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UNA SALITA


AL MONVISO


LETTERA

DI

QUINTINO SELLA

A

B. GASTALDI

SEGRETARIO DELLA SCUOLA PER GLI INGEGNERI




TORINO

Tipografia dell’Opinione diretta da C. Carbone

1863.


(Estratto dall’Opinione — Settembre 1863)


Torino, 15 agosto 1863.



Carissimo amico,


Siamo riesciti; ed una comitiva d’italiani è finalmente salita sul Monviso! Io fui qualche momento in dubbio se te ne dovessi scrivere. È una vera crudeltà il venire a te, cui il dovere tenne incatenato sotto quest’afa canicolare in mezzo a carte aride e fastidiose come il polverio che infesta le strade, e parlarti delle impareggiabili soddisfazioni da noi godute appiè delle nevi, in mezzo alle inarrivabili sublimità degli orrori alpini. Ma non vorrei che mi tacciassi di mancator di parola, ed eccoti un breve cenno della nostra gita.

Ci si doveva essere un diluvio di gente, ma poi allo stringer del sacco ci trovammo solo in quattro, il conte di S. Robert, suo fratello Giacinto, il deputato Barracco ed io. Parecchi strumenti che si erano ordinati non furono neppure all’ordine, sicchè i progetti di una serie di osservazioni fatte contemporaneamente in stazioni diverse andarono tutti in fumo. Ci limitammo quindi a trovar modo di giungere alla vetta del Monviso.

Il Monviso! Questa maravigliosa montagna, che forma la parte più originale, più graziosa e più ardita dell’impareggiabile cornice che corona ogni vista dell’Italia settentrionale: il padre del maggior fiume d’Italia: la sola cima alpina e importante, di cui pare che i romani ci mandassero memoria, il pinifer Vesulus1! Ma qual’è l’italiano non affatto insensibile alle bellezze della natura, il quale non desideri soggiogare questa splendida montagna, la cui vetta è per intiero nostra?

Ma vedi forza del pregiudizio: il Monviso era da tutti i touristes, da tutti gli arditi alpigiani che ne vivono ai piedi dichiarato affatto inaccessibile. Ed è singolare che per tanti secoli non se ne tentasse neppure la salita, mentre vennero montate parecchie cime meno rimarchevoli, e che io giudico assai più difficili. Non v’ha cacciatore alpino, o dilettante di cosifatte escursioni, il quale non siasi parecchie volte trovato a pericoli assai più grandi di quelli che occorre affrontare per vincere questa meravigliosa cima. Era riserbata alla costanza ed all’ardire di un inglese la gloria di essere il primo a salirla.

Il sig. William Mathews tentava l’ascensione del Monviso nel 1860 in compagnia dei signori Bonney e Hawkshaw e della guida Michele Croz di Chamounix. Egli venne per la valle del Guil (territorio francese), ma il tempo era così poco propizio che si decise a scendere per la valle del Pellice a Pinerolo senza essere riescito nel suo intento.

Una miglior sorte coronava la sua costanza nel 1861; ed infatti, rimontata la valle della Varaita fino a Casteldelfino, e indi salendo pel fianco sinistro della valle di Chianale e di Vallante giungeva sopra una delle tre costole principali che scendono dal Monviso, cioè sopra quella che è diretta al sud-ovest. Una di quelle enormi spaccature a picco, che tanto caratterizzano il Monviso, gli impedì di giungere per questa via alla sospirata vetta, da cui non era più separato che da un’altezza di 430 metri. Ivi pernottava il Mathews, e non scoraggiato per nulla scendeva il giorno dopo nella parte superiore del vallone delle Forciolline, ed ascendendo poscia nell’intervallo compreso fra la costola sud-ovest e la costola sud-est del Monviso, assai più vicino a questa che non a quella, potè finalmente porre piede sulla cima il 30 agosto 1861. Erano con lui il signor Jacomb, e due guide di Chamounix, Michele e Gio. Batt. Croz.

Il 4 luglio 1862 si saliva una seconda volta al Monviso. Ed era il sig. Tuckett in compagnia delle guide Michele Croz di Chamounix, Pietro Perrn di Zermatt, e di un tal Bartolomeo Peyrotte di Bobbio di val Pellice. Il Tuckett passò anzi la notte a pochi metri al dissotto della cima del Monviso sull’orlo di un precipizio orrendo.

Non è a dire quanto codesti ripetuti successi spronassero i touristes italiani a non indugiare ulteriormente la salita di questo monte, il quale dopo la cessione della Savoia, con cui tanta parte del Monbianco passò alla Francia, è forse, ed anzi senza forse, la più bella sommità alpina che sia rimasta per intiero alla Italia.2

Nelle appendici dell’Opinione avrai letto il principio di una briosissima descrizione della settimana spesa attorno al Monviso da alcuni animosi giovani. Ed appena giunto in Torino mi recai stamane dal sig. Vialardi che ne faceva parte, e vi ammirai parecchie interessantissime fotografie, le quali, senza che occorra sforzo d’immaginazione, tutto vi trasportano col pensiero in mezzo a quelle ertissime e curiosissime balze. Una ostinata e gelida nebbia fu di ostacolo a questi coraggiosi giovani, e la cima non potè essere vinta.

Nella settimana scorsa un’altra comitiva, della quale faceva parte qualche nostro conoscente, e che si componeva nel resto di abitanti di Verzuolo, fra cui una gentilissima signora oriunda di Torino, tentava pure la salita del Monviso con molta probabilità di buon esito. Infatti si era cercato a guida nientemeno che il Peyrotte, il quale già era stato l’anno scorso sul Monviso assieme al Tuckett. Questa comitiva pervenne fino alla parte superiore del vallone delle Forciolline, ove pernottava alla bella stella sulle sponde di uno dei laghi, che gli antichi ghiacciai vi hanno formato. Si andò il giorno dopo alquanto innanzi; ma al Peyrotte venne talmente meno ogni specie di animo, che dopo molte difficoltà e tentennamenti finì per rifiutarsi affatto a condurre la comitiva sulla vetta del Monviso. Io non mi meraviglio troppo del poco entusiasmo del primo italiano che fu sul Monviso, perchè dalle frasi della relazione del Tuckett che lo riguardano, arguisco come già allora molto rimpiangesse di essersi posto in cosifatta impresa, tanto che il Tuckett l’ebbe a motteggiare non poco. Ma tornando alla comitiva, essa non poteva non perder animo per l’avvilimento del Peyrotte, e quindi rinunciò all’impresa.

Non ti debbo nascondere che anche noi avevamo specialmente contato sul Peyrotte per sapere la strada fatta dagli inglesi, e non mi fu per nulla confortante il trovare nel mio giungere in Torino alla sera dell’8 un telegramma del conte di S. Robert, il quale annunciava doversi rinunciare al Peyrotte, e chiedeva se non era il caso di far venire qualcuna delle guide di Chamounix o di Zermatt, che avevano salito il Monviso cogli inglesi. Ma io so che in questo genere d’imprese l’indugiare è spesso sinonimo di far nulla, ed era del resto convinto, che se gl’inglesi erano pervenuti alla cima, tanto più facilmente ci dovevamo giungere noi, che avevamo la scorta delle loro relazioni. Mi recai quindi a tentare il Barracco onde venisse a rappresentare l’estrema Calabria, di cui è oriundo e deputato, su questa estrema vetta delle Alpi Cozie. Il Barracco, il quale fu già presso alla vetta del Monbianco, e che, per quel che io sappia, fu il primo italiano a salire sulla höchste Spitze del Monrosa, non fu lungo a persuadersi, e la sera del 9 agosto partimmo per Saluzzo onde visitare il conte di S. Robert a Verzuolo, e proporgli di tentare in tutti i modi la salita del Monviso, in compagnia di qualche ardito montanaro.

Il conte di S. Robert, al quale tu sai quanto stia a cuore il Monviso; che fece tradurre e stampare nella Gazzetta di Torino la relazione di Tuckett sulla salita; che aveva infiammato di entusiasmo noi e tanti altri; egli che fu insomma il vero iniziatore della impresa, non se lo fece dire due volte, e, dato mano alle tende, viveri, strumenti, e a non so quanti altri arnesi che egli aveva allestiti, in guisa, che non solo non ci mancasse nella nostra gita il necessario, ma neppure ci facesse difetto il superfluo, si pose senz’altro in carrozza con noi, e ci avviammo per la valle della Varaita. Ivi fummo più tardi raggiunti dal cav. Giacinto di St-Robert, il quale, malgrado che avesse fatto parte della comitiva così male guidata dal Peyrotte, si volle tuttavia a noi associare, quando seppe che eravamo decisi di tentare quanto per noi si potesse onde giungere alla vetta del Monviso.

Ma ora egli è necessario che ti ponga al corrente delle disposizioni da noi prese onde potere dalla nostra gita trarre almeno qualche conclusione, di che si potesse avvantaggiare la ipsometria alpina. Avevamo a nostra disposizione tre barometri secondo il sistema di Fortin, costrutti da Fastré di Parigi, ed appartenenti l’uno al conte di S. Robert, l’altro a te, ed il terzo a me. Avevamo inoltre un barometro aneroide recentemente costrutto dal Casella a Londra, e poi gli occorrenti termometri, ecc. I barometri erano stati paragonati col barometro della specola di Torino, e furono ancora paragonati tra di loro e riferiti al tuo, il quale avendo un tubo di diametro maggiore, ci dava certezza di minori errori di capillarità.

Da questi paragoni si concluse che, onde riferire le nostre altezze barometriche a quelle dell’Accademia delle scienze di Torino, voglionsi aggiungere alle letture fatte sui barometri Gastaldi, S. Robert e Sella, millimetri 1,0; 0,1 e 0,4.

