< Una peccatrice
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III.


Il dopo pranzo, e l’indomani, e tutti i giorni in seguito, la Villa divenne la passeggiata preferita di Pietro, che vi conduceva il suo amico, il quale protestava sempre e finiva sempre col cedere.

Allo stesso verone, quasi ogni volta nella stessa positura e vestita di bianco, essi vedevano la Piemontese, come l’aveva sopranominata Raimondo, che vi restava da mezzogiorno spesso sino alle 3 e dalle 7 alle 8.

Una sera l’incontrarono che andava al caffè di Sicilia, accompagnata dal signore biondo.

— Se andassimo al caffè?... — disse Pietro, come per esservi incoraggiato dal suo amico.

Dalla soglia la videro seduta ad un tavolino, al fianco del suo compagno, mentre due ufficiali dei Cavalleggieri Alessandria le prodigavano tutte le delicate attenzioni di chi vuol fare la corte ad una signora. Ella sembrava appena badarvi; ma rispondeva qualche volta col suo solito sorriso grazioso, che mostrava i suoi bellissimi denti di perle.

Il giovane dalla barba nera, che Pietro avea veduto una volta con lei alla Marina, veniva dall’altra sala del caffè, e fermandosi dinanzi al tavolino dov’era ella si levò il cappello, aspettando d’esser salutato.

Siccome nessuno gli badava, egli girò con tutta flemma sui talloni ed uscì.

Pietro prese il braccio del suo amico, e lo strascinò via, mormorando:

— È meglio che non entriamo!...

— Dove andiamo? — domandò qualche minuto dopo, come se cercasse una distrazione.

— Dove ti piace. A proposito... potremmo approfittare dell’invito dei signori A***, che abbiamo per stassera.

— Vi si balla?

— Sì.

— Andiamo, in tal caso! M’immaginerò di ballare colla mia bella Piemontese; — aggiunse Brusio, forzando le labbra ad un sorriso.

Essi furono accolti con festa dall’allegra brigata che era radunata nel salone. Pietro sedette al pianoforte e suonò un valtzer, che otto o dieci coppie ballarono.

— Vi lasciaste molto aspettare, signorini! — disse in tuono di scherzevole rimprovero una graziosa giovanetta, figlia del padrone di casa e maritata ad un cugino di Raimondo, appena Pietro andò a raggiungere sul divano il suo amico, ch’era seduto vicino alla signora.

— È che Pietro, qui presente, è innamorato cotto; e abbiamo fatto la ronda alla bella; — disse Angiolini ridendo.

— Davvero!... Non mi sorprende in lei, signorino, questa novità... E chi sarebbe questa sventurata?...

— Parola d’onore, signora, che lo sventurato son io, almeno sta volta; — rispose Pietro.

— Lei?!... È da ridere!... E di chi sarebbe innamorato, s’è lecito?

— Molto lecito, al contrario! Giacchè non ho il bene di conoscerne neanche il nome...

— Ed ella conosce lei, almeno?

— No.

La signora diede in uno scoppio di risa.

— E l’ama, a quanto dice?

— Come un pazzo!

— Dove l’incontra?

— Qualche volta al passeggio, o alla Marina... E poi so dove trovarla...

— Dove?

— A casa sua.

— Dunque va in casa?

— No; dal verone.

— Ah! è amore da verone! — esclamò la giovane ridendo sempre più come una folle; — e dove abita questa meraviglia?

— Al Rinazzo, vicino il Laberinto.

— Nella casa ***?

— Precisamente.

— Una giovane alta, sottile, molto elegante... non tanto bella in verità?

— Può essere... ciò è relativo...

— È forestiera?

— Forestiera. Credo sia piemontese.

— La conosco.

— Sul serio?

— So il suo nome, almeno potrò insegnarglielo e non farle fare più la figura dell’amante della luna.

— Come si chiama?

— Si chiama Narcisa Valderi.

— Narcisa!... bel nome; si direbbe averlo ricevuto a vent’anni! E la conosce molto?

— Cioè... non molto. Sono stata in sua casa due o tre volte.

— Mi parli di lei... a lungo!...

— Ella finge di scherzare, signorino, ma ha lo sguardo troppo acceso per dissimulare che quello che dice lo sente davvero.

— Sì, è vero!... Ma se le giuro che l’adoro, colei!...

— L’ha veduta davvicino? — domandò in tuono quasi derisorio la giovane.

— Sì.

— È tutta toletta!...

