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CAPITOLO I.
— Hurràh for miss Ellen!...
— Hurràh for Montcalm!...
— Hurràh for Torpon!...
Queste grida uscivano da diecimila petti se non di più, con un fragore assordante, quasi spaventevole.
Se le acque del lago Ontario avessero rotto gli argini e si fossero rovesciate, con impeto irrefrenabile, attraverso la piccola e graziosa città canadese di Kingston, non avrebbero prodotto maggior fracasso.
Pareva che una subitanea follia si fosse impadronita di quelle diecimila persone composte di americani, di canadesi e d’inglesi, accorsi dal di qua e dal di là del S. Lorenzo, e che si stipavano entro un vastissimo recinto, improvvisato alla meglio con rozzi panconi, ma ben fornito di banchi dove facevano bella mostra infiniti reggimenti di polverose bottiglie.
— È la bionda miss!...
— Sì, sì, è lei, che giunge sul suo automobile di ottanta cavalli!...
— No, sono i due aspiranti alla sua mano.
— Cento dollari che è miss Perkins!... Chi accetta?
— Mille che sono Montcalm e Torpon!...
— Cinquecento che sono dei noiosi policemen che verranno a proibire anche qui la partita di boxe!...
— Se sono ancora essi li prenderemo a pedate.
— No, li getteremo nel S. Lorenzo, colle mani legate dietro il dorso!...
— Avanti i più forti!...
— Morte ai policemen!...
— Stupidi!... È l’automobile di miss Ellen!... Siete diventati ciechi? Ho vinto cinquecento dollari!... Posso andare a prendere un crabmeat cocktail!...
— Hurràh for miss Ellen!... —
Su una immensa strada diritta, fiancheggiata da una doppia fila di pini giganteschi, un punto nerastro che ingrandisce a vista d’occhio, spicca vivamente sul leggiero strato di neve, lasciandosi indietro una nuvola di nevischio.
Non può essere che un automobile lanciato a velocità fantastica, forse a cento chilometri all’ora, se non di più.
I diecimila spettatori, dopo aver urlato come una banda di lupi affamati e dopo aver perduta quasi completamente la voce a forza di hurràh così spaventosi da vincere tutti i cosacchi della Russia e della Siberia, si sbandano a destra ed a sinistra, schiacciandosi contro le cinte e rovesciando, nella loro fulminea ritirata, più d’un banco colle relative bottiglie.
Diamine!... Non vi era da indugiare un solo minuto se si trattava dell’automobile della bellissima Ellen Perkins, la più indiavolata sportman di tutti gli stati dell’Unione Americana e già perfino troppo nota anche nel Canadà dove aveva storpiate, nelle sue pazze corse, una mezza dozzina di persone.
— Largo!... Largo!... — si gridava da tutte le parti.
Quel magnifico viale, tutto bianco, tutto diritto, metteva capo appunto allo spazioso recinto occupato da quella massa di scommettitori furibondi e di sportmen accorsi da tutte le città canadesi e della vicina frontiera americana.
L’automobile, che s’avanzava colla velocità d’un treno diretto americano, non doveva fermarsi che in mezzo alla pista e dato l’impeto non era improbabile che succedessero delle disgrazie.
Intanto l’entusiasmo degli spettatori aumentava con un crescendo inverosimile. Pareva che le gole, eccitate dai bicchieri di wisky, di gin, di grogs brandy, avessero ripresa una forza straordinaria, poichè gli hurràh ormai salivano al cielo.
Il rumoreggiare del vicino S. Lorenzo non si udiva ormai più. Il fiume era stato vinto.
— Hurràh for miss Ellen!... Hurràh!... Hurràh per Montcalm!... Hurràh per Torpon!... —
E tutte quelle voci, quantunque ormai diventate rauche, si confondevano in un frastuono impossibile a descriversi. Nemmeno l’oceano Atlantico, nei suoi cattivi giorni di grande tempesta, avrebbe potuto vincere in un concorso di grande, spaventevole fracasso.
L’automobile ormai era in vista. Era una magnifica macchina tutta scoperta, a dieci posti, dipinta in giallo, montata da sole cinque persone.