Un altro inconveniente era a superarsi, quello di riferire direttamente le nostre osservazioni a quelle dell’Accademia delle scienze di Torino, la cui specola è a distanza ragguardevole dai siti, che noi volevamo esplorare, e dove, sinchè non siano attuati alcuni provvedimenti di recente ordinati dall’Accademia appunto coll’intento di coadiuvare le determinazioni barometriche fatte nelle montagne, non si fanno che tre osservazioni al giorno. Dalle quali due cause conseguono divarii abbastanza ragguardevoli, come dimostrano le determinazioni dell’altezza del Monviso fatta dal Mathews. Infatti quella che derivò dal paragone colle osservazioni fatte a Ginevra fu di 3909 metri, e quella derivata dal paragone colle osservazioni del Gran San Bernardo fu di 3844 metri, cioè 65 metri meno.

Ed è perciò che creammo una stazione barometrica intermedia in Verzuolo, lasciando ivi il barometro S. Robert, ed incaricando di osservarlo ogni due ore un diligente studente di matematica, il sig. Melchiorre Pulciano.

Si era anzitutto determinata l’altezza di questa stazione mediante la seguente serie di osservazioni fatte nelle ore in cui si osserva alla specola di Torino. Ammettendo quindi che l’altezza del barometro di Torino sia di metri 285 al dissopra del livello del mare, e che l’errore del barometro che si osservava (era il barometro Gastaldi) fosse quello che sopra si indicò, si trovano colle tavole dell’Annuaire du bureau des longitudes le seguenti altezze:

Luogo Giorno Ora Altezza del barometro Temperatura del barometro Temperatura dell’aria Altezza di Verzuolo sul mare
Torino 1 ag. 3 pom. 741m,00 29°,5 28°,0 425m
Verzuolo id. id. 727,7 24,5 25,75
Torino 2 ag. 9 ant. 741,10 25,5 24,4 422
Verzuolo id. id. 728,4 24,25 21,0
Torino 6 ag. 9 ant. 743,34 27,8 25,4 426
Verzuolo id. id. 730,2 25,5 24,75
Torino id. 12 742,88 30,5 30 426
Verzuolo id. id. 729,6 26,0 27
Torino id. 3 pom. 742,60 34,5 31,8 427
Verzuolo id. id. 729,0 26,0 28
Torino 7 ag. 12 744,30 34,0° 33,8° 426
Verzuolo id. id. 730,9 27,0 26,5
Torino id. 3 pom. 743,66 36,4 34 420
Verzuolo id. id. 730,5 27,0 26,25

Si ha quindi in media per Verzuolo (casa Pulciano, 2° piano) un’altezza media sul livello del mare di 425m. Lo stato maggiore (Le Alpi che cingono l’Italia, ecc., pag. 784) assegna a Verzuolo un’altezza di 432 metri determinata col barometro, ma io non credo di dover modificare il numero da noi ottenuto, perchè questo si riferisce ad una stazione di posizione certa, ed è la media di parecchie osservazioni fatte in giorni diversi.

Quanto al barometro aneroide, egli è chiaro che se le sue indicazioni fossero sicure, si potrebbe dire uno strumento veramente preziosissimo, come quello che si può trasportare (senza i pericoli e le noie molte, che trae seco il barometro a mercurio) nelle montagne alquanto difficili. Il barometro aneroide, che noi avevamo, non era gran fatto più grosso di un oriuolo da tasca!

Nel 1856 io aveva esperimentato nelle valli di Cogne un aneroide di Lerebours: tornai a Torino coll’indice spostato di quasi due centimetri. L’aneroide Casella che noi avevamo si comportò molto meglio, ed ecco le differenze fra le indicazioni del medesimo e le indicazioni del barometro a mercurio ridotte alla temperatura 0°, che osservammo nella nostra gita ad altezze diversissime: 6mm,83; 11mm,86; 9mm,38; 6mm,54; 1mm,86; 4mm,91.

Queste differenze sono abbastanza saltuarie perchè se ne debba conchiudere non potersi far uso del nostro aneroide per determinazioni esatte. Però, ove si abbia contemporaneamente il barometro a mercurio e l’aneroide, si può far uso di questo per determinazioni approssimative fra due successive stazioni del barometro a mercurio. Ed in questo modo noi traemmo anche partito dall’aneroide Casella.

La strada da Saluzzo a Verzuolo e Piasco lambisce le ultime falde delle Alpi, che vanno ivi a seppellirsi sotto le alluvioni. Esse constano di scisti diversi più o meno calcariferi, sopra i quali sono aperte molte cave, i cui prodotti trovansi troppo bene rappresentati nella raccolta mineralogica della scuola di applicazione, perchè io abbia a discorrertene qui.

Nel rimontare la valle, questi scisti sono in due luoghi interrotti dal serpentino, come si trova indicato nella carta geologica del Sismonda, ed in qualche luogo passano al gneiss ed al micascisto.

È degno di nota il tratto di questi scisti, compreso tra Frassino e Roure, poichè ivi il calcare è diventato perfettamente saccaroide, e siccome esso è per giunta bianco, così si ha un marmo non ispregevole. Non ebbi però occasione di vederlo altrimenti adoprato, che come pietra di calce. Sono curiose alcune diramazioni di questo calcare bianco entro allo scisto bigio scuro che l’attornia, le quali ricordano, per la forma, le celebri ramificazioni del granito dell’isola dell’Elba entro agli scisti che gli stanno dappresso.

La formazione scistosa della valle di Varaita è ancora interrotta da una testata di granito, che è pure indicata dal Sismonda. Il granito è in via di scomposizione, come scorgerai dall’esemplare che t’invio, e che raccolsi da una cava adiacente ad un ponte in costruzione.

Ho preso nota di alcune direzioni ed inclinazioni di strati, ma non ti aspetterai certo che te ne discorra, e tanto meno che ne tragga delle conclusioni generali. Da lunga pezza tu sai quale opinione io abbia sul valore delle conclusioni tratte da poche osservazioni fatte nelle Alpi sulle direzioni dei tormentatissimi strati che le compongono.

Lascierò a te, che non dubito studierai minutamente i dintorni del Monviso, lo indagare accuratamente l’andamento interessantissimo della stratificazione di queste montagne, giacchè in questa gita io non fui che touriste, a null’altro intento, che a raggiungere la vetta del Monviso.

Solo mi permetterò di notare, che per buona parte della valle della Varaita gli strati sembrano avere una direzione quasi parallela a quella dell’asse della valle, ed un’inclinazione verso il sud. Indi nasce, che spesso, mentre la pendice settentrionale va dolcemente alla cima senza interruzioni, la pendice meridionale termina invece contro testate di strati rotti a picco.

Le alluvioni che sono al fondo della valle presentano qualche volta altipiani che vennero profondamente intagliati dal torrente, e raccomando alle tue diligenti osservazioni certe roccie rotondate a mezza valle, che ci ricordavano le roccie montone e le traccie degli antichi ghiacciai.

In fatto di botanica ti dirà il conte S. Robert, che è botanico di molta vaglia, e che ha per giunta attentamente e lungamente erborizzato attorno al Monviso, quanto ci sia di particolare in queste vallate. Come estraneo a questa scienza, soltanto ti dirò come la valle della Varaita sia una delle valli alpine che il viaggiatore percorre con maggior piacere. Infatti se il suo fondo venne recentemente depauperato dei noci colossali di cui andava altero, esso è tuttavia quasi ovunque verdeggiante di prati perennemente irrigati dalle acque della Varaita e dei torrenti laterali. La costa settentrionale è meno doviziosa di vegetazione, perchè i cereali vi sono coltivati fino a grande altezza, ma il fianco meridionale è ricco di bellissime foreste di larici, le quali danno alla valle un aspetto verdeggiante fatto a bella posta per riposare l’occhio stanco dall’aridità, che oggi travaglia l’Italia settentrionale.

Fra le particolarità, che per la loro frequenza e la loro mole attraevano la mia attenzione, citerò il Dypsacus fullonum e l’Onopordon acanthium, di che nei dintorni di Sampeyre era la strada fiancheggiata, come pure la Petasites vulgaris, le cui foglie misurano in larghezza fino a mezzo metro, e sono ivi adoperate per avvolgere il butirro.

Oltre Sampeyre i larici, che si erano fin là tenuti sulle pendici, scendono sino al fondo della valle, e vi abbondano i salici in guisa da dare a questa un carattere speciale. È notevole il Salix viminalis per la sua frequenza, ed il Salix alba per l’altezza a cui giunge.

La vegetazione è meno rigogliosa sui serpentini, ed in pochi luoghi si può osservare così bene la influenza della natura del suolo sulla vegetazione, come tra Villaretto e Torrette, ove sovra i scisti serpentinosi ed enfotidei del fianco settentrionale essa è di una povertà che fa singolare contrasto collo splendido verde del fondo della valle e del fianco meridionale.

In generale gli abitanti sono alti della persona, e si traggono di qui non pochi soldati di cavalleria, ed anzi si osserva nei Santi dipinti qua e là sulle pareti (Dio perdoni gli autori degli orribili scarabocchi!) che sono in maggior numero ed in più grande favore i Santi a cavallo con tanto di lancia, di sciabola e di speroni.

Sono rare le deformità, e, sia per quel poco che c’ebbi a fare io, come per le relazioni di altri viaggiatori, debbo inferirne, che questi valligiani sono e cortesi e discreti. Pur troppo non è così in tutte le valli alpine. Ricorderai certe gite pedestri da noi fatte in luoghi ove tutto il creato era all’apice del bello e del sublime: il solo bipes implumis orribile per la deformità, la sconcezza e la villania.

