< Una peccatrice
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VI.


Parecchie settimane dopo, in Napoli, ad una delle serate che dava il barone di Monterosso, noi ritroviamo Narcisa, accompagnata dal marito e dal giovanotto ufficiale di cavalleria negli Usseri, che abbiamo incontrato con lei a Catania. Il sottotenente, che apparteneva ad una delle più nobili famiglie del Napoletano, l’avea presentata ad una signora di mezza età, la quale recava con tutta disinvoltura gli occhiali sul naso, appartenente anch’essa alla più alta società e che col suo ingegno si è fatto un nome che comincia ad esser celebre anche fuori d’Italia. Le due donne, l’una circondata e adulata pel potere dei suoi vezzi, l’altra pel prestigio del suo nome, sedevano l’una presso all’altra su di un canapè, accerchiate da uno stuolo di cortigiani.

Il barone di Monterosso venne a complimentare la signora contessa R***, e a dire anche due parole d’occasione a Narcisa.

— Avrò la fortuna, signora contessa, — disse, parlando alla donna matura, — di presentarle stasera un uomo, che, ancora giovanissimo, si è aperta diggià la più brillante carriera nella letteratura drammatica.

— L’autore di Gilberto forse? — domandò la signora.

— Lo conosce?

— No; ne ho udito semplicemente parlare; è un dramma che ha incontrato moltissimo, a quel che pare; e di cui i giornali si sono disputati i meriti con quell’accanimento che dà sempre della rinomanza all’autore. È napoletano?

— È siciliano; si chiama Pietro Brusio.

— Brusio?... Non ho mai udito questo nome.....

— Fra otto giorni questo nome sarà pronunziato come quello di Giacometti e di Gherardi del Testa.

— È una celebrità in erba dunque?

— Sì, signora contessa: una celebrità che nasce, ma in mezzo ad una splendida aurora. Il suo dramma è stato replicato quattro volte a richiesta, e domani fu desiderato per la quinta: l’impresario glielo ha pagato come non si sogliono pagare quasi mai le produzioni letterarie in Italia, e l’ha impegnato a scrivere pei Fiorentini con un appuntamento che lo farà vivere da signore.

— Domani andrò ai Fiorentini, — disse la dama, — stasera mi presenti il suo protetto; lo pregherò di passare da me le sere in cui ricevo.

Il barone s’inchinò allontanandosi per dar retta ad altri invitati.

Narcisa ballò come una silfide e confessò al suo cavaliere di mai essersi divertita come in quella sera.

Verso mezzanotte il barone si avvicinò di nuovo al divano ove sedevano Narcisa e la contessa, accompagnato da un giovane alto e bruno, di cui l’espressione fredda, altiera e quasi severa era appena temperata dal contegno grazioso che gl’imponeva l’atto che andava a compiere.

— Mi permetta, signora contessa R***, — disse il barone con il garbo di un uomo di società, — che abbia l’onore di presentarle il signor Pietro Brusio, il giovane autore di cui le feci parola.

Pietro s’inchinò in silenzio, mentre la dama originale l’esaminava con tutta flemma, attraverso gli occhiali, dal capo alle piante e gli faceva i complimenti d’uso. Anche Narcisa esaminava il nuovo arrivato con una curiosità che andò a finire nella maggior sorpresa.

Ella stentò a riconoscere il giovane incognito che a Catania incontrava ad ogni passo, divorando degli occhi il suo sguardo, e che passava le notti sul marciapiede dirimpetto alla sua casa, in quel giovane che le stava dinanzi colla fronte nobile, quantunque solcata dalle febbrili emozioni della creazione, e dai delirii sublimi del pensiero; coi lineamenti sbattuti dalle fatiche del lavoro, dalle lotte ardenti dell’idea, che aveva sentita immensa, colla forma, che spesso non sentiva abbastanza. Egli avea l’occhio brillante della confidenza che dà la giovinezza e l’avvenire, quando si affaccia ridente; il suo vestito irreprensibile sviluppava la forte e maschia eleganza del corpo; si presentava con tutta la grazia di un abituato alle più aristocratiche riunioni. Ciò che più di ogni cosa servì a farglielo riconoscere, meglio che l’altiero portamento della fronte, ch’egli non avea saputo rendere grazioso in quel momento come il sorriso a cui aveva forzato il suo labbro sdegnoso nel presentarsi alla contessa R***, fu questo.

