ad un enorme corno ad ogni scena nuova; e le rimostranze delle guardie di Questura erano soffocate dagli urli, dai suoni di trombe e di campane e dai fischi della mascherata numerosa che gli faceva codazzo.
Poco prima di mezzanotte fu aperto il ballo. Quella folla ululante irruppe come un torrente limaccioso nella sala.
I palchetti erano gremiti di elegantissime dame e di signori mascherati con lusso. Poco dopo si aprì l’uscio di un palchetto di seconda fila ed entrò la contessa di Prato, mascherata da baccante, accompagnata dal marito e da un bel giovanotto biondo, sottotenente negli Usseri di Piacenza, che le tolse dalle spalle la mantelletta Fatma di peluscio. Giammai la signora aveva brillato di tutta la pompa affascinante delle sue seduzioni irresistibili, come quando si avanzò sul parapetto della loggia colle braccia, le spalle ed il petto nudi nel suo abito diafano di velo, col suo sorriso sulle labbra, con quel piccolo grappolo d’uva e quell’unica foglia verde a metà nascosti tra i riflessi cenerognoli de’ suoi capelli neri, che vi si inanellavano attorno alla fronte e le cadevano mollemente sul collo.
Pietro non alzò nemmeno gli occhi verso i palchetti. Non osava di farlo, di dissipare forse collo spettacolo di quella profusione di eleganze e di bellezze che ornavano le loggie, il denso vapore avvinazzato e fangoso in cui si avvolgeva; non osava d’incontrare un viso ch’egli non voleva vedere per non avere a dubitare un’altra volta della sua ragione.
L’orchestra suonava un valtzer; la folla avea incominciato a ballarlo gesticolando e gridando. Tutt’a un tratto fu veduta una figura umana, imbacuccata in pelli nere che la facevano mostruosa, montare di un salto sul palcoscenico, e gridare colla sua voce più forte, stendendo il braccio con un gesto imperioso verso l’orchestra:
— Abbasso il valtzer! Non vogliamo valtzer! Non vogliamo balli aristocratici... Vogliamo la Fasola!...
Quella voce che comandava, quel gesto che imponeva fecero fermare i ballerini che danzavano e i professori che suonavano; e cominciò un immenso frastuono. Dai palchi partirono alcuni fischi acutissimi, tratti certamente con l’aiuto delle chiavi.
Allora quell’uomo, quel mostro, alzò la testa orribile a vedersi col suo pallore cadaverico sui suoi lineamenti dimagriti, collo scintillare dei suoi occhi infuocati fra i peli che gli cadevano dal cappuccio sulla fronte; e quello sguardo che fissò su quei cavalieri giovani, ricchi, eleganti; su quelle mani in guanti bianchi che si sporgevano fuori dei palchi ad imporgli silenzio; su quelle signore belle, profumate, splendenti di gemme; su quella folla dorata che faceva il più vivo contrasto con quella brutta, cinica, briaca, cenciosa, che l’accompagnava, quello sguardo fu d’odio immenso, indicibile, e anche di feroce vendetta.
— Abbasso gli aristocratici! — gridò egli, Pietro, il giovane aristocratico per istinto; — abbasso i guanti bianchi! Vogliamo la Fasola! Suonate la Fasola!
A quelle parole successe un immenso schiamazzo di urli che applaudivano alle sue parole e chiamavano la Fasola, questa danza popolare. I carabinieri, quantunque avessero spiegato la massima energia nel cercare di calmare l’effervescenza, erano in troppo piccol numero per imporsi a quella folla resa audace dalla sua istessa insolenza; finalmente si fece venire il picchetto di Guardia Nazionale ch’era alla porta.
In questa una fischiata solenne e generale, partita dai palchi, sembrò sfidare la collera di quella gentaglia irritata: le mani inguantate di bianco non volevano lasciarsi sopraffare dalle mani nere e callose.
Nella platea scoppiò un grido generale di rabbia. Alcune signore svennero allo spettacolo di quella folla urlante che levava braccia nere e facce infuocate e furibonde, come ad imprecare, verso i palchetti, e in mezzo alla quale scintillavano alcuni ferri aguzzi. I carabinieri misero le mani sui revolvers, e la Guardia Nazionale entrò nella sala colle baionette in canna.
Rinunziamo a descrivere lo stato d’esasperazione di Brusio a quella sfida imprudente che l’aveva percosso come uno schiaffo; egli saltò in mezzo alla folla gridando:
— Ora faccio scendere tutta questa canaglia coi guanti a ballare la Fasola con noi! Vado a prenderveli per le orecchie!