Oltre Piasco non vidi traccia di alcuna particolare industria alquanto estesa. Quanta forza motrice nelle cascate della Varaita, che scorre inutilmente! Quante miniere di lavoro, assai più perenni delle miniere di carbon fossile, intieramente neglette!

Eravamo partiti alle cinque da Saluzzo, e, malgrado un’ora di sosta a Verzuolo, giunsimo alle 9 1/2 a Sampeyre, ove ci fermammo oltre un’ora e mezza per lo asciolvere e per lasciar riposare i cavalli.

Profittammo di questo intervallo per una prima prova dei barometri, facendo stazione nel piano terreno all’albergo della Croce Bianca.

Alle osservazioni fatte a Sampeyre col tuo e mio barometro, contrapporrò quelle fatte contemporaneamente a Verzuolo dal sig. Pulciano:

Barometro Ora Altezza del Barometro Temperatura del Barometro Temperatura dell’aria Altezza sopra Verzuolo
mm ° ° m
S. Robert 9 1/2 ant. 733,2 28,25 26
Sella id. 688,2 24,3 24 547
S. Robert 10 ant. 733,2 28,25 26
Gastaldi id. 686,8 24 23 556
S. Robert 11 ant. 732,8 28 26,4
Gastaldi id. 686,4 23,3 23,3 557
Sella id. 687,4 22,9 23,1 551

Si ha quindi per Sampeyre un’altezza media al dissopra di Verzuolo di 553 metri, cui, aggiungendo quella di Verzuolo sul mare, si trova per Sampeyre un’altezza sul mare di 977 metri. Lo stato maggiore (Le Alpi che cingono l’Italia, ecc., pag. 772) assegna a Sampeyre un’altezza di 979 metri, determinata anche col barometro.

La vettura ci condusse quindi per una strada in via di compimento sino a Torrette, onde dopo mezz’ora di passeggiata a piedi si giunse a Casteldelfino ad un’ora pom.

Ivi trovammo l’ospitalità la più cortese, la più attenta, e ad un tempo la più libera presso il vicario di Casteldelfino, il signor D. Carlo Galliano. Questo degnissimo sacerdote, che è ad un tempo ardito ed esperto montanaro, non solo ebbe le più minute cure di noi durante il nostro soggiorno a Casteldelfino, ma ci procacciò quanto occorreva per la salita del Monviso, cercandoci i più robusti alpigiani a guide ed a portatori degli innumerevoli arnesi di che la Provvidenza, sotto le spoglie del conte di S. Robert, ci volle muniti.

Spendemmo il rimanente della giornata a Casteldelfino nel lasciar passare un temporale di poca importanza, nel visitare i dintorni che sono stupendi, e nell’ordinare l’occorrente pel giorno seguente.

Casteldelfino sta a cavaliere di un triangolo in cui il torrente di Chianale confluisce colla Varaita. Il verde di questo triangolo doviziosissimamente irrigato dalle acque dei due torrenti, e dalle numerose fontane che sgorgano dalle alluvioni su cui è fabbricato il villaggio; i boschi di larice, che tutto ammantano il monte Peyrone, che sta dirimpetto a Casteldelfino; il giallo dorato dei campi di cereali, che coprono fino ad una certa altezza la pendice settentrionale della valle; la limpidezza ed il rumorio delle acque; le erte balze del Pelvo e di altre punte che torreggiano in alto; le sinuosità della valle Varaita, ed al fondo nuove balze e nuovi dirupi; la freschezza e vivacità dell’aria; quel non so che di alpestre, che, una volta gustato, non si ricorda più senza nostalgia, tutto ciò fa di Casteldelfino uno de’ più bei siti per passarvi la estate.

Quando sia compiuta la strada carrozzabile della valle di Varaita fino al confine francese, ove la Francia ha già quasi per intiero condotta la sua strada, un transito di qualche importanza si stabilirà per questa valle. Inoltre Casteldelfino diventerà il punto di partenza di coloro che vorranno salire il Monviso, e siccome, oltre agli stranieri, molti nostri concittadini vorranno certo procurarsi il maschio piacere di ascendere questa classica montagna, così egli è chiaro che Casteldelfino sarà tra non molti anni uno dei posti delle Alpi abbastanza frequentati.

A conseguire questo scopo occorre: che il ministro dei lavori pubblici applichi un bricciolo dei sussidii stradali al compimento della strada di valle Varaita; che qualcuno stabilisca a Casteldelfino una locanda decente e discreta; finalmente che il Comune faccia costrurre nella parte alta del vallone delle Forciolline una casipola di rifugio, ove possa pernottare chi va al Monviso. Sarebbe infatti necessario l’avere lì un quid, come la così detta Casa d’Asti per chi sale il Rocciamelone, ove ricorderai che pernottammo senza la noia di trascicare tende, o di passare la notte a cielo scoperto.

Dirimpetto a Casteldelfino e sulla destra del Chianale v’ha un castello diroccato, che venne distrutto nel principio dello scorso secolo, allorquando queste valli passarono dal dominio della Francia a quello di Casa Savoia. La vista di cui si gode da queste rovine era per noi interessantissima. Si vedeva benissimo la vetta del Monviso e la costola che ne scende verso il sud-ovest.

Nella casa del parroco, ed al piano che è terreno rispetto alla strada, sfoderammo i barometri, ed ecco i risultati delle nostre osservazioni:

Barometro Ora Altezza del Barometro Temperatura del Barometro Temperatura dell’aria Altezza sopra Verzuolo
mm ° ° m
S. Robert 1 3/4 pom. 732,15 27,75 26,8
Sella id. 661,5 16,5 15,5 860
S. Robert 3 1/4 pom. 732,0 27,5 26,3
Sella id. 662,4 17,5 17,6 851
S. Robert 6 pom. 731,5 27,25 24,1
Gastaldi id. 660,5 19 18,5 861
Sella id. 660,8 19,7 19 867
S. Robert 5 1/2 ant. 730,3 26,25 20,6
Sella dell’11 ag. 658,9 13,4 12,9 856
Si ha quindi in media per Casteldelfino una altezza al dissopra di Verzuolo di 859 metri, e al dissopra del livello del mare di 1283 metri. Lo stato maggiore (Le Alpi che cingono l’Italia) assegna a Casteldelfino un’altezza di 1323 metri, determinata anche col barometro. Non so però a qual parte di Casteldelfino si riferisca questa determinazione.

Al mattino del giorno seguente (11 agosto) movemmo finalmente da Casteldelfino ad un’ora in verità poco decente per viaggiatori di montagna. Erano già le sei scoccate! Ma giudica dei nostri impedimenti. La massa enorme di arnesi che trascinammo con noi non richiese meno di sette robusti portatori, oltre alle tre guide che certo non salirono a mani vuote. Erano tre codeste guide, o meglio accompagnatori, poichè niuno di loro era stato mai sul Monviso, ma ciò non ostante essi mostrarono tanto valore, e possono oggi essere di tal sussidio a chi voglia tentare la salita del Monviso, che te ne debbo fare i nomi. E sono Gertoux Raimondo di Casteldelfino, borgata del Puy, già soldato, ed oggi, a momenti perduti, fortissimo cacciatore di camosci; Bodoino Giuseppe, anche di Casteldelfino, e parimenti antico soldato, ed Abbà Gio. Battista, contadino di S. Robert a Verzuolo.

Prendemmo ad ascendere lentamente il potente terreno di trasporto per opera, vuoi di acque, vuoi di ghiacciai, vuoi di frane, vuoi delle tre cause insieme riunite, sul quale è fondato Casteldelfino, e ci avviammo al villaggio di Villaretto. Questo troverai indicato sulla carta dello Stato Maggiore alla scala di 1:50000, e da una osservazione fatta col barometro aneroide io il giudico a forse 1560 metri sul mare.

Salimmo quindi la costa che sulla carta è detta delle Ale, seguendo una via ivi indicata fino all’incrocicchio di un canaletto, che parrebbe corrispondere alla strada proveniente da Parlambert, la quale è anche accennata nella carta. Ecco i risultati di una stazione barometrica ivi fatta:

Barometro Ora Altezza del Barometro Temperatura del Barometro Temperatura dell’aria Altezza sopra Verzuolo
mm ° ° m
S. Robert 9 1/2 ant. 730,04 27,23 23,9
Gastaldi id. 603,7 20 16 1616
Sella id. 604,4 19,7 16,7 1616

Ciò corrisponde ad una altezza sul mare di 2041 metri.

Proseguimmo quindi verso il sito detto nella carta Pian Meyer, nome che il Mathews attribuisce ai casolari che sono presso la confluenza del rivo di Vallante con quello delle Forciolline.

Il nome di Meira è del resto assai frequente in queste valli, perchè con tale denominazione si indicano quei casolari delle alte montagne, in cui si ricoverano persone e bestiami nei pochi mesi dell’estate, in cui il terreno è senza neve e gelo. Casolari che in tanta parte dei monti italiani e svizzeri hanno nome di Alpi, e che in qualche luogo si dicono anche Muande, perchè si passa dalle più basse alle più alte a misura che col procedere dell’estate si va liberando il terreno dai residui dell’inverno. Il conte di S. Robert ci comunicava a questo proposito una sua ingegnosa osservazione, cioè che in queste valli si adoperi anche il vocabolo meirè come verbo, e significhi allora tramutare, e come tanto il sostantivo meira (casolare alpino), quanto il verbo meirè derivino da analogo vocabolo ariaco, il quale significa per lo appunto mutare. Ma io non la finirei se volessi comunicarti tutte le pellegrine osservazioni del S. Robert, il quale tra lo studio della teorica delle armi da fuoco, la teoria del calore e la botanica trova modo di pensare alle analogie dei dialetti delle nostre valli col sanscritto e l’ariaco, e torno alla nostra gita.