— Io amo appunto in lei questa toletta, questo lusso, questo apparato brillante e vaporoso in cui la farfalla mi fa dimenticare il bruco.

— Via, via... vedo bene che scherza...

— Dica dunque...

— Ella si alza alle dieci o alle dieci e mezzo; prende un bagno di cui i profumi costano ciascun giorno otto o nove lire; e poi si mette allo specchio, ove impiega da un’ora e mezzo a due ore per l’abbigliamento della mattina, da due a tre per quello della sera, e da tre a tre e mezzo e spesso sino a quattro per la toletta da ballo o da teatro... È sorprendente... miracoloso, come una donna possa star tanto ad appuntarsi gli spilli!...

— Ammirabile!... Avanti.

— Dopo la toletta viene la colazione: ella ha l’affettazione di mangiare pochissimo, ma i suoi cibi costano un occhio del capo, in compenso; indi si mette al pianoforte, o al verone, sdraiata su di una poltroncina, e vi resta, spesso dormendo, sino all’ora di pranzo. Suo marito...

— Un uomo di quasi 38 anni, alto e biondo?

— Sì, il conte di Prato; lo conosce?

— Me l’immagino.

— Suo marito l’ama alla follia; passa i giorni al suo fianco, scherzando coi suoi capelli, e guardandola coll’occhialetto faccia a faccia.

— Ed ella?...

— Ella gli sorride... e chiude gli occhi come se temesse di fargli perdere la testa seguitando a guardarlo com’ella fa.

— In fede mia!... credo che n’abbia ben ragione!...

— Questi dettagli li ho risaputi da una mia amica che abita dirimpetto alla casa della contessa...

En place pour la quadrille! fu gridato.

Pietro si alzò e prese il cappello.

— Se ne va, così presto!

— Sì; devo andare a finire le tesi...

— O a passare una mezz’ora sotto le finestre della bella?...

— Sarebbe agire da stolido, almeno, dopo quanto ella mi ha detto.

Ed il giovane sorrise del suo sorriso che si sforzava di rendere allegro mentre era amaro.

Per andare a casa sua prese la strada che a lui parve la più corta, passando cioè dal Rinazzo.

Nella casa della contessa non c’era lume. Pietro si fermò a guardare in silenzio quei veroni oscuri, poscia chinò la testa sul petto con un sospiro, mormorando: — Stassera al teatro si dà un dramma molto in voga... È al teatro certamente... ella...

Indi, come vergognandosi di questo monologo, scrollò le spalle con dispetto ed affrettò il passo.

— Andiamo a teatro stassera? — disse a Raimondo l’indomani appena furono assieme.

— Andiamoci, se così ti piace. E le tesi?

— Dormiranno anche stassera. Avrò sempre il tempo di finirle.

Alla piazza della Cattedrale incontrarono un amico che si fermò a discorrere con loro.

— Andrete a teatro stassera? — domandò egli.

— Perchè questa domanda?

— Perchè si darà una bellissima commedia nuova e ci verrà tutta Catania.

— Ci sarò allora... poichè in tal caso verrà anche la mia bella; — disse Pietro scherzando.

— Ah!... Ah!... la tua bella di numero... Non so più a qual numero sii... buona lana!

— Sul serio; sono innamorato come uno stolido.

— E di chi?

— Di una signora ch’è una maga... involta fra i merletti e i velluti..., della quale so il nome da ieri soltanto.

— La contessa di Prato?

— La conosci?

— Per bacco! Al ritratto che ne fai... non c’è altra qui che possa appropriarselo.

— È veritiero però questo ritratto?

— Perdio!... E tu l’ami, costei?!...

— Non so quello che farei per una parola di quella donna...

— Non ci sarebbe bisogno di far tante cose; basterebbe farti amico con suo marito... ed anche col suo amante; ed uno di questi due ti presenterebbe... il resto verrebbe da sè.

— Amante! — esclamò Pietro impallidendo suo malgrado mentre cercava di sorridere: — ah! c’è dunque un amante?.

— Pel momento però... bada!... A Napoli sembra che sieno stati più d’uno; ciò che diede luogo a molti scandali, che finirono con un duello in cui il marito ruppe, con una sciabolata, il braccio ad uno dei più indiscreti.

— E ciò non è bastato?

— Ella fa quello che vuole di quest’uomo che comanda col gesto del suo dito mignolo; e che ha il coraggio di andare a battersi in duello mentre non osa fare la minima rimostranza alla moglie. È la storia di molti mariti.

— E quel giovane bruno, dalla barba nera, che l’accompagna spesso?...