La contessa gli parlava con la famigliarità che dà la parentela del genio, e gli stringeva la mano. Il cerchio degli ammiratori di lei gli si affollava d’attorno, e lo guardava con occhio invidioso. Tutt’a un tratto ella lo vide diventar pallido come un cadavere, e dirizzarsi sulla persona con un movimento macchinale che non seppe padroneggiare; e ciò fu quando il barone (che era rimasto al suo fianco frapponendosi tra di lui e Narcisa) si allontanò. Pietro aveva veduto la contessa di Prato, alla quale il sottotenente dirigeva un complimento ch’ella non ascoltava. Brusio rimase un momento immobile, senza poter parlare, cogli occhi, che si erano fatti di una sorprendente lucidità, fissi su quelli di lei, mentre una leggiera convulsione faceva tremare sul suo labbro superiore i baffi castagni.

La signora R***, che gli parlava in quel momento, fu sorpresa di non avere risposta, e lo guardò con curiosità.

Pietro staccò quasi con isforzo gli occhi da quelli di Narcisa, che lo fissavano col loro sguardo limpido e chiaro, per volgerli all’ufficiale che anch’esso lo guardava sorpreso, arricciandosi le basette.

Egli fu freddo, distratto, impacciato tutto il tempo che rimase a discorrere colla donna celebre. Quando questa gli parlava dello splendido avvenire che la riuscita della sua produzione l’autorizzava ad aspettarsi, rispose tristamente:

— Forse, signora contessa, giammai in tutta la mia vita potrò compiere un lavoro come quello che scrissi in otto giorni, e al quale il pubblico ha avuto la bontà di fare buon viso.

— È sola modestia che le fa dir ciò?

— No, signora; forse è presentimento.

— Bisognerebbe, in tal caso, non ammettere questo dramma come parto del suo ingegno, ma piuttosto…

— Del cuore? — interruppe il giovane: — sì, signora!

— Ella ha ragione: in un momento di passione si possono operar miracoli che parrebbero impossibili a tentarsi un minuto dopo. Pel bene del suo avvenire voglio augurarmi che tale non sia il suo Gilberto.

— Chi lo sa?...

E lo sguardo del giovane, che s’inchinava per allontanarsi, incontrò quello di Narcisa fisso su di lui con un’espressione che dimostrava più della semplice curiosità.

Si ordinavano le coppie per un valtzer; e l’ufficiale venne a presentare il suo braccio a Narcisa, che vi abbandonò il suo corpo flessibile, splendida di tutta la sua strana bellezza; coi capelli, intrecciati di perle, cadenti sulle spalle bianchissime e vellutate; col bel seno anelante sotto il velo ed il merletto che lo copriva; col suo sorriso indefinibile sulle labbra, e gli occhi che, senza esser brillanti, avevano un’onda di voluttà nei loro raggi.

Ella si avanzò lentamente, mollemente, come immedesimandosi al corpo dell’uomo a cui si accompagnava, con un inimitabile movimento del suo collo da cigno, quasi le perle e i fiori che s’intrecciavano ai suoi capelli, e il volume di questi fossero troppo pesanti per quella piccola testa; presentendo nello sguardo sorridente e scintillante tutto quel torrente d’impetuose voluttà che il valtzer, questo ballo degli innamorati, dovea darle; come appoggiando tutti i delicati tesori del suo corpo al braccio del suo cavaliere per trarne quella foga d’esaltazione che la musica, l’eccitamento, il contatto del corpo dell’uomo elegante doveano darle.

Nulla varrà a riprodurre, ad accennare soltanto, l’impressione voluttuosamente affascinante di quel corpo leggiero da silfide, che librava, direi, le ali coll’espressione del suo sguardo, per abbandonarsi a tutto il trasporto di quel ballo.