Si giunse così presso la fontana detta dei Gorghi, la cui temperatura non era che di 5°, e la cui altezza al dissopra del mare risulterebbe di 2374 metri, come dall’osservazione seguente:

Barometro Ora Altezza del Barometro Temperatura del Barometro Temperatura dell’aria Altezza sopra Verzuolo
mm ° ° m
S. Robert 12.30 729,7 27,5 26,2
Gastaldi id. 581,5 19,5 18 1949

Ivi ci fermammo per la colezione, giacchè sito più conveniente per noi non si poteva immaginare.

Da gran pezza dalle masse di trasporto si era passato alla roccia in posto, scisti di variissima natura, ora cloritici, ora talcosi, ora serpentinosi. Qui si era sopra una roccia montona, ben rotondata e con strie. Non è a dire se al cospetto di questa bella traccia degli antichi ghiacciai, confermata da un ciottolo striato che io aveva poco innanzi trovato, non si ricordasse il nome di te, che avesti la invidiabile ventura di dimostrare pel primo la estensione degli antichi ghiacciai in Italia; di te che fosti primo a chiarire come quelle singolari colline (composte indifferentemente di ghiaia impalpabile e di massi enormi), che chiudono gli sbocchi delle più grandi valli alpine, altro non sieno che stupende morene lasciate da ghiacciai, i quali dalla vetta delle Alpi si estendevano fino a toccare la pianura del Po.

Noi eravamo inoltre al limite degli alberi di alto fusto, e qui non è inutile il rammentare come partendo da Casteldelfino noi ci trovassimo per un tratto notevole in mezzo a campi di cereali di ogni specie, cui sono spesso di siepe gruppi di uva spina, ma che più in su, dopo oltrepassati pochi aceri e sorbi, noi ci trovassimo in mezzo ai larici, i quali nella pendice meridionale della Varaita scendono al torrente fino a Sampeyre. Quindi ad un certo punto, che dopo una osservazione fatta col barometro aneroide io giudico prossimamente ad una altezza di 1780 metri sul mare, cominciammo a trovare dei pini cembri veramente magnifici, il cui colore scuro si maritava benissimo col verde chiaro dei larici. Codesti pini, detti elve nel dialetto del paese, diventano dominanti nelle altezze superiori di queste montagne, ma sono però fino al loro ultimo confine sempre accompagnati dal larice.

V’ha però una differenza capitale fra queste due piante resinose, ed è che mentre il larice dai 2374 metri, da noi determinati alla fontana dei Gorghi, scende fino a Sampeyre, cioè a 977 metri, vale a dire si estende per una altezza di 1400 metri, il pino cembro non scende che fino a 1780 metri, e si estende quindi soltanto per una altezza di 600 metri.

Importantissima era finalmente per noi la scelta stazione per la vista del colosso che stavamo per affrontare.

Inoltratici poscia di alcun poco, giunsimo al ciglio di un ampio bacino formato dal torrente delle Forciolline, dal torrente di Vallante e dal termine della orrenda costola, che dal Monviso si dirige al sud-ovest, e che è nella carta dello Stato Maggiore denominata Rocche di Viso o Forciolline.

Ma se tu hai sinquì seguita la nostra gita sulla carta dello Stato Maggiore, è necessario che ti renda conto di uno spiacevole errore, che vorrei veder corretto senza indugio con una nuova edizione del foglio n. 57, onde evitare poco benevoli commenti che non mancheranno di fare gli stranieri, i quali accorreranno in numero sempre maggiore al Monviso.

Lascio in disparte certe inesattezze di indicazioni, delle quali io non posso fare appunto allo Stato Maggiore, perchè nelle montagne al dissopra di ogni abitazione e vegetazione, le stesse punte e gli stessi torrenti ricevono diversi nomi non solo dagli abitanti di diverse vallate, ma spesso anche dagli abitanti dei diversi casolari di uno stesso villaggio. Onde nasce che nulla è così incerto e difficile come la denominazione di questi siti inospiti. Ed anzi io vorrei, che allorquando si fa una carta in grande scala di siti così poco frequentati, non si esitasse nel battezzare ex novo certe cime e certi seni, imperocchè i nomi così proposti verrebbero ben presto adottati da tutti, e non si avrebbe l’inconveniente, nel quale spesso si cade, di applicare ad un sito nomi, che dalla maggioranza degli abitanti vengono invece applicati ad un altro.

Ma qui si tratta di errore più importante. Osserverai che nella carta dello Stato Maggiore al sud del Monviso si ha il vallone delle Forciolline, che termina col passo delle Sagnette, per cui si fa capo nella valle del Po: quindi il rivo di Giaffon o delle Giargiatte: finalmente il rivo Eisolao che contiene due laghetti e si termina col passo di S. Chiaffredo. Tutti e tre i torrenti che escono da queste valli sono figurati come confluenti direttamente nel torrente di Vallante.

Ora abbiamo potuto accertare nella corsa da noi fatta a bella posta il 13 agosto, che dopo il vallone delle Forciolline esiste un altro brevissimo valloncello, le cui acque si immettono però nel torrente delle Forciolline al dissotto dei laghi. Salendo poscia un aspro contrafforte per una via che pare quella accennata nella carta dello Stato Maggiore, si perviene ad un vallone contenente due laghetti, terminante col passo di S. Chiaffredo, e chiamato nel paese Vallone delle Giargiatte.

Indi è che debbesi trasportare il nome di rivo delle Giargiatte a quello che è detto Eisolao nella carta, ed il rivo che è detto delle Giargiatte nella carta, invece di andare nel Vallante, come ivi è indicato, si immette dopo breve corso nel rivo delle Forciolline.

Data questa spiegazione, agevolmente intenderai come nella nostra via per giungere al ciglio della valle delle Forciolline non incontrassimo il vallone intermedio, che è figurato con tratti assai vivi nella carta dello Stato Maggiore.

Fino a questo punto noi eravamo giunti per sì facile strada, che per vero, nonchè impossibile, ma neppure malagevole pareva che potesse essere la salita al Monviso, ma qui esso si presentò ad un tratto in tutto il suo orrore, e non ti nascondo che cominciammo se non a titubare, almeno a capire come l’opinione popolare lo reputasse inaccessibile. Ma perchè meglio ci intendiamo, è necessario dare un qualche cenno sulla forma del Monviso.

Immagina posto verticalmente uno di quei pugnali triangolari con cui solevano talvolta sbudellarsi i nostri padri: supponi quindi che si giri una delle costole del medesimo infino a che venga a porsi nello stesso piano verticale contenente un’altra costola, ed avrai una idea della forma del Monviso.

Da Torino tu sei dirimpetto alle due costole che sono sovra uno stesso piano diretto S. 30° E. e N. 30° O. Una terza costola ha direzione S. 24° O. che fa angolo di 54° colla proiezione della costola meridionale, che tu scorgi da Torino, e di 126° con quella della costola settentrionale.

Le due costole che si vedono da Torino sembrano in linea retta, ed hanno quella rapidissima inclinazione, che caratterizza in modo così singolare il Monviso. La costola, che si volge al sud-ovest, ha invece una forma, che all’ingrosso si direbbe quella d’un quarto di circolo: ed il suo perimetro dapprima orizzontale laddove si congiunge alla vetta centrale, ma notevolmente al dissotto della medesima, termina in un orrendo dirupo verticale nel vallone delle Forciolline.

Ma se a grande distanza i contorni di queste costole sembrano abbastanza regolari, visti in qualche prossimità si mostrano interrotti da enormi spaccature, fra cui sorgono le più ardite e le più bizzarre guglie, che sia possibile immaginare.

La vetta stessa del Monviso ha forma assai diversa da quella che si giudicherebbe da Torino. Essa si compone di due cime di altezza quasi eguale, l’una ad occidente dall’altra. La punta occidentale è allungata nel senso del meridiano, e strettissima nel senso del parallelo. Dalla medesima e verso la sua metà parte una costiera, che rapidamente si abbassa e poi si rialza in guisa da terminare nella punta orientale, che è per contro allungata nel senso del parallelo, e strettissima nel senso del meridiano.

Il Monviso si compone di scisti ora serpentinosi, ora cloritici, ora talcosi, i quali passano tal fiata alla quarzite ed alla lavagna, e che in generale, chimicamente parlando, non si alterano molto all’azione della intemperie atmosferica. Ma questi scisti hanno ad un grado altissimo la proprietà di sfaldarsi grossamente in due o più sensi traversalmente o perpendicolarmente alla stratificazione e di dividersi con facilità in massi di volume ragguardevole. Questa fissilità veramente straordinaria e la poca alterabilità chimica degli strati sono tra le cause principali, a cui il Monviso debbe la sua forma attuale. Infatti, se tu supponi un terreno di questa fatta sollevato a grande altezza, capirai che le acque ed i ghiacciai facilmente si apriranno nel medesimo vie e solchi profondi, traendo seco a precipizio le parti degli strati superiori, le cui basi si trovino corrose, e lasciando sempre contorni angolosi a burrati e dirupi ripidissimi. Codesti solchi frequenti e profondi sono anzi caratteristici di questa fatta di montagne, e ricevono dagli abitanti il nome di coulor dal francese couloir.