Al volante stava una bellissima giovane, dai capelli biondissimi, con riflessi d’oro, occhi azzurri stranamente variegati, dai lineamenti un po’ forse troppo energici per essere una donna, dalla vita sottile come una vespa, che indossava un ampio gabbano di seta cruda adorno di pizzi di gran valore e che guidava con una sicurezza meravigliosa.
Dietro di lei stavano due giovani, seduti ad una certa distanza l’uno dall’altro, fra i venticinque ed i trent’anni, l’uno bruno e baffuto, d’aspetto distinto, e l’altro biondastro, un po’ tozzo e sbarbato come un prete anglicano.
Più indietro ve n’erano altri due, d’aspetto terribile, massicci come bisonti, di statura gigantesca, con certe mani e certe braccia da mettere un senso di terrore anche agli uomini più muscolosi degli Stati Uniti ed anche del Canadà.
L’automobile, guidato dall’intrepida miss con una sicurezza e destrezza meravigliosa, si slanciò con velocità fulminea nella pista, descrisse sempre in volata due giri fra gli applausi clamorosi degli spettatori, poi si arrestò proprio nel centro, quasi di colpo.
Miss Ellen, che doveva possedere dei muscoli proprio americani, aveva frenato a tempo, strappando ai diecimila uomini che si stringevano addosso alla rozza cinta ed ai bars improvvisati, un vero urlo di ammirazione.
— Signor mio, — disse un giovanotto di ventiquattro o venticinque anni, coi baffetti biondi, di forme quasi erculee, ad un grosso americano tutto chiuso in una monumentale pelliccia e con tanto di cilindro in capo, alto quanto la canna d’un camino, che pure urlando non cessava di centellinare un bicchiere di gin cok tail (acquavite fortissima). — Quella splendida creatura maneggia il suo automobile meglio del più famoso chaffeur d’America e d’Europa. —
L’americano, che stava per lanciare il suo centesimo hurràh, si volse verso il giovane e lo guardò quasi con compassione.
Bevette un’altra lunga sorsata del suo gin cok tail, poi gli chiese un po’ ironicamente:
— Ma di dove venite voi?
— Dall’Inghilterra.
— E siete giunto a Quebec od a Montreal?
— Da solo quarant’otto ore.
— By-good!... Allora comprendo la vostra ignoranza, — rispose il grosso americano, lisciandosi la sua barba da becco, più rossa di quella del diavolo zoppo.
— Che cosa volete dire, gentleman? — chiese il giovane inglese, tendendo le sue braccia muscolose con un gesto quasi minaccioso.
— Che voi non sapete chi è quella superba creatura che guida così meravigliosamente quel superbo automobile di ottanta cavalli.
— Affatto, signor mio.
— Vi credo, — disse l’americano, dopo d’aver bevuto un altro lungo sorso.
— Chi è dunque, se non vi rincresce?
— Miss Ellen Perkins.
— Ne so meno di prima.
— Si dice che sia la fanciulla più indiavolata di tutti gli Stati della grande Unione Americana. Ah!... Che demonio!... Amazzone intrepida che sfida e vince perfino i famosi cow-boys del lontano Far-West, canottiera insuperabile, automobilista, spadaccina, lottatrice e che so io?... È la regina dello sport.
— E che cosa viene a fare qui, gentleman, se non vi annoio?
— Tutt’altro, giovanotto. La bella miss, poichè converrete con me che è una fanciulla meravigliosa....
— Ho un buon paio d’occhi anch’io, gentleman. Sarei pronto pei suoi begli occhi, a sfidare nuovamente tutti gli studenti dell’Università di Cambridge alla corsa, al salto, alla corsa con ostacoli, al getto del martello....
— Ah!... Siete uno sportman anche voi, a quanto pare, — disse l’americano, interrompendolo. — Allora capirete meglio le cose.
Dunque dovete sapere che due uomini si disputano la mano di quella bellissima creatura, e sono i due più celebri sportmans dell’America del nord. Se non fossero tali, avrebbero potuto rinunciare subito a qualsiasi speranza di conquistare il cuore di quella indiavolata fanciulla.