— È l’amante di cui ti parlavo.

— Che peccato! — esclamò Pietro fatto pensieroso.

— Fatti presentare, — insistè Antonino.

— Io!... — esclamò, con un accento indefinibile di stupore, Pietro.

— Sì; tu sarai il secondo dei suoi adoratori presenti, senza calcolare gli assenti... Perdio! perchè ti fai triste?... ne saresti innamorato sul serio?...

— Sei tanto ingenuo da crederlo?

— Fatti presentare allora.

— Sarebbe inutile.

— Chi lo sa!

— La mia condizione mi proibisce di averla a prezzo di una viltà, e non ho danari bastanti per mettermi nel numero di questi signori che le fanno la corte... Del resto sento che non son fatto sul loro stampo... poichè non saprei amarla in comune, com’essi fanno...

— Dimenticala dunque.

— Non ci ho mai pensato che come uno scherzo.

— A rivederci stassera.

— Addio.

Alle nove e mezzo i due inseparabili amici erano alla porta del teatro, in mezzo alla folla dei giovanotti che fumando stavano ad osservare le signore che scendevano dalle carrozze.

La recita era cominciata da cinque minuti. I giovanotti erano entrati a prender posto. Raimondo strepitava, tentando di trascinare l’amico, poichè protestava di non voler perdere la prima scena. L’ultima carrozza avea deposto l’ultima signora sul marciapiede, e Brusio non si muoveva ancora.

Raimondo finalmente perdè la pazienza e lo lasciò solo per entrare in platea.

Poco dopo le dieci si udì il rumore di una carrozza che si avvicinava; ed il solo orecchio di Pietro potè distinguere che il passo dei cavalli non avea l’uniforme regolarità di quello dei cavalli signorili.

— Una carrozza da nolo... è la sua! — mormorò egli appoggiandosi alla porta.

La carrozza si fermò infatti alla prima porta, ov’egli si trovava, ed un uomo, nel quale Pietro riconobbe il conte, saltò il primo a terra, per dare la mano alla signora che accompagnava.

Brusio istintivamente fece un passo in avanti.

La contessa appoggiò appena alla mano del signor di Prato la sua mano da ragazzina coperta dal guanto bianco; mise lentamente il piede, che sembrava appena accennato nel suo stivalettino di raso, sul predellino, e saltò sul marciapiede. Con una perfezione di grazia assai distinta, ella tirò con sè il lungo strascico della sua veste di seta granadine, per impedire che, rialzandosi nello scendere, scoprisse più del basso della sua gamba sottile e ben modellata. Soltanto, non potendo, nel tempo istesso, raccorre il burnous che le copriva le spalle, questo, nel momento in cui curvava fuori dello sportello la sua testolina ornata di fiori, le scivolò per le spalle e per gli omeri nudi di un’abbagliante bianchezza.

Quell’uomo che, solo e fermo sull’ingresso, dimostrava chiaramente di attendere qualcheduno, mentre tutti erano dentro il teatro, le recò forse sorpresa, poichè, passando dinanzi a lui, mentre raccoglieva le pieghe della sua veste perchè non lo sfiorassero, ella alzò un momento gli occhi su di lui.

Indi, come infastidita da quello sguardo scintillante che s’incrociava col suo e che sembrava assorbirne tutto il fluido, ella si volse un istante verso il conte, che dava alcuni ordini al cocchiere, prima di salire le scale del corridoio.

Vi fu un momento, quando un lembo del leggerissimo tessuto di quella veste strisciò sui suoi abiti, che le gambe di Pietro tremarono.

Pochi minuti dopo egli si diresse lentamente verso la platea. Entrando, il riflesso dei cristalli di un occhialetto fisso sulla porta colpì i suoi sguardi. Alzò gli occhi su quel palchetto della prima fila da dove partiva quel raggio, e vide la contessa che abbassava lentamente l’occhialetto, appoggiandolo, col braccio disteso, sul velluto del parapetto, mentre lo fissava ancora ad occhio nudo, quasi con curiosità: aveva voluto conoscere certamente, per una bizzaria da donna elegante, quest’uomo che aspettava sull’ingresso, tre quarti d’ora dopo alzata la tela.

Pietro cercò il suo posto e sedette quasi dirimpetto alla loggia della contessa.

La commedia fu applauditissima; ma Pietro non applaudì giammai, poichè soltanto alcuni squarci attrassero la sua attenzione; e in quegli squarci, quando il suo cuore provava potentemente quello che aveva sentito l’autore, egli rivolgevasi, senza accorgersene anche, verso il palchetto di Narcisa, e cercava negli occhi di lei l’eco di quello che egli provava nel suo cuore.