Le spaccature e le guglie, che frastagliano le tre costole del Monviso, sono di ostacolo a che per esse si giunga alla vetta. Gli intervalli fra queste tre costole o grandi puntelli del Monviso sono formati di una serie di solchi e di gradini a picco di grande elevazione e singolarmente bizzarri, in tutti i sensi rotti e frastagliati, a’ cui piedi stanno cumuli enormi di rottami d’ogni dimensione dei varii strati che compongono la montagna. Questi cumuli di rottami (cassere nel dialetto del paese), continuamente rinfrescati da nuova roccia che si precipita dall’alto, hanno un pendio spesso eguale al maximum, che comporti l’attrito delle masse di cui si compongono. Indi è che talvolta basta una lieve spinta per far rotolare pietre grossissime, le quali nello scendere altre ne trascinano seco. Cosicchè chi cammini poco pensatamente per queste macerie può, nuovo Orfeo, e senza bisogno di lira, tirarsi dietro quantità enormi di sassi. I fianchi stessi della montagna si stanno continuamente rovinando, e presentano dovunque massi talvolta grandissimi, cui par che basti poco più di un soffio per precipitarli al basso.

Quindi è che nell’ingolfarsi tra queste orride gole spesso è poco sicuro il piede, che posa sopra rottami, che facilmente vi sfuggono sotto, e sovente non è ben salda la mano che si aggrappa a pareti, cui basta un lieve sforzo per staccarle dalla montagna.

Non è quindi malagevole a capire come il Monviso sia per tanti secoli stato dichiarato inaccessibile anche dai più arditi montanari, che ne vivono a’ piedi. E per fermo veramente impossibile pare la salita fra le due costole che guardano Torino, ovvero fra la costola settentrionale, e quella che va al S.O., troppo aperto essendo l’angolo che esse fanno tra loro, e troppo erti i burroni ed i precipizii dai quali sono tagliate.

Però il Mathews ebbe giustamente a riflettere, che se v’era un lato per cui si potesse ascendere sul Monviso, egli era fra le due costole che volgono al mezzogiorno, e le cui proiezioni fanno angolo acuto di 54°. Ivi infatti il pendio medio non può non essere minore che sugli altri fianchi, ed i burroni ed i precipizii debbono esser meno formidabili.

Il fatto diede pienamente ragione alle previsioni del Mathews, imperocchè la salita del Monviso da questa parte non può dirsi malagevole, e solo richiede in chi la vuole intraprendere la facoltà di rimanere calmi sull’orlo di qualche precipizio, all’incontro di qualche pericolo. Vuolsi puramente che l’orrore pel vuoto che si prova quando si sta sopra un abisso, non giunga a segno di dare il capogiro.

Ma egli è ormai tempo, che torniamo laddove eravamo, cioè sul ciglio del bacino delle Forciolline e del Vallante. Ivi ci decidemmo a scendere alquanto per uno dei solchi, di cui ti parlavo, e dove pochissimo mancò che il Barracco non avesse sul capo un masso smosso da qualcuno che gli stava dietro, masso che avrebbe per lui posto termine ad ogni gita. Indi costeggiammo il bacino tagliando parecchie striscie di rottami, che scendevano dai dirupi superiori, e giunsimo al torrente delle Forciolline.

Aiutandoci quindi delle mani e dei piedi risalimmo la stretta ed erta gola in cui scorre questo torrente, camminando ora sopra le roccie laterali, ora sopra i rottami, ora sovra i lembi di neve, e si pervenne così al piano superiore del vallone delle Forciolline.

Abbiamo molte volte osservato insieme nelle nostre escursioni alpestri come le valli elevate constino di una successione di bacini abbastanza piani e larghi, in cui si passa dall’uno all’altro per strette e ripide gole aperte ora nel vivo sasso ed ora in masse di trasporto. I pianori di questa fatta al Monviso si dicono maite e contengono spesso piccoli laghetti, di cui osserverai un gran numero gettando gli occhi sulla carta dello Stato Maggiore. Dico pianori, sebbene siano talvolta selciati di massi angolosi di parecchi metri cubi, ma tant’è che tutto è relativo: rispetto ai pizzi circostanti, ed ai rottami che ne stanno ai piedi, sembrano piani di meravigliosa uniformità.

Nella parte superiore delle Forciolline vi sono quattro laghetti di questa fatta, e noi ci fermammo sulla sponda settentrionale del lago più elevato, il quale è ad un tempo il più vasto. Ivi è un pianoro nel quale aveva passata la notte a cielo scoperto la comitiva, che nella precedente settimana aveva tentato col Peyrotte la salita del Monviso, e che ad onore della gentile signora che ne faceva parte noi chiamammo Maita Boarelli; quivi piantammo le due tende che avevamo, onde pernottarvi.

Sarebbe stato desiderabile ed importante l’attendarci più in su, onde essere il giorno susseguente più vicini alla vetta del Monviso, ma i portatori delle tende e degli altri arnesi doveano tornare la sera stessa a Casteldelfino, e fu giuocoforza il porli in libertà in tempo utile. Essendo ancora alto il giorno, ci diemmo ad esplorare i dintorni ed andammo a visitare il passo delle Sagnette, per cui dal vallone delle Forciolline si scende nella valle del Po.

A partire dalla Maita Boarelli trovammo il fondo della valle coperto di neve, ad eccezione dello sporgere che qua e là facevano masse di roccia in posto, ovvero di rottami d’altezza un po’ notevole. A quanto ci si diceva, il vallone delle Forciolline suole a questa stagione essere sgombro di neve, ma quest’anno la quantità di neve che cadde nelle Alpi fu tale che non si ha ricordanza di altrettanta da un pezzo.

Al passo delle Sagnette e sopratutto avanzando di forse 100 metri alla nostra sinistra sopra alcune roccie sporgenti, che salutammo col nome di roccie di Calabria ad onore del paese rappresentato dal nostro Barracco, ebbimo la più bella vista, che la fantasia la più ardita possa immaginare.

A distanza la pianura del Po ove si distinguevano benissimo parecchie città e le strade ed i fiumi, che sembravano liste d’argento. Indi emergevano le Alpi, i cui contrafforti parevano dalla nostra altezza umili collinette. Sotto noi, tanto che sembrava, avremmo potuto lanciare in essi una pietra, i laghi da cui hanno origine la Lenta ed il Po, e certe roccie montone bellissime che non posso a meno di indicare alla tua attenzione. Attorno a noi guglie tagliate a picco, precipizii, orrori veramente sublimi. Massi enormi parevano tenere alla montagna per poco più di un filo, e certe piramidi acutissime sembravano doversi precipitare in basso con lieve spinta. Le roccie stesse sopra le quali noi ci trovavamo, erano in siffatta guisa fratturate, che non pareva gran fatto prudente lo scuoterle di soverchio. Regnava quel singolare silenzio sepolcrale che fa tanta impressione sulle alte montagne al di sopra dell’abitato, delle foreste e dei torrenti.

Ma egli è inutile che io tenti neppure di adombrarti spettacoli di tal fatta. Una sola penna avrebbe potuto dipingerli, quella di Dante! Gran peccato che il poeta fiorentino invece delle microscopiche accidentalità degli Apennini non abbia conosciuto i colossali e sublimi orrori delle Alpi! Che immagini e che pennellate ne avrebbe tratto quel finissimo osservatore della natura, il quale così profondamente ne sentiva tutte le più recondite bellezze!

Ma la notte si stava alzando, e fu giuocoforza l’abbandonare lo stupendo spettacolo, non però senza aver fatto prima due osservazioni barometriche, la prima alle roccie di Calabria, la seconda al passo delle Sagnette:

Barometro Ora Altezza del Barometro Temperatura del Barometro Temperatura dell’aria Altezza sopra Verzuolo
mm ° ° m
S. Robert 5 1/2 pom. 728,2 27,25 26
Gastaldi Id. 535,9 10 8 2579
S. Robert 6 pom. 728,2 27 24,60
Gastaldi Id. 537,5 11 8 2549

Dall’ultima osservazione si concluderebbe che il passo delle Sagnette è a 2973 metri sul mare.

Giunti alla maita Boarelli trovammo le tende all’ordine, una per noi ed un’altra per le guide, ed un pranzo formale allestito dall’Abbà. Questa guida cumulando le qualità di valoroso montanaro, di abile cuoco e di attento cameriere, ci fu in tutta la nostra gita veramente utilissimo

Del resto il conte di S. Robert aveva pensato a tutto; non mancava neppure la senapa di Mail, grand moutardier de LL. MM. les empereurs di non so quanti imperi! Non credo che siensi fatti mai di così fatti festini a tanta altezza ed in siti così selvaggi. Le severe cime che ci contemplavano debbono esserne state scandalizzate.

Dormimmo quindi sotto le tende. Taluno di noi aveva spinto il sibaritismo fino al farsi trasportare un materasso a soffietto! Io trovo che stendendo sulla terra un pastrano impermeabile all’umidità, ponendo come origliere il sacco a martelli da geologo, e gettando sul corpo un paio di coperte, si può dormire con tutto il comfort desiderabile.

Però io esagererei di molto quando dicessi di aver fatta una buona nottata. Il passaggio dalle discussioni parlamentari e dalla snervante vita sedentaria a questi faticosi esercizi era stato forse troppo repentino, ed il sangue aveva ricevuta una scossa subitanea, che mi dava una agitazione febbrile. Ma il mio amico Barracco che era presso a poco sulla nuda terra, sebbene allevato in mezzo alle delizie di Napoli, e fra tutti gli agi compatibili con una delle più grandi fortune d’Italia, dormì saporitissimamente tutta la notte. E poi mi si discorra della mollezza dei meridionali!