Le coppie cominciarono a girare; la musica eseguiva il Bacio di Arditi.

Dopo il primo giro, quando la contessa si fermò, anelante, come cullandosi al braccio del suo splendido cavaliere, sfiorandogli un’ultima volta il viso coi suoi capelli; colle guance accese, il petto anelante, gli occhi umidi di languore e di piacere, incontrò un altro sguardo, umido ancor esso di una indicibile espressione d’angoscia e quasi di cruccio, che brillava su di una fronte alquanto calva e pallida di una spaventosa pallidezza. Ella fissò un lungo sguardo su quello che si fissava su di lei.

— Vogliamo ricominciare? — le susurrò all’orecchio l’ufficiale passandole il braccio attorno alla vita da bajadera.

— È inutile... mi sento stanca... Non ballo più...

Ella cercò cogli occhi un’altra volta quello sguardo supplichevole e nello stesso tempo minaccioso: era scomparso.

— Oh! questo Bacio! questo Bacio!... avrò da sentirlo dappertutto!... — mormorava Pietro delirante scendendo le scale.

— Domani ai Fiorentini si darà un dramma che ha fatto furore, a quanto si dice; avrete la compiacenza di accompagnarmivici? — domandò Narcisa al marito.

Questi s’inchinò in silenzio.

L’indomani infatti, alle 9 e mezzo, la contessa, che non si ricordava di essere entrata in teatro a tal ora, era in un palchetto di seconda fila sul proscenio. Il sipario non era ancora alzato e la sala era affollatissima.

La contessa recava in mano un magnifico mazzo di viole bianche che posò sul parapetto insieme all’occhialetto.

Il dramma fu recitato in mezzo ad una di quelle ovazioni che sembrano strappate agli spettatori quando l’autore ha saputo scuotere tutte le corde dei cuori colla sua mano potente: era una di quelle opere spontanee, tutte di un sol getto, che sono belle perchè sono vere, che sono inimitabili perchè sono semplici e comuni. Narcisa rivide quel giovanetto che passava le notti sotto i suoi veroni; lo rivide nel protagonista di quel dramma, con tutti i suoi fremiti d’amore e i suoi disinganni disperati, ella sentì che quel dramma parlava di lei, era scritto per lei, in tutte quelle sfumature di rimembranze che l’accennavano ad ogni passo... L’ufficiale, che avea battuto le mani quando l’aristocrazia aveva applaudito, osservò con sorpresa che ella rimaneva indifferente alle sue sollecitudini, tutta assorta in quel Gilberto che ad ogni parola destava in lei una reminescenza e le svelava quale amore quasi sopranaturale avea saputo destare.

Nel mezzo della scena che l’avea commossa dippiù, ella, coll’ispirazione improvvisa e adorabile della donna leggiera e capricciosa, s’era tolto dal dito un magnifico anello di brillanti e l’avea legato al nastro del mazzetto.

Alla fine del second’atto l’autore, chiamato fragorosamente dal pubblico, venne sulla scena. Egli non ebbe che uno sguardo, in mezzo al turbine di quegli applausi frenetici, in mezzo all’agitazione di quella folla che si levava gridando il suo nome, in mezzo all’inebbriamento di quell’ovazione quasi delirante: uno sguardo che andò a posarsi su di un palchetto di un proscenio al second’ordine.

Egli vi vide la contessa... verso della quale si chinava sorridendo il biondo giovanotto dalla brillante divisa di ufficiale degli Usseri.

Pietro dimenticò quegli applausi, quelle corone che gli cadevano ai piedi, quei fiori che lo coprivano come in un nembo, quelle acclamazioni al suo nome; egli non badò più neanche ad un mazzo di viole bianche che gli era caduto ai piedi dal palchetto di Narcisa e che avea raccolto, per fuggire come un delirante, come un uomo che teme d’impazzire, poichè tutti questi applausi non potevano dargli quello sguardo ch’era venuto a cercare sino a Napoli, che avea voluto comprare a prezzo delle ispirazioni del suo genio, e che avea visto rivolto sul giovane sottotenente.