La contessa voltava le spalle alla scena; e solo di tratto in tratto, in quei momenti che avevano il potere di strappare Pietro alle sue frequenti preoccupazioni, ella volgeva i suoi limpidi occhi verso gli attori. Del resto ella discorreva qualche volta con i numerosi visitatori che occupavano successivamente le seggiole del suo palchetto; e pochissime volte si servì dell’occhialetto per esaminare le tolette delle signore. Giammai però l’abbassò verso la platea.

Nel suo sguardo, nel suo gesto, nella sua attitudine, fin nel modo in cui parlava e sorrideva qualche volta con quei signori che le tenevano compagnia, c’era un’indefinibile espressione di stanchezza e di noia, che si traduceva in sfumature molli, in pose voluttuosamente accidiose.

L’occhialetto di Pietro stava quasi sempre fissato su quella loggia. Due o tre volte, ella, sorpresa di quella molesta assiduità, volse gli occhi verso quel binocolo che aveva l’indiscretezza di guardarla sì a lungo dalla platea. Una volta infine alzò lentamente il suo, e bruscamente, senza quelle transazioni che sono assai comuni in teatro per mascherare il vero scopo, ella lo fissò di contro a quello del giovane che si abbassò subito.

Ella rimase alcuni secondi in quella positura; indi lasciò quasi cadere sul parapetto il binocolo, e fece un leggiero movimento di spalle d’impazienza.

Prima di terminare la recita Brusio lasciò il suo posto e si recò sul corridoio.

Il suo occhio era acceso e brillante; le sue gote, abitualmente pallide, si coloravano di un rossigno febbrile.

Pochi minuti dopo, prima ancora che il sipario fosse abbassato, udì aprire la porta di un palchetto sul corridoio, e dei passi che si avvicinavano, mischiandosi al fruscio di una veste.

La contessa gli passò dinanzi, questa volta allegra e ridente, al braccio di uno di coloro ch’erano stati nel suo palchetto.

Pietro in quel momento avrebbe dato dieci anni della sua vita per uno sguardo di quella donna. Le sue vesti lo toccarono senza che ella mostrasse di avvedersi di lui. Solo il conte si volse a fissarlo con occhio assai cupo e sospettoso.

Il giovane scese le scale quasi insieme a lei; la vide montare in carrozza col conte, dopo aver dato la mano agli altri, e partire.

Egli rimase immobile sul limitare.

— Non vai a casa? — gli disse alle spalle la voce di Raimondo.

— Sì... ti aspettavo per dirti addio...

— A domani, non è vero?

— Non lo so... Avrò forse da studiare tutto il giorno...

E s’incamminò lentamente per la Marina.

A due ore del mattino Raimondo si disponeva tranquillamente ad andare a letto, quando fu bussato con furia alla sua porta.

— Chi può esser a quest’ora? — disse fra sè il giovane sorpreso andando ad aprire.

— Son io, Raimondo... son io! Aprite, di grazia! — udì la voce della signora Brusio, quasi delirante dietro la porta.

— Che c’è, signora?... Dio mio!... ella mi spaventa! — esclamò il giovane introducendo la madre del suo amico nella sua camera.

— Pietro!... Dov’è Pietro? Dov’è mio figlio, signor Angiolini? — disse la povera madre colle lagrime agli occhi.

— Pietro non è in casa? — domandò Raimondo vieppiù sorpreso.

— Son due ore del mattino e mio figlio non si è ancora ritirato... Ho mandato il domestico a cercarlo al teatro, e ritornò dicendo che il teatro era chiuso da un pezzo, ma che sulla porta era avvenuta una rissa fra alcuni giovanotti; che vi erano stati dei feriti e degli arrestati... Mio Dio!... gli sarà accaduta qualche disgrazia!... Dove lo lasciaste voi?...

— Ci separammo all’ingresso del teatro, e mi disse che andava subito a casa... Ma io non so nulla di risse...

— Dio!... Dio mio!... — singhiozzò la madre torcendosi le braccia, — come farò, Dio mio, come farò!... Son sola, signor Angiolini, son sola!... Mio figlio!... chi sa cosa n’è di mio figlio!... Aiutatemi; corriamo all’ufficio di Questura a prendere informazioni...

— Non si disperi, signora; spero ricondurle Pietro al più presto, senza alcun accidente. Abbia la bontà di aspettarmi qui.