La mattina del 12 agosto eravamo tutti in piedi ai primi albori e tosto ci avviammo coi nostri bastoni alpini a punta di ferro in compagnia delle tre guide alle quali avevamo affidati barometri, martelli, cannocchiali, un’ascia per tagliare il ghiaccio, una lunga corda, qualche leggiero soprabito ed i viveri per una modesta colezione. Nè scordammo il volume dei Peaks, Passes and Glaciers in cui si trova la relazione della salita di Mathews, che fu la nostra vera guida.

Ricalcammo le nevi già attraversate per andare al passo delle Sagnette, e indi ci volgemmo contro il seno meridionale del Monviso formato dalle due costole dirette al sud-ovest ed al sud-est. Ivi ebbimo a camminare alcun poco per nevi interrotte, come già ti dissi, da sporgenze di roccie in posto o di macerie di trasporto e giunsimo ad una piccola collinetta, che aveva i caratteri di una morena. Dietro questa sta un ghiacciaio avente una estensione di qualche chilometro, il quale mi pare essere permanente ed è d’altronde anche raffigurato nella tavola annessa alla relazione di Mathews.

Questo ghiacciaio avea da prima un lieve pendìo, che ci era agevole e piacevole il superare, ma pervenuti appiè di un’alta parete e ripiegatici a destra verso la costola sud-est, trovammo siffatta pendenza, che i nostri piedi non armati di grappe non ci potevano più reggere sulla neve, la cui superficie era affatto indurita e gelata. Forza fu adunque ricorrere all’accetta ed aprire in tal guisa molte centinaia di gradini. Lavoro che ci fece perdere un tempo grandissimo, imperocchè la comitiva non poteva avanzare di un passo se non dopo che la prima guida aveva scavato un nuovo gradino nel ghiaccio. Ed avrai agevolmente idea del fastidio dell’operazione apprendendo, che tra i gradini scavati in questo ghiacciaio e quelli aperti nei lembi di neve, che incontrammo più in su, si giunse a farne poco meno di un migliaio.

Il ghiacciaio in questione aveva nella sua parte superiore una pendenza di oltre 30° e percorrendolo incontrammo frequenti pedate di camosci, sapevamo esserne stato visto un branco nella settimana precedente; dopo la scomparsa dei cinghiali di Virgilio, sono essi gli animali più peregrini del Monviso.

La grande copia di neve caduta in questo anno, e che era tuttora rimasta in quasi tutti i solchi della montagna, ci lasciava presumere, che si dovesse in qualche parte abbandonare l’itinerario di Mathews.

Indi è che, oltrepassato il ghiacciaio e giunti ai piedi di una delle tante pareti di che si forma il seno, in cui eravamo, spedii innanzi la più esperta delle nostre guide, il Gertoux, a riconoscere la via, onde non esporre la comitiva ed avviarsi per qualche cattivo passaggio che non si riescisse a superare.

Il Gertoux, la cui arditezza, fermezza di piede e robustezza di braccio è veramente ammirabile, non era meno di noi animato per riescire nell’impresa, ed appena il lasciai andare, si slanciò sovra quelle orride scogliere collo stesso impeto di un cavallo generoso cui si affaccia una salita. Dopo tre quarti d’ora era di ritorno affermando di aver trovato vie accessibili, che ci avrebbero, se non altro, condotti a grande altezza, ed animosi cominciammo ad arrampicarci per gli scogli. Tra l’opera dei piedi e delle mani, tra l’aiuto che qualche volta si riceveva da chi era avanti e da chi stava dietro, si andava su per balze, che veramente si sarebbero dette inaccessibili e fra cui un uomo difficilmente si avventurerebbe solo.

Si ascendeva talora sopra grossi frammenti sciolti, i quali erano assai pericolosi per la poca loro fermezza. Quindi venivano parecchi lembi di neve così ghiacciata e rigida (il pendìo eccedeva talora 34°) e che terminavano in così fatti precipizi, che per fermo quegli cui fosse mancato un piede si sarebbe trovato a partito disperato. Io volli allora che ci legassimo l’uno all’altro con una corda comune, onde se qualcuno fosse caduto gli altri il potessero sostenere. Ma le guide non avevano mai vista in opera simile precauzione, che del resto in montagne così povere di ghiaccio come queste, rarissime volte occorre, e quindi elevavano obbiezioni. Parimenti a taluno di noi pareva che questo legarci gli uni agli altri non dovesse avere altro effetto, che quello di trarre tutti nel precipizio quando taluno fosse scivolato. Finalmente riuscii a togliere tutte le difficoltà e fu grande fortuna, perchè nello scendere uno di questi ripidissimi lembi di neve, sdrucciolò un piede al sig. Giacinto di S. Robert.

È istinto naturale a chi non è esperto di ghiacciai, l’abbandonare in così fatti casi ogni oggetto, che si abbia in mano, onde cercare di aggrapparsi direttamente al suolo colle mani. Ma siccome neppure le unghie nel ghiaccio non penetrano, vuolsi invece stringere con tutta forza il bastone ferrato senza cui non si debbe mai attraversare un ghiacciaio. Con un po’ di sangue freddo, anche quando si comincia a sdrucciolare, si riesce a ficcare nel ghiaccio la punta del bastone e vi si apre un solco, per cui la velocità del corpo comincia a diminuire e ben presto si riesce a fermarsi.

Ma tornando al Giacinto di S. Robert, non appena il piede gli mancò, che abbandonò il bastone, il quale partì come una freccia giù pel ghiaccio e se non era della corda, con cui era legato al Gertoux, egli era perduto. Nè questo è il primo caso che mi occorra di vedere in tal modo salvata la vita di un uomo. Credo di averti più di una volta narrato come nel salire il Breithorn nel 1854 io fossi sopra una crepatura di un ghiacciaio, la quale non aveva meno di 10 metri di larghezza e qualche centinaio di metri di profondità, come mi ci trovassi solo in piedi e col bastone confitto nel ghiaccio, mentre da me pendevano per mezzo della corda il mio compagno di viaggio ed una guida, cui ci vollero niente meno di tre quarti d’ora per rimettersi in piedi.

Ed in tal guisa ora aggrappandoci a roccie in posto, ora sopra frammenti sciolti, ora sul ghiaccio avanzavamo lentamente ma sicuramente. Di tratto in tratto si sostava per mandare innanzi il Gertoux. Questi da principio, o fosse la novità del mestiere, o fosse la preoccupazione di riescire nella salita, non badava gran fatto alla nostra sicurezza; ma dopo che l’ebbi avvertito finì per moltiplicarsi in guisa da assisterci in ogni cattivo passaggio e da indicarci ad ogni istante una via possibile per cui andare avanti.

Veramente qualche volta fra lui e noi c’era discrepanza; noi volevamo che si stesse alle indicazioni del Mathews e si andasse il più vicino possibile alla costola sud-est: egli per contro voleva portarci nel mezzo del seno, che è fra questa costola e quella delle Forciolline. Nè era facile persuaderlo; chè il Gertoux è vero montanaro, cioè a dire testardo... quasi come un biellese.

Intanto non appena si girava il capo vedevansi le punte delle Alpi marittime abbassarsi di più in più ed allargarsi ad ogni passo l’orizzonte, che era veramente magnifico. Le varie vallate, che confluiscono nella pianura del Po, si andavano distinguendo di meglio in meglio ed i contrafforti, che le dividono, parevano colline di poco momento.

Le stesse creste, che spartiscono il vallone delle Forciolline da quello delle Giargiatte sembravano aver perduto molto dell’orrore, che ammiravamo quando ne eravamo ai piedi. Gli è che infatti l’altezza a cui si era, cominciava ad essere ragguardevole.

A un certo punto ci affacciammo alla costola, che scende al sud-est, onde gettare gli occhi nella valle del Po e della Lenta. Non scorderò di leggieri il tremendo precipizio, che ci si aprì davanti. A molte centinaia di metri si scorgevano i laghi ove questi fiumi hanno origine e parevano quasi a perpendicolo sotto i nostri piedi. Si fece rotolare in basso qualche masso: il masso che scendeva, urtando le pareti, ne staccava altri e giù tutti per l’orribile precipizio con fracasso spaventevole. Ma il gioco non era senza pericolo per noi e poteva riescir fatale a chi si fosse dall’altra parte avventurato a qualche esplorazione: e tosto si smise.

Il tempo era stato bellissimo al sorgere del sole, ma certe nuvole bianche si andavano qua e là formando e cominciava ad ascendere dalla valle verso il monte un venticello in cui si formavano nebbie più o meno fitte, le quali ci andavano avvolgendo. Indi la necessità di procedere con sollecitudine e sopratutto con precauzione. Epperciò giunti a poca distanza da un filo d’acqua, che esciva da un lembo di neve, ci determinammo di spedire il Gertoux fin presso la cima e di dare intanto opera alla colezione, la quale, tra la fatica sostenuta, l’ora tarda e l’aria vivissima, ci parve molto saporita. Una osservazione coll’aneroide mostrò che eravamo verso i 3550 metri sul mare. Eravamo dunque prossimi alla cima!

Ma il Gertoux non tornava: ci diemmo a chiamarlo poichè la nebbia era sì fitta, che a poca distanza nulla si vedeva. La nostra voce era ripetuta sei o sette volte dall’eco, che per quelle balze rimbombava chiarissimo, ma nessuna traccia di risposta. Finalmente ricomparve il Gertoux, che era stato trattenuto da passi difficilissimi e ci annunciò, che si poteva giungere alla cima. Tosto ci alzammo seguendo il Gertoux con più animo che mai e ad un bel punto ecco la cima!