La folla chiamò invano replicate volte l’autore.

— Che ne dite del dramma? — domandò la contessa all’ufficiale, dopo l’ultimo atto, approfittando del tempo in cui il conte era uscito per fare ordinare la carrozza dal jokey che aspettava sul corridoio.

— Molto bello, in verità; e anche assai applaudito.

— E dell’autore?

— Che volete che ne dica?... ch’è un autore come tutti gli altri; — soggiunse colui con il supremo disprezzo degli uomini di spada.

— Eppure quest’uomo è celebre! — aggiunse la contessa avvolgendosi nella sua vespertina di cachemire bianco.

— Sarà anche questo.

— Sento che amerei quest’uomo come una pazza! — esclamò Narcisa punta dal freddo motteggio del suo vagheggino, colla viva schiettezza del suo carattere mobile ed impetuoso.

— Confessate almeno che questa franchezza è odiosa!... — rispose ridendo il sottotenente, poichè non sapeva se dovesse prendere la cosa sul serio, sebbene l’espressione affatto nuova della contessa gli desse molto a pensare.

— Ha però sempre il merito della franchezza! — replicò con tutta flemma Narcisa: — Quest’uomo io l’amo... poichè la sua celebrità è opera mia!... opera di cui posso andare superba!... Partite per la guerra, signore, a farvi uccidere per me o a ritornare generale d’armata, e allora... ma allora soltanto... forse.... io vi amerò come sento che amo in questo momento quell’uomo!

— Signora! — esclamò l’ufficiale coi denti stretti, facendosi pallido.

— Non mi accompagnate sino alla mia carrozza? — disse senza scomporsi Narcisa, dandogli la busta dell’occhialetto da recarle, nel momento che suo marito rientrava nel palchetto.

Brusio era ritornato a sua casa agitatissimo, e passò la notte senza dormire.

Ella! Narcisa! avea assistito al suo trionfo, avea palpitato dei suoi sentimenti, gli avea gettato quel mazzetto che avea fatto appassire a furia di baci!... Ma ella non era sola!... quel giovane, quel soldato, sì giovane, sì bello, sì splendido! che le parlava sì da presso... che le sorrideva in quel modo!... Tutt’a un tratto i suoi diti incontrarono l’anello che era legato al mazzo; un dubbio atroce lo fece impallidire: quei fiori, che la donna adorata avea lasciato cadere su di lui, invece di essere l’espressione della simpatia, non dimostrava piuttosto uno di quei volgari applausi, uno di quegli splendidi regali con cui si paga l’abilità di un istrione?... Quest’idea lo martellò a lungo; e l’indomani, ancora sotto questa impressione, scrisse il seguente biglietto a Narcisa — sarcasmo pungente ed amaro velato dalla forma più delicata:

«Signora contessa,

«Ieri ebbi la fortuna di raccogliere un mazzo che le cadde dal palchetto sulla scena. Se, unita ai fiori che lo compongono, non vi avessi trovato una gemma di qualche valore, io l’avrei forse conservato come un ricordo dippiù della simpatia di cui mi onorarono gli spettatori; ma nel dubbio d’ingannarmi sulla destinazione del suo prezioso regalo, poichè tali sogliono essere le ricompense dei commedianti celebri, mi fo un dovere di rimetterlo alle mani dalle quali è partito.

«La prego, signora, di gradire la testimonianza della mia più distinta considerazione, ecc.»

Suggellò il biglietto, dopo averlo firmato, aspettando con impazienza l’ora convenevole per ricapitarlo.

Bisogna dire che il giovane, esagerando la sua suscettibilità, scrivendo quella lettera di orgoglioso rimprovero sotto le frasi gentili, cedeva ad una segreta speranza di mettersi in relazione con Narcisa; e che egli avea adottato quel mezzo come ne avrebbe adottato un altro, se gli si fosse presentato.

A mezzogiorno suonò, e disse al domestico che comparve, consegnandogli la lettera ed il mazzo:

— V’informerete dalla servitù del signor barone di Monterosso dell’abitazione della signora contessa di Prato, e andrete a recarle questa lettera insieme ai fiori e all’anello, personalmente, — aggiunse in ultimo, accentuando la parola.

