< Una sfida al Polo
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Capitolo II - Una partita di “boxe„
I III

CAPITOLO II.


Una partita di “boxe„.


Durante quella baraonda, il campione canadese e quello americano non si erano scostati dall’automobile che si teneva sempre nel centro della pista e sul quale si trovava miss Ellen Perkins, appoggiata graziosamente al volante.

I relativi partners avevano tenuto loro compagnia, conversando tranquillamente cogli allievi e non cessando di fare loro delle raccomandazioni per fare una bella figura dinanzi ad un pubblico così imponente che doveva, alla stretta delle cose, giudicare della superiorità della scuola americana o della inglese.

Vedendo la folla rovesciarsi in massa verso il centro della pista, il signor di Montcalm e Torpon si erano affrettati a denudarsi fino alla cintola, malgrado il freddo ancora intenso che regnava sull’immensa regione canadese.

Era necessario sbrigare la faccenda, poichè il brigadiere dei policemen, quantunque vigorosamente inseguito da una dozzina di buoni corridori, era riuscito a scavalcare la cinta prima di poter essere acciuffato, ed era scomparso in direzione del fiume, per raggiungere forse qualche ufficio telegrafico.

— Signor di Montcalm, — disse Torpon, dopo di essersi ben stiracchiato e di essersi battuto rumorosamente il largo petto. — Volete che cominciamo? Sono curioso di vedere se il destino si stancherà di mantenerci sempre al medesimo livello. By-good!... Qualcuno di noi deve ben essere il più forte e strappare la vittoria.

— Quando vorrete, signor mio, — rispose il canadese, il quale si stava facendo stropicciare i muscoli delle braccia dal suo partner, che era stato anche il suo maestro.

Miss Ellen, aprite gli occhi allora e non perdete un colpo, poichè voi sola sarete giudice competente. —

La giovane abbozzò un sorriso di soddisfazione, staccò le mani dal volante e dopo essersi ravviata, con una mossa brusca, i biondi capelli, s’alzò in piedi.

Miss Ellen, — disse a sua volta il canadese, — voi mantenete sempre il vostro giuramento?

— Più che mai, — rispose la giovane americana. — La mia mano apparterrà al vincitore.

— Grazie, miss. Signor Torpon, vi aspetto. —

I due partners si trassero da parte e levarono dalla tasca il loro cronometro d’oro, per la ripresa dei cinque minuti.

Il canadese e l’americano s’inchinarono dinanzi a miss Ellen e si mossero incontro stringendosi la mano all’americana, vale a dire a rischio di disarticolarsi le braccia, mentre i diecimila spettatori prorompevano in un ultimo e più rimbombante hurràh.

Si erano messi in guardia, coi pugni ben postati all’altezza del viso, fortemente appoggiati sulla gamba destra, in una posizione la quale dimostrava come entrambi dovessero conoscere profondamente la terribile e pericolosissima arte della boxe.

Gli hurràh erano bruscamente cessati. Un profondo silenzio regnava nella pista, rotto solo dal soffio affannoso dell’automobile di miss Ellen Perkins.

Si sarebbe detto che tutte quelle persone non respiravano più. I due campioni si guardarono per alcuni istanti nel bianco degli occhi, poi l’americano fece il primo passo tirando al canadese un formidabile fist-shoke che, se l’avesse colto giusto, gli avrebbe fracassata almeno una costola o mandati alcuni denti a passeggiare nella pista.

L’avversario, quantunque in apparenza sembrasse molto meno robusto, aveva parata la botta con tale velocità e maestrìa da strappare, agli spettatori, un vero urlo d’entusiasmo.

Perfino miss Ellen si era degnata di approvare con un gesto del capo.

By-good! — brontolo l’americano, sconcertato. — Non vi credevo così forte, signor di Montcalm.

Mi tenevo sicuro di spazzarvi via subito, mentre ora mi accorgo d’aver di fronte un boxer di prima forza.

Bah!... Vedremo la fine!... —

Il canadese si limitò a sorridere ed a lanciare uno sguardo rapido verso miss Ellen.

La giovane americana, in piedi dietro al volante, conservava una immobilità assoluta. Solamente i suoi occhi pareva che si fossero accesi.

— Attento, signor di Montcalm, — riprese l’americano, il quale si era rimesso prontamente in guardia. — Vi avverto che io proverò contro di voi un colpo terribile, insegnatomi dal mio maestro, che se riesce vi spaccherà la fronte e vi farà, nel medesimo tempo, schizzare gli occhi dalle orbite.

Lo chiamano il colpo di Tom Powell.

— Chiacchierate meno e agite di più, signor Torpon, — rispose il canadese. — Non sentite dunque quest’aria frizzante?

— Bah!... Noi yankees siamo ben corazzati contro il freddo e anche contro il caldo. Non per niente ci chiamano mezzi uomini e mezzi coccodrilli.