Qual destrier.......

ma che Metastasio fra questi severi orrori! Il fatto sta che mi posi a correre su per la scogliera, che stavamo scalando, con maggiore agilità che se fossi in riposo da una settimana, e ben presto giunsi a calcare la vetta. Qualche istante dopo arrivava il signor Giacinto di S. Robert, e poi man mano tutti gli altri.

In un attimo stanchezza, dubbi, paure, sofferenze, tutto fu scordato. Eravamo finalmente riesciti! La soddisfazione delle buone guide, che ci accompagnavano non era minore della nostra. Siamo venuti da noi, dissero anzitutto, senza bisogno di stranieri. Vedi l’amor proprio nazionale! Ma l’orgoglio nostro fu ben presto rintuzzato da un uomo di pietra (così diconsi nelle Alpi quegli ammucchiamenti piramidali di pietre che soglionsi fare sulle vette), prova materiale che eravamo stati preceduti.

Una nebbia fitta ci avvolgeva, ma colla bussola fummo presto orientati. Noi eravamo sulla punta occidentale del Monviso ed a forse cento metri da noi appariva la punta orientale in buona parte coperta da neve.

Il Mathews era invece giunto prima sulla punta orientale, e sceso quindi nella gola, che la divide dalla occidentale, salì anche su questa ed eresse l’uomo di pietra presso cui noi eravamo. Il Tuckett, che era accompagnato da una delle guide del Mathews, pervenne pure alla cima orientale, ma non tentò la salita della occidentale.

Il Mathews dice nella sua relazione, che lo andare da una cima all’altra fu cosa presto fatta (which was soon done). Il Tuckett asserisce invece che la cresta congiungente le due punte era così pericolosa (the ridge connecting the east-and-west-peak was in such a dangerous condition) che quantunque passasse ivi la notte, non si affidò ad attraversarla. Ci spiegammo facilmente la differenza fra le due versioni supponendo che il Mathews non avesse trovata gran copia di neve al 30 agosto 1861, ed al Tuckett si fosse invece presentata il 4 luglio 1862 soltanto parte della neve, che noi trovammo il 12 agosto 1863.

Era naturale che quella benedetta ostinazione del Gertoux, nel volersi tenere a sinistra piuttosto che a destra, ci portasse sulla punta occidentale, ma ora si trattava di vedere se vi era modo di arrivare alla punta orientale.

M’accostai al Gertoux, e datagli una stretta di mano, che gl’inglesi direbbero sostanziale, gli proposi sottovoce di tentare la punta orientale. Ed egli, accertato che le grappe erano bene affibbiate ai piedi, senza esitare si pose in via col solo bastone ferrato.

La cresta da attraversarsi era veramente formidabile. Immagina due strati di neve ghiacciata, i quali abbiano una pendenza grandissima, e che terminino dalle due parti in precipizi orribili: supponi che questi strati siano congiunti da uno spigolo acutissimo, un vero coltello, il quale sia per giunta grandemente inclinato all’orizzonte, ed avrai idea della costiera, che riuniva le due punte.

Appena le altre guide videro il Gertoux sopra questo periglioso passo gli gridarono di badare, di tornare addietro e simili. Le feci tacere osservando, che non era quello il modo di far coraggio a chi si trovava in pericolo. E veramente il pericolo era grande, imperocchè egli procedeva reggendosi per una parte coll’ascella che posava sullo spigolo sopradescritto e dall’altra colle grappe, che col battere a più riprese, ei cercava di far penetrare nel ghiaccio.

Finalmente il Gertoux giunse alla cima orientale. Gli gridammo di cercare nell’uomo di pietra anche ivi eretto dal Mathews i termometri lasciati dal Tuckett. Ed ei trovò i due termometri; ma siccome temevamo, che nel trasportarli si spostasse l’indice di questi strumenti, che sono a maximum ed a minimum, gli ingiungemmo di lasciarli al loro posto.

Ci avvertì quindi che vi era un tubo contenente un foglio di carta e questo gli fecimo facoltà di portarci.

Si avviò poscia il Gertoux per tornare, ed ebbe un momento a trovarsi a cavallo dell’acuto spigolo, che divideva i due versanti di neve, e scendeva con notevole inclinazione. Egli era quindi con mezzo il corpo in aria e nella quasi impossibilità di adoprare il bastone con frutto. Vi fu un momento in cui lo credetti perduto, ma alla fin fine ci arrivò sano e salvo.

Il tubo recatoci conteneva il foglio delle osservazioni dei termometri lasciati dal Tuckett. Ci limitammo a porre dentro al medesimo una carta di visita coi nostri nomi. Intanto io ardeva dal desiderio di salire anche l’altra cima. Mi volsi a quella delle altre due guide che aveva le grappe ai piedi, e la richiesi di accompagnarmi: io sarei andato fra il Gertoux e lui, tutti e tre legati ad una corda. Mi rispose che neppure per mille lire si sarebbe arrischiato a questo passo.

Non aveva grappe, nè aveva speranza di reggermi sul ghiaccio colle sole scarpe, sebbene le avessi fatte armare di convenienti chiodi. Chiesi al Gertoux quanto tempo voleva per aprirmi coll’accetta una gradinata nel ghiaccio. Mi rispose: non meno di un’ora. Erano oltre le due e mezza, la nebbia più fitta che mai, e noi senza cibi e coperte per passare la notte. Prevedeva che la discesa di tutta la comitiva sarebbe stata assai lunga, nè poteva pensare a togliere ai compagni il principalissimo sussidio del Gertoux. Dovetti quindi far di necessità virtù, e rinunciai per quel giorno alla punta orientale del Monviso.

Il Gertoux vi tornò a riporre il tubo al suo posto, e ciò egli fece seguendo nell’andare la stessa via, e raggiungendoci poi di là per altra strada, ed assai più in basso, mentre scendevamo.

Sulla punta occidentale noi coprimmo di una bandiera bianca e rossa l’uomo di pietra eretto dal Mathews. Lasciammo quindi un termometro a maximum e minimum in un interstizio naturale esistente negli scisti al nord ed a qualche metro dall’uomo di pietra.

I barometri ci diedero i seguenti risultati:

Barometro Ora Altezza del Barometro Temperatura del Barometro Temperatura dell’aria Altezza sopra Verzuolo
mm ° ° m
S. Robert 2 1/2 pom. 727,0 27,75 26,65
Gastaldi id. 483,7 11 6 3430
Sella id. 483,8 10 6 3436

Avremmo adunque trovato mediamente che il Monviso è a 3857 metri sul livello del mare. Le determinazioni di questo importante dato, che sono più recenti ovvero più di frequente citate nelle opere recenti, sono quelle del quadro seguente:

Autore Metodi di determinazione Altezza
Coraboeuf3 Triangolazione 3836 m.
Stato maggiore4 Id. 3840
Mathews5 Barometro 3861
Tuckett6 Id. 3850

Nell’opera Opérations géodésiques et astronomiques pour la mesure d’un arc du parallèle moyen, tomo secondo, pagina 387, si attribuisce al Monviso un’altezza di 3798 metri derivata da un calcolo instituito sopra un solo triangolo osservato da alcuni ufficiali. Ma siccome nell’atlante di questa stessa opera non si tiene conto di questa determinazione, e si attribuisce al Monviso un’altezza di 3832 metri, che è pressapoco quella di Coraboeuf, io credo pure di non prenderla in considerazione. La media delle quattro determinazioni del quadro precedente è di 3847 metri, e se ad esse si riunisca pure la nostra determinazione, si ha una media generale di 3849 metri.

È abbastanza singolare come le altezze determinate col barometro sian tutte più elevate di quelle determinate colla triangolazione, e che la media delle prime sia di 18 metri più elevata che la media delle seconde.

Il Mathews e il Tuckett non osarono affermare quale delle due cime del Monviso fosse la più elevata, tanto piccola è la differenza, se pure esiste. Noi avevamo un livello a specchio, ma con questo null’altro vidi se non che la parte occidentale era alquanto più elevata della porzione della punta orientale, sgombra di neve, ed alquanto più depressa del cacume di neve ivi accumulata. Sicchè la questione rimane tuttora indecisa.

Noi ci eravamo aspettati un panorama unico. Basta pensare che da ogni cresta alpina e da ogni angolo del Piemonte e fin dal duomo di Milano si vede il Monviso per farsi un’idea di ciò che da questo si debbe vedere.

Io poi mi aspettavo sopra tutto di avere una nuova occasione di ammirare i grandi colossi delle Alpi come il Monbianco, il Cervino ed il Monrosa. E infatti tu sai come quel che più importa a vedersi dalla cima di un alto monte non sian tanto lontane città, lontani fiumi che vi si stendono ai piedi come immense carte geografiche. Veramente bella e sublime è invece la vista delle montagne che si elevino ad altezza non minore di quella su cui siete.

Non scorderò mai l’impressione, che provai dalle cime del Monrosa, scorgendo venir su gigante il Monbianco come una massa di grandezza ed altezza inaspettata, la quale torreggiava bianchissima sovra un singolare pianoro formato dai vertici delle altre minori cime delle Alpi.

Ma invece eravamo in una nebbia di fittezza crescente. Essa si squarciò qualche istante per lasciarci vedere la valle del Pellice e Pinerolo, la valle del Gujl, ecc., ma le son miserie da non mentovarsi appetto di quello che ci aspettavamo. Seppimo la sera che nel vallone delle Forciolline piovette per ben due ore, e chi ci aspettava fu in grande inquietudine sul conto nostro.