Raimondo, indossato in fretta un abito, prese il cappello ed uscì.

Dando campo ad un sospetto che gli era balenato in mente mentre la signora Brusio si disperava per l’inusitata e straordinaria tardanza del figlio suo, e per la notizia che il domestico le avea rapportato, egli si diresse per la strada Stesicorea ed indi per quella Etnea, verso la casa ove abitava la contessa di Prato. Giungendo sotto i veroni, sul marciapiede di faccia, gli sembrò di vedere qualche cosa di nero immobile sul lastrico.

Si avvicinò esitante e lo chiamò per nome a bassa voce.

— Che vuoi? — rispose una voce rauca e ancora tremante, come se inghiottisse delle lagrime, che Raimondo avrebbe stentato a riconoscere, nel suo accento duro e quasi cupo, se gli fosse stato meno famigliare.

Si appressò ancora, e vide il suo amico seduto sullo scaglione del marciapiede, coi gomiti sui ginocchi e il mento fra le mani.

— Tu qui!... a quest’ora! — esclamò Raimondo.

— Che vuoi, ti dico?! — replicò con maggiore asprezza Pietro. Non son forse più padrone di fare quello che mi piace?!...

Raimondo capì che quello non era il momento di parlare al suo amico; e sospirando tristamente, poichè allora soltanto scoperse lo spaventoso abisso del precipizio su cui egli si cullava, sedette silenzioso al suo fianco.

Pietro rimase muto, come non avvedendosene, cogli occhi di una sorprendente lucidità, fissi sul lume che brillava dietro le tende di seta del verone.

Qualche volta, a lunghi intervalli, egli trasaliva, ed una gocciola, come di sudore, che partiva dall’orbita, luccicava un momento solcando le sue guance. Ad un tratto egli afferrò con violenza il braccio di Raimondo.

— Guarda!... guarda anche tu! — diss’egli con la voce stridente ed interrotta del delirante o del pazzo.

E si alzò, come se avesse voluto elevarsi sino al verone per meglio osservare.

— Io non vedo niente, — mormorò Raimondo che si fregava gli occhi inutilmente.

Pietro, senza rispondergli, gli porse la busta del suo occhialetto che trasse dalla saccoccia del soprabito.

— Guarda, ti dico!... c’è da diventar pazzo!

Coll’aiuto dell’occhialetto Raimondo vide la contessa, presso le tende del verone, di cui le invetriate erano aperte, sdraiata, nella sua favorita posizione languida e voluttuosa, su di una poltrona, ancora colla veste del teatro, coi capelli ancora intrecciati di fiori; ed un uomo, il conte, ritto dietro la spalliera della poltrona, che si chinava verso di lei, e le divideva coi baci i ricci da sulla fronte. Ella gli sorrideva del suo riso da sirena; e di quando in quando, allorchè il conte rimaneva come stordito nel fascino di quelle seduzioni mirabili di voluttà, ella gli prendeva le mani colle sue manine affilate e bianchissime, e se ne lisciava la fronte, e le nascondeva fra il setoso volume dei suoi capelli, e se le posava sugli occhi e sulle labbra, ma lentamente, con quel suo abbandono ch’era irresistibile, come se avesse voluto dare il tempo a tutte le emanazioni inebbrianti che scaturivano dai suoi pori di penetrare in lui sino al midollo delle ossa.

Raimondo, quasi spaventato, pel suo amico, da quella vista, fu scosso dai singhiozzi di lui che prorompevano soffocati come singulti; e, riponendo tristamente nell’astuccio l’occhialetto, disse con tuono di chi prende una risoluzione:

— Via, Pietro, è tempo di partire! Tua madre ti attende a casa mia!

— Mia madre!... — esclamò il giovane con un sussulto che dimostrava come quella corda vibrasse ancora potentemente nel suo cuore, mentre tutte le altre erano allentate e sconvolte.

— Sì, tua madre, spaventata dalla tua estraordinaria tardanza, che ti cerca da me come una pazza.

— È tanto tardi dunque? — domandò egli come parlando in sogno.

— Son le tre fra poco.

— Non credevo fosse sì tardi... Hai ragione, andiamo via... bisogna essere uomini!

Poscia si fermò in mezzo alla strada, quasi non avesse avuto la forza di staccarsi da quel punto.

— Ben dicesti: bisogna essere uomini e non fanciulli! — replicò Raimondo, dando al suo accento la possibile espressione e trascinandolo in qualche modo per forza, mentre Pietro si lasciava condurre a capo chino come un ragazzo.

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