— Ascoltate.... — disse quindi, mentre il servitore stava per uscire, esitando tuttavia a proferire quelle parole che gli pareva svelassero la sua segreta speranza che cercava dissimulare a se stesso: — se vi dicono esserci risposta aspettatela.

Attese con ansietà febbrile i tre quarti d’ora che il domestico impiegò a ritornare colla risposta. Finalmente l’udì sulle scale e andò ad incontrarlo nel salotto, dominandosi a pena.

Gli venne recato su di un vassoio da lettere un biglietto da visita; al di sotto del titolo Conte di Prato in litografia, c’era scritto a mano: Prega il sig. Brusio di far trovare alle 8 due suoi amici al Caffè d’Europa.

— Un duello! — esclamò Pietro sorpreso di leggere tutt’altro di quello che sperava: — confesso che me l’aspettava pochissimo. Quello che non so comprendere è perchè il signor conte spieghi la personalità sino a sfidarmi per un mazzo rimandato... a meno che...

Rimase pensieroso alcuni secondi, senza compire la frase, girandosi il biglietto fra le dita.

— Non importa; — disse quindi riscuotendosi; — quest’uomo è destinato; io l’ucciderò, com’è vero che mi chiamo Pietro e che quest’uomo mi ha insultato a Catania...

Uscendo per prevenire i testimoni passò dal barone di Monterosso e vi trovò un altro suo amico.

— V’incontro a proposito; — diss’egli stringendo le due mani che gli venivano stese, — ho un affare col conte di Prato e venivo a pregarvi della vostra assistenza. E raccontò ai due amici il fatto della mattina che avea causato la sfida del conte.

— Le condizioni? — domandò il barone.

— Vi dò carta bianca; l’appuntamento è per stasera, alle otto, al Caffè d’Europa. Vi prevengo soltanto che non accetterò accomodamenti.

Alle dieci i due padrini vennero a trovarlo al Teatro S. Carlo per riferirgli le condizioni stabilite.

— Diavolo! — esclamò il barone, — l’affare sembra più serio che io non mi fossi immaginato. Il conte è furioso, a quanto pare; ed ha proposto condizioni d’inferno: trenta passi, dieci passi liberi per ciascheduno. C’è da divertirsi con due uomini che possono venire a scaricarsi le pistole sul petto a dieci passi!

— Accetto! — esclamò Pietro col suo accento vivo e brusco.

— Caspita! lo sapevamo; giacchè abbiamo accettato per voi... Quando c’entra quel demonio di contessa...

— La contessa?

— Eh, via!... forse che domani andate a cacciarvi una palla in corpo quasi colle pistole appoggiate sullo stomaco per quel povero mazzo che c’entra quanto un pretesto?!... Il conte è irritatissimo per l’assiduità che spiegaste nel far la corte a sua moglie, per cui la seguitaste da Catania a Napoli; e si è servito di questo pretesto per sfidarvi onde evitare il rumore.

— Vi assicuro che non ho ancora l’onore di essere conosciuto personalmente da quella signora...

— Il conte però sembra che vi conosca molto bene... A domani!

A mezzanotte Brusio rientrando trovò una lettera che il cameriere gli disse aver recato due ore avanti una giovane assai elegante, che erasi annunciata per la cameriera della contessa di Prato. Egli aprì con febbrile impazienza la lettera profumata, della quale il bellissimo carattere inglese era tracciato con mano incerta, e vi lesse:


«Signore,

«Il conte l’ha sfidato. — Le condizioni di questo duello sono orribili: due uomini che si battono alla pistola non si battono per una semplice riparazione; si battono per uccidersi. — Questo duello è un delitto.