Forza fu adunque rassegnarci a scendere, ad alle tre ci posimo per via, se non altro lieti di esser riesciti nel nostro intento.

La discesa nulla offrì di rimarchevole, salvo che era un po’ più pericolosa della salita, imperocchè avevamo ora davanti agli occhi i precipizi in cui terminavano quelle difficili chine. Ma tra l’aiuto dei piedi, delle mani, dei bastoni, delle corde e delle guide si giunse a notte fatta, ma perfettamente sani e salvi della persona, alla maita Boarelli.

Non dirò che i nostri abiti fossero in condizione egualmente buona. I miei scarponi, che al mattino erano muniti di buone file di chiodi di montagna li avevano pressocchè tutti perduti. Era un vero oggetto di curiosità la pelle palmare dei nostri guanti, che le acute sporgenze a cui ci aggrappavamo avevan quasi per intiero annichilata. Il Barracco si rallegrava che non vi fossero signore alla maita Boarelli, tanto serie erano le avarie di una parte del suo vestire.

Ma quel che più ci dolse fu che il tuo barometro tornò rotto. E perchè terminasse di acconciarsi per le feste chi lo portava il giorno dopo rotolò con non piccolo suo pericolo per uno di quei lembi di neve che si trovano sotto ai laghi delle Forciolline.

Se cenassimo allegramente e dormissimo profondamente non occorre che dica.

Il giorno dopo, prima di partire, si volle fare qualche osservazione. La temperatura dell’acqua bollente non era che di 91°. Il mio barometro, il quale malgrado che avesse perduto non poco mercurio poteva ancora essere osservato, diede i seguenti risultati:

Barometro Ora Altezza del Barometro Temperatura del Barometro Temperatura dell’aria Altezza sopra Verzuolo
mm ° ° m
S. Robert 6 antim. 728,6 27 21
Sella id. 547,7 6,3 6,2 2372

cosicchè noi i quali ci trovavamo a forse 30 metri sopra il lago superiore delle Forciolline, eravamo a 2796 metri sul mare.

Ci avviammo quindi verso Casteldelfino, ma per non rifare la stessa strada e per riconoscere quel benedetto errore della carta, di cui già ti parlai, ci recammo prima in un valloncello adiacente a quello delle Forciolline, e salito un colle, che ha nome di Bergia delle Sagnette, ci trovammo direttamente sopra la valle, che termina col passo di S. Chiaffredo, valle, cui si dà il nome di Giargiatte.

Dalla Bergia delle Sagnette ebbimo la soddisfazione grandissima di vedere coi nostri cannocchiali ed in modo distintissimo la bandiera da noi lasciata sulla vetta del Monviso.

Questo passaggio è a 2962 metri sul mare, come dall’osservazione seguente:

Barometro Ora Altezza del Barometro Temperatura del Barometro Temperatura dell’aria Altezza sopra Verzuolo
mm ° ° m
S. Robert 8 1/2 ant. 728,65 27,75 21,6
Sella id. 539,6 15,5 11,5 2537

Nulla ti dirò dei laghetti, delle roccie rotondate, delle morene da noi trovate nello scendere questa bella valletta più ampia delle Forciolline, i cui contrafforti presentano nella parte superiore gli stessi fenomeni di fissilità, imperocchè mi tarda di venire a capo di questo insopportabile letterone. Solo noterò, che trovammo qui i larici ed i pini cembri aver comune origine ad una altezza, che da una osservazione coll’aneroide apparrebbe di circa 2390 metri invece dei 2374 metri trovati col barometro a mercurio nella fontana dei Gorghi.

Aggiungerò finalmente, che al Vaccinium Myrtillus (berice) trovammo commisto il Vaccinium uliginosum, i cui frutti sono più dolcigni e meno gustosi del berice.

A Casteldelfino ebbimo le più vive congratulazioni; del resto la voce del nostro tentativo era andata in giro. La tua tenda e quella di S. Robert avevano fatto credere che fossimo Inglesi, come se essi soli avessero da salire le nostre montagne.

E poichè gli Inglesi mi cadono sotto la penna, aggiungo una osservazione ed ho finito.

A Londra si è fatto un Club Alpino, cioè di persone che spendono qualche settimana dell’anno nel salire le Alpi, le nostre Alpi! Ivi si hanno tutti i libri e le memorie desiderabili; ivi strumenti tra di loro paragonati con cui si possono fare sulle nostre cime osservazioni comparabili; ivi si leggono le descrizioni di ogni salita; ivi si conviene per parlare della bellezza incomparabile dei nostri monti e per ragionare sulle osservazioni scientifiche che furono fatte o sono a farsi; ivi chi men sa di botanica, di geologia, di zoologia porta i fiori, le roccie o gl’insetti, che attrassero la sua attenzione e trova chi gliene dice i nomi e le proprietà; ivi si ha insomma potentissimo incentivo non solo al tentare nuove salite, al superare difficoltà non ancora vinte, ma all’osservare quei fatti di cui la scienza ancora difetti.

Già si sono pubblicati tre eleganti volumi sotto il titolo, che più volte mentovai di punte, passaggi e ghiacciai, escursioni dei membri del Club Alpino; ora si è intrapreso un giornale trimestrale. Di quanto giovamento siano queste pubblicazioni ai touristes è troppo agevole l’intendere; e così senza la bella relazione del Mathews non so se noi saremmo riesciti nella salita del Monviso.

Anche a Vienna si è fatto un Alpenverein ed un primo interessantissimo volume è appunto venuto in luce in questi giorni.

Ora non si potrebbe fare alcunchè di simile da noi? Io crederei di sì. Gli abitanti del Nord riconoscono nella razza latina molto gusto per le arti, ma le rimproverano di averne pochissimo per la natura. Veramente chi avesse visto le nostre città pochi anni or sono e considerata ad esempio la guerra spietata che si faceva alle piante, ed il niun conto in cui si tenevano le tante bellezze naturali, che ci attorniano, avrebbe potuto convenirne. Però da alcuni anni v’ha grande progresso. Bastino in prova i giardini di che Torino e Milano cominciano ad ornarsi. Oltre a ciò ogni estate cresce di molto l’affluenza delle persone agiate ai luoghi montuosi e tu vedi i nostri migliori appendicisti, il Bersezio, il Cimino, il Grimaldi intraprendere e descrivere le salite alpestri, e con bellissime parole levare a cielo le bellezze delle Alpi. Ei mi pare che non ci debba voler molto per indurre i nostri giovani, che seppero d’un tratto passare dalle mollezze del lusso alla vita del soldato, a dar di piglio al bastone ferrato ed a procurarsi la maschia soddisfazione di solcare in varie direzioni e sino alle più alte cime queste meravigliose Alpi, che ogni popolo ci invidia. Col crescere di questo gusto crescerà pure l’amore per lo studio delle scienze naturali, e non ci occorrerà più di veder le cose nostre talvolta studiate più dagli stranieri, che non dagli italiani.

Sta sano.




(Da altra lettera del 4 settembre)

...... Il buon esito della nostra gita condusse ben presto nuovi visitatori al Monviso, ed una seconda comitiva d’italiani ne soggiogava la vetta il 26 agosto.

I signori Luigi e Giovanni di Roasenda partirono il 25 agosto da Casteldelfino in compagnia degli stessi Gertoux e Bodoino e si recarono nel vallone delle Forciolline ove pernottarono pure alla maita Boarelli. Il giorno dopo, non esitando più le guide sulla via da tenersi, ed avendo tutti muniti i piedi di grappe, poterono guadagnar tempo e giunsero in meno di cinque ore sulla cima orientale del Monviso.

Nell’uomo di pietra trovarono i termometri lasciativi dal Mathews e dal Tuckett, e da una figura di questi termometri diligentemente fatta dal sig. Luigi di Roasenda, arguisco:

Che la temperatura minima era di -17° nel termometro Mathews e di -15° nel termometro Tuckett;

Che la temperatura massima era di +15° 1/2 nel termometro Tuckett.

Dalla figura del sig. Roasenda apparirebbe però una certa discordanza fra il termometro Mathews e il termometro a maximum del Tuckett, imperocchè al momento dell’osservazione la temperatura del primo sarebbe stata di 0° e quella del secondo di circa +2°.

Il minimum di temperatura indicato da questi termometri non indica però il maggior freddo alla cima del Monviso, allorquando l’uomo di pietra, in cui erano i termometri, si trovava sotto la neve.

Questa nuova salita sul Monviso varrà a porre fuori di dubbio come essa si possa fare e presto e (relativamente parlando) facilmente. La è una gita, che da Torino si compie comodamente in quattro giorni e può quindi raccomandarsi a chiunque voglia farsi un’idea delle incomparabili soddisfazioni che si provano nei viaggi alpini.

Il tuo affezionatissimo
Quintino Sella.



  1. Ac velut ille canuum morsu de montibus altis
    Actum aper, multos Vesulus quem pinifer annos
    Defendit....

    Æneid. X, 707.

  2. La cima del Monviso è al di qua della linea di separazione delle acque, e dista di circa due chilometri dal confine francese.
  3. Notice sur une mesure géometrique de la hauteur au dessus de la mer de quelques sommets des Alpes. Paris 1825.
  4. Carta alla scala di 1:50000.
  5. Peaks, Passes and Glaciers. Vol. 2 Ser. 2. London 1862. Osservazione fatta il 30 agosto 1861, e paragonata colle osservazioni barometriche degli osservatorii di Torino, Ginevra, e Gran S. Bernardo.
  6. A night on the Summit of Monte Viso. — Da quattro osservazioni fatte il 4 e 5 luglio 1862 paragonate con quelle degli osservatorii predetti.

Note

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