— Chi sono? Ma.... scusate, finchè gli altri continuano a sfiatarsi sarebbe meglio che voi accettaste, se non vi spiace, un crabmeat cocktail, tanto più che il vostro bicchiere è vuoto.
— Un yankee non rifiuta mai, giovanotto, — disse l’americano, avviandosi sollecitamente verso il banco più vicino.
L’inglese gettò dinanzi al proprietario del bar improvvisato una sterlina fiammante, non senza mandare un sospiro, gridando per coprire il frastuono che faceva rintronare sempre la vasta pista.
— Due crabmeat.... presto.... non abbiamo tempo da perdere. —
Non aveva ancora terminato di parlare che un garzone negro, dai grandi occhi che sembravano di porcellana, spingeva dinanzi ai due un vassoio con due grossi bicchieri incrostati di ghiaccio e colmi d’un intruglio di vari colori che tramandava dei profumi strani.
Un europeo avrebbe forse esitato a mandar giù quella robaccia, ma che delizia pei palati americani, sempre avidi di bevande e di cibi stravaganti!... Che cosa c’è di meglio d’un crabmeat?
Pensate che per comporlo ci si mette insieme della carne di granchio di mare ben triturata, della salsa di pomodoro, del pepe rosso, del marsala ed infine un mezzo bicchiere di gin-cocktail.
Si capisce come un simile intruglio possa, anzi debba soddisfare la gola d’un yankee!...
Mentre l’americano pescava avidamente nel suo grosso bicchiere gelato per raccattare i frammenti della carne del granchio, non cessava di chiacchierare e d’informare il giovane inglese, il quale invece non faceva troppo onore al crabmeat, pur avendolo ordinato lui, più per curiosità che altro.
— Come vi dicevo, — aveva ripreso il yankee, la cui vociaccia rauca si distingueva abbastanza bene fra gli interminabili hurràh della folla delirante, — due uomini, veramente straordinari, si contendono il cuore di miss Ellen Perkins.
Uno è un nobile canadese, più ricco di nobiltà che di dollari, a quanto si dice, ma discendente di quei famosi Montcalm che hanno difeso strenuamente questo paese contro voi, signori inglesi.
L’altro è un mio compatriotta, il signor Torpon, figlio d’un grande fabbricante d’automobili di Buffalo, padrone di non so quanti milioni.
— Ah!... — fece il giovane inglese, il quale pareva che si interessasse straordinariamente di quelle spiegazioni.
— Il signor di Montcalm gode la fama di essere il più celebre sportman del Canadà, mentre il mio compatriotta lo si crede il più celebre degli Stati dell’Unione.
— E chi ha fatto finora breccia nel cuore di quell’indemoniata fanciulla?
— Nessuno, finora, quantunque si affermi che miss Ellen Perkins in fondo li ami entrambi.
— Che cuore largo!...
— Adagio, giovanotto, — disse l’americano, corrugando la fronte. — Una ragazza del nostro paese non ha che una parola e morrà per mantenerla.
— Che cosa volete dire, gentleman? — chiese l’inglese, un po’ ironicamente.
— Che ha giurato di impalmare il più forte dei due campioni e che non mancherà di farlo.
— E qual’è il più forte?
— Non si sa ancora, perchè pare che un perverso destino perseguiti ostinatamente i due campioni.
Si sono sfidati alla spada e si sono feriti reciprocamente; si sono sfidati a cavallo e sono caduti entrambi nel salto agli ostacoli; hanno fatto una corsa in canotto-automobile e le loro macchine sono scoppiate in alto mare, e non si sa per quale miracolo si sono salvati....
— Ed ora?
— Si sfidano a pugni.
— Dite, gentleman?
— Che noi assisteremo ora ad una magnifica partita alla boxe. Chi vincerà avrà la mano ed il cuore di miss Ellen, poichè lo ha solennemente giurato.
— E sono venuti qui a misurarsi?
— Giovanotto mio, questo affare ha prodotto un gran chiasso al di là del S. Lorenzo e la polizia si è messa di mezzo per impedire che quei due valorosi finiscano per accopparsi del tutto e perciò siamo passati sul territorio canadese.
La boxe è tollerata dagli inglesi.