E si fece largo in mezzo alla calca. Nessuno, nè carabinieri, nè Guardia Nazionale badarono a quell’uomo che usciva, a quella jena assetata di vendetta, che spingeva in avanti il collo anelante come un animale sitibondo. In due salti egli fu sulla scala del second’ordine, e si avanzò pel corridoio.
Tutt’a un tratto egli si fermò, come percosso dal fulmine, coll’occhio smarrito, col volto pallido e convulso: si era trovaro faccia a faccia a Narcisa, che partiva dal Teatro, spaventata di quel frastuono.
La contessa aveva messo un grido nel vedere quell’uomo che correva come un pazzo contro di lei, facendo scintillare nel suo pugno la lama larghissima di un coltello a manico; quella figura informe ed orrenda sotto le pelli che la coprivano, della quale gli occhi soltanto luccicavano come due carbonchi sul volto che sembrava una maschera di cera gialla. Ella si era stretta contro la parete, aggrappandosi al braccio del conte, come per farsene schermo.
Pietro aveva avuto uno sguardo, un solo, per lei; il coltello gli era caduto di mano; poi era fuggito, correndo a salti, urlando disperatamente, come l’animale che voleva figurare.
— Oh! questa donna! questa donna!... questo demonio! — gridava egli, correndo all’impazzata pel Molo.
Si fermò sull’ultimo limite di questo, quando non vide più dinanzi a sè che il mare bruno ed immenso, su cui scintillavano le stelle. Fissò uno sguardo ebete, smarrito su quella superficie che si stendeva a perdita di vista, luccicante di riflessi fosforici; su quelle stelle che splendevano sulla sua testa... Due o tre volte avanzò il passo verso quell’abisso che poteva inghiottire la sua vita coi suoi vortici spumeggianti; e ciascuna volta egli sentì una forza che l’afferrava e lo tratteneva... Finalmente cadde accosciato sul suolo umido e spazzato qualche volta dalle onde, prorompendo in lagrime amare, ardenti, ma non più disperate.
Egli pianse a lungo: quel pianto, che non aveva potuto versare da circa cinque mesi, forse lo salvò.
— Questa donna ha ragione, — mormorò quando fu calmo, come aveva detto allorquando gli era parso che il suo cuore si fosse spezzato: — quali diritti ho io al suo amore, alla sua attenzione, fin’anche?... Io, Pietro Brusio!... Ma io voglio averli, questi diritti che Dio m’ha dato, che in un istante di scoraggiamento io ho sconosciuto, ho ripudiato, ma che sento in me... Questa donna anderà superba un giorno dell’amore di Pietro Brusio!!
E rialzando la testa, quasi lieto ed altiero di quel nuovo indirizzo che dava alla sua vita, di quell’espiazione che s’imponeva del passato, della speranza che gli brillava negli occhi ridenti, guardò il cielo quasi calmo, quasi giocondo ora. Si alzò, e con passo fermo s’incamminò verso la sua casa. Egli andò ad abbracciare la madre nel letto, come per darle la lieta notizia, mescolando le sue lagrime a quelle di gioia di lei, che ritrovava il figlio suo; e dandole la sola spiegazione della metamorfosi che uno sguardo ed un pensiero avevano potuto operare in lui con queste sole parole:
— Perdonami, madre mia!... perdonami!
Due mesi intieri ebbe la forza di non cercare Narcisa, di non vederla. Usciva di rado, la sera; e sempre in compagnia di sua madre e delle sue sorelle.
L’aveva dimenticata?
No! Egli aveva tal forza perchè viveva per lei, con lei, in lei; perchè tutta la sua vita era ormai Narcisa.
Egli lavorava con un entusiasmo quasi accanito, con una lena che soltanto poteva dargli l’esaltazione in cui si trovava; e fece passare tutto il suo cuore nell’opera sua. Due mesi dopo avea finito un dramma che rileggeva cogli occhi brillanti di sorriso; del quale era contento; che amava quasi di una parte dell’amore di cui amava Narcisa; che amava come un’emanazione di lei. Quando egli fu soddisfatto dell’opera sua, di se stesso; quand’egli si sentì più vicino a Narcisa, allora la cercò.
La sua casa era deserta e le imposte dei veroni chiuse.
La cercò inutilmente otto giorni pei passeggi e al Teatro; ne domandò agli amici: nessuno l’avea più veduta.
Risoluto di trovarla ad ogni costo andò a far visita in casa A*** e colla signora condusse il discorso sino alla contessa.
— A proposito, che n’è di lei? — domandò.
— Credevo che lo sapeste, voi suo amante: è partita.
— Partita!
— Sì, da venti giorni.
— E per dove?
— Per Napoli.
— Anderò a Napoli! — disse a sè stesso Brusio.