«A Napoli si è molto parlato del suo scontro di un mese fa con un giornalista il quale ancora guarda il letto; si dice ancora che ella è un terribile tiratore; il conte anche lui possiede questa sciagurata destrezza... E questi due uomini, che si odiano a morte, andranno, domani, dopo essersi abbigliati freddamente, come al solito, dopo di aver fatto attaccare la carrozza, dopo di essersi salutati civilmente, a mettersi a 15 o 20 passi di distanza colle pistole in mano, mirando col triste sangue freddo che deve dare in mano dell’uno la vita dell’altro... Oh! signore!... lo ripeto: questo è delitto!... questo è il più spietato assassinio legale!... O il conte resta ucciso ed io avrò il rimorso di essere stata causa della sua morte... o invece...

«Signore... a Catania conobbi un giovane nobile e generoso... che mostrava d’amarmi... Io invoco questa memoria per scongiurare tale disgrazia... Questo duello non deve aver luogo! Si ritratti, signore, il conte accetterà le sue più semplici scuse, e le basterà di fare il primo passo perchè egli le venga incontro a stringerle la mano. Se ha una madre pensi a questa madre, se ha un’amante pensi all’amante, signore... e farà il più nobile sacrifizio che amor proprio d’uomo possa fare evitando questo duello.

Narcisa Valderi


Pietro fu tristamente colpito da quella lettera. Egli si aspettava tutt’altro, egli credeva di trovare affettuose parole di donna amante, e per contro rinvenne la moglie che supplicava il duellista famoso per la vita del marito; egli non vide, non seppe scorgere tutto ciò che lasciava travedere, che accennava anche quella lettera che parlava delle reminiscenze di Catania... poichè a quelle reminiscenze non si era data più importanza di quanta se ne dà a sentimenti che non si dividono; avea riletto due o tre volte una parola, quell’o invece... che un momento avea fatto la sua speranza, come se avesse cercato interpretare tutto il senso di quei puntini che la seguivano, e trovarvi quello che il suo cuore voleavi vedere; ma quei puntini potevano anche nascondere, come spesso, il nulla.

Se Narcisa gli avesse scritto semplicemente: Pietro, non uccidete mio marito, ritrattatevi: egli non si sarebbe ritrattato, ma non avrebbe neanche fatto il passo che fece, rimandandole la lettera, come una suprema impertinenza.

Sorridendo del suo riso amaro, scrisse, in basso della stessa lettera della contessa, queste sole linee, che gli parve la completassero, e ne fossero la degna risposta, mormorando fra i denti stretti dal sarcasmo:

— Ah! costei ha paura che io le uccida il marito!... costei si rivolge al giovane di Catania, e ne accenna la memoria, come si farebbe di un balocco ad un fanciullo; per ottenere il suo intento!... Ma non sa questa donna quali lagrime stillino ancora queste memorie?!...

Le due linee dicevano:

«Se amassi una donna, come io e nessuno può amare — e questa donna mi chiedesse una viltà — io la negherei a questa donna. — Alla signora contessa di Prato posso assicurare che il conte, suo sposo, non correrà alcun pericolo».

Sì, egli l’amava tanto, colei, malgrado tutto quello che aveva sofferto per lei, e forse a causa di ciò, malgrado i torti che si figurava aver ella verso di lui, da farle il sacrifizio della vita senza neanche pensarci, senza neanche farglielo indovinare; mentre l’assicurava della vita di suo marito, ricusandosi nel tempo istesso a far le sue scuse al conte, ciò che valeva offrirsi come un bersaglio ai colpi di lui.

Quest’uomo che non sapeva se la sera del domani dovesse venire per lui; quest’uomo che andava fra poche ore a barattare una vita giovane e ricca d’avvenire, acclamata, festeggiata, contro un colpo di pistola, dormì tranquillo tutta la notte, poichè si sentiva più vicino a Narcisa, la sirena che gli avrebbe fatto adorare l’inferno per mezzo delle sue seduzioni.

All’alba era alzato e si vestiva. Nel punto di scendere le scale consegnò al cameriere la lettera della contessa dicendogli:

— Recate al suo indirizzo questa lettera, e dite alla contessa di avervela io data nel punto di montare in carrozza. Fate avanzare.

— La carrozza! — gridò il cameriere.

I briosi cavalli lo trasportarono rapidamente all’abitazione del barone, nella strada del Piliero, ove aspettavano i due testimoni.


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