— Uhm!...
— Non lo credete? Se si accoppano a gran colpi di pugno nel vostro paese.
— Sì, una volta; ora non più. —
L’americano si grattò la testa e fece un moto di stizza.
— Che anche i policemen inglesi si vogliano occupare di questo affare? — disse poi. — Ciò mi dispiacerebbe perchè io ho scommesso cento dollari....
— Sul vostro compatriotta?
— No, sul canadese.
— Eh!...
— Gli affari sono affari, giovanotto, ed io ho più fiducia nel signor di Montcalm che in Will Torpon.
— È strano.
— Che cosa volete? Quantunque il mio compatriotta sia più grosso e più alto del canadese, io sono certissimo che perderà la mano di miss Ellen Perkins.
— Questi due rivali sono ricchi, gentleman?
— Non sono dei Pierpont Morgan, nè dei Carnegie, nè dei Wanderbild, intendiamoci; tuttavia possono permettersi il lusso di gettar via, senza badarci tanto, qualche centinaio di migliaia di dollari.
Il mio compatriotta ha ereditato da suo padre una mezza dozzina di pozzi di petrolio che sembrano inesauribili, poichè gettano sempre; il signor Montcalm invece è uno dei più grossi proprietari di terreni del dominio inglese.
— E la miss?
— Ne ha dei milioni, la terribile fanciulla. Suo padre, che era proprietario d’una linea di navigazione, le ha lasciato un bel gruzzolo che intascherei ben volentieri anch’io.
— Assieme ai begli occhi della miss, è vero?
— In quanto a quello non saprei proprio dirvi un sì. Mi riterrei più fortunato se non ci entrassero nell’affare.
— Sono bellissimi, gentleman. —
L’americano, per non rispondere, inghiottì d’un colpo solo quanto rimaneva nel suo bicchiere, poi trasse da una tasca una tavoletta di tabacco, ne ruppe un pezzo coi suoi denti da lupo, e dopo d’aver masticato per qualche istante, disse:
— Mi pare che i partners (padrini) dei due sportmen si siano già messi d’accordo e che la partita stia per cominciare.
Volete venire, giovanotto? Non perdete una così bella occasione.
— Andiamo, gentleman. —
Stavano per ricacciarsi fra la folla che non aveva cessato un solo istante di dimenarsi furiosamente e di sgolarsi con hurràh, che diventavano ormai sempre più rauchi, quando una voce formidabile rimbombò, coprendo per un istante tutto quel fracasso.
— I policemen!... —
A quell’annuncio un silenzio improvviso era successo a tutto quel pandemonio. Si sarebbe detto che le ugole di quei diecimila spettatori si erano spezzate di colpo.
Fu una cosa che ebbe però la durata di soli pochi secondi.
Urla più formidabili di prima si erano prontamente alzate in tutte le direzioni.
— Dove sono quei furfanti?
— Accoppiamoli!...
— Gettiamoli nel S. Lorenzo!...
— A morte!... A morte la polizia!... —
Un grosso automobile, dipinto in grigio, s’avvicinava rapido alla pista, seguendo la bianca via poco prima percorsa da quello di miss Ellen Perkins.
Sei uomini, armati di mazze, lo montavano e non si poteva aver dubbio, per la divisa che indossavano, sulla loro qualità. Erano dei policemen del Dominio che giungevano probabilmente coll’ordine d’impedire quel combattimento a colpi di pugno, che poteva terminare in modo egualmente tragico per l’uno o l’altro dei due avversari.
L’automobile, lanciato a tutta velocità, passò come un fulmine attraverso il largo squarcio aperto nella palizzata, facendo fuggire precipitosamente gli spettatori, e dopo d’aver descritto un mezzo giro si fermò, con gran fragore, presso quello di miss Ellen.
Proprio in quel momento il signor di Montcalm e mister Torpon si erano messi l’uno di fronte all’altro, nudi fino alla cintola, fiancheggiati dai loro partners, pronti a rompersi le costole od a fracassarsi il viso pei begli occhi, e più pei milioni, della bella americana.
Il brigadiere dei policemen si era alzato e dopo d’aver reclamato, con un gesto energico, un po’ di silenzio, gridò con voce poderosa:
— In nome della legge ed in forza del mandato di cui sono detentore, mi oppongo al combattimento. Obbedite!... —
Un urlo spaventoso accolse quelle parole.
— Morte ai policemen!...
— Al fiume!... Al fiume!...
— Accoppiamoli!... —
Prima cento, poi mille uomini, invasi da un vero furore, si erano scagliati contro l’automobile.
Il brigadiere, che forse si aspettava quel colpo, d’un balzo fu a terra prima che il cerchio si chiudesse, e si gettò disperatamente attraverso la pista, manovrando energicamente la sua mazza, senza badare se rompeva delle teste o fracassava delle costole.
I suoi compagni, sorpresi da quell’improvviso assalto, erano rimasti sull’automobile, certissimi di aver facilmente ragione in nome della legge.
Avevano però fatto male i conti. In un baleno cento mani robuste li afferrarono, li trassero giù stringendoli al collo, alle braccia, alle gambe, e li scaraventarono brutalmente a terra, disarmandoli prontamente delle loro mazze.
I disgraziati, subito ben pesti, avevano appena toccato il suolo che si sentirono gettati in aria, colle divise a brandelli.
La folla voleva la sua parte.
Quei poveri diavoli, intontiti, ammaccati, contusi, quasi spogliati, passavano sulle teste degli spettatori, rimbalzando come palle di gomma. Erano sopratutto i yankees che si mostravano i più feroci.
Forse non si erano mai trovati a tanta festa!...
— Su la legge!... — urlavano.
— In alto!... In alto!... Su, un’altra volata!... Hurràh!... Hurràh!...
— Un’altra volata!... Su, intonate l’yankee Dodle!... —
I cinque policemen, più morti che vivi, balzando e rimbalzando sopra le tube lucide degli spettatori, andarono a rotolare sul banco d’un bar, fracassando bottiglie, vasi, bicchieri e facendo scappare il proprietario ed i suoi garzoni.
Un’idea infernale era sorta in un cervello esaltato.
— Diamo loro da bere!...
— Sì, sì!... Ubbriachiamoli!... — urlarono mille voci.
— Sì, ubbriachiamo la legge!... — risposero altri mille, sghignazzando.
— No, rimpinziamoli di crab-meat cocktail fino a farli scoppiare!...
— No, no!... Diamo loro del gin cocktail!... Farà meglio!
— E del wisky!...
— Bene!... Presto!... —
Sette od otto bookmakers, i più furibondi di tutti, poichè in quell’inaspettato intervento della polizia vedevano compromessi i loro interessi basati esclusivamente sulle scommesse e sulle quotazioni dei due campioni, piombano sui cinque disgraziati, e li inchiodano, per modo di dire, al suolo, tenendoli ben fermi.
Altri prendono delle bottiglie, le poche rimaste intatte, bottiglie del contenuto d’un litro, e le introducono a forza nelle bocche dei policemen.
I poveri diavoli stringono disperatamente i denti e fanno degli sforzi sovrumani per liberarsi dalle mani di ferro che li tengono inchiodati.
Tutto è inutile. Delle dita brutali afferrano e stringono i loro nasi. Non vi è altro da fare: o bere, o morire asfissiati.
— Giù!... Giù!... — urlano gli spettatori che si sospingono furiosamente. — Date da bere alla giustizia!... Ubbriacate la legge!... —
Le bottiglie vengono alzate e cacciate a forza. I policemen bevono, bevono disperatamente, sbuffando, contorcendosi.
I loro occhi si gonfiano e pare che da un momento all’altro debbano schizzare dalle orbite; i loro denti stridono sui colli delle bottiglie, tentando, ma invano, di sgretolare il vetro.
Il wisky ed il gin gross gorgoglia entro le loro gole e scende negli intestini.
Una ubbriachezza fulminante coglie i cinque rappresentanti della legge, i quali finiscono per rimanere immobili come se fossero morti.
— Basta!... — gridano i bookmakers. — Per ventiquattro ore la legge non ci darà fastidio. Gentlemen!... I campioni ci aspettano!... Teniamo le scommesse!... —