Sfondate le mie scaglie, se ne siete capa.... —

La frase fu bruscamente strozzata da un urlo di dolore. Il pugno del canadese gli era giunto, con velocità fulminea, in mezzo al petto, facendolo risuonare come un grosso tamburo.

— Aho!... — esclamò l’americano, facendo una brutta smorfia ed un salto indietro.

— Si è rotta qualche scaglia del coccodrillo? — chiese ironicamente il canadese.

— Oh no!... Sono ben solide le mie!... —

Un hurràh fragoroso, lanciato dai canadesi e dagl’inglesi che assistevano in buon numero alla lotta, aveva salutato quel primo colpo.

Gli americani avevano risposto con dei grugniti e con delle imprecazioni, poichè avevano puntato molti dollari sul loro compatriotta.

I due partners s’avvicinarono ai due campioni, offrendo loro un bicchiere di gin coktail affinchè si riscaldassero un po’ e potessero meglio resistere al freddo che accennava ad aumentare anzichè diminuire, poi diedero il segnale di rimettersi in guardia.

L’americano, il quale si era già prontamente rimesso dalla formidabile tambussata, fu il primo ad assalire, facendo una serie di finte all’altezza del viso del canadese. Certo cercava di tirargli il famoso colpo di Tom Powell che avrebbe dovuto sfigurarlo per sempre e forse acciecarlo.

Il signor di Montcalm, ripiegato su sè stesso come una tigre che sta per scagliarsi sulla preda, colle narici frementi, gli occhi scintillanti, parava con una velocità ed una precisione da strappare frequenti applausi così da parte degli anglo-canadesi come degli americani.

Tuttavia non riuscì a parare in tempo un fist-soke che lo colpì in mezzo al petto e che lo fece un po’ traballare. Non era però il terribile colpo di pugno che il yankee si era giurato di assestargli, e che avrebbe dovuto spaccargli la fronte alla radice del naso.

Il canadese aveva fatto a sua volta un salto indietro, e dopo essersi passate le mani sul punto colpito, operando un energico massaggio, aveva detto, con voce perfettamente tranquilla:

— Siamo pari, signor Torpon. Io mi aspettavo il famoso colpo di Tom Powell.

— Verrà più tardi, — rispose l’americano.

— Uhm!... Ne dubito!... Ormai ho conosciuto il vostro giuoco.

— Non ancora; miss Ellen giudicherà. —

Un altro hurràh entusiastico aveva salutato quel colpo, mandato però questa volta esclusivamente dagli spettatori americani. I canadesi e gli inglesi erano rimasti impassibili come per dimostrare la piena fiducia che avevano nel loro campione.

I due partners si erano nuovamente avanzati, offrendo ai due lottatori del brandy.

L’americano tracannò d’un fiato il suo, mentre invece il signor di Montcalm lo respingeva, dicendo al partner:

— Noi canadesi non abbiamo paura del freddo e non abbiamo sempre bisogno di scaldarci.

— Vi darà maggior animo, — gli disse sottovoce il maestro di boxe.

— Ne ho da vendere: aspettate un po’ e vedrete che cosa ne farò del mio rivale. È ora di finirla una buona volta.

— Per l’onore della vecchia Francia picchiate sodo e demolitemi per bene quell’insolente yankee. Ricordatevi del colpo segreto che vi ho insegnato e che credo valga meglio di quello di Tom Powell.

— Lasciate fare a me, maestro.

E sopratutto sbrigatevi poichè temo sempre una nuova sorpresa da parte dei policemen.

— Pronti? — aveva chiesto il partner dell’americano.

— Pronti!... — avevano risposto ad una voce i due rivali, rimettendosi prontamente in guardia.

L’americano era diventato prudentissimo, mentre invece il canadese aveva subito cominciato ad eseguire una serie di finte con una velocità così fulminea, che certi momenti gli spettatori non riuscivano più a distinguere i suoi pugni.

Incalzava violentemente, come se fosse impaziente di finirla, costringendo il suo avversario a rompere senza posa ed a balzare indietro.

Il suo maestro, che funzionava da partner, lo incoraggiava collo sguardo.

L’americano, sconcertato, non osava più tentare il suo famoso colpo. Batteva invece sempre in ritirata suscitando, fra i suoi compatriotti, dei mormorii poco benevoli a suo riguardo.

— Fugge! — borbottavano, pensando ai dollari che avevano scommesso. — Che abbia paura? —

Ad un tratto un grido scoppia dietro le ultime file della folla, subito seguìto da cento, da mille altri.

— I policemen!... I dragoni della Regina!... —

Un immenso urlo di furore risponde:

— Ancora loro!... —

Tre automobili, lanciati a tutta velocità, montati ognuno da una dozzina di poliziotti, divorano la bianca via. Dietro di essi galoppano disperatamente due squadroni di dragoni.

Gli elmi luccicano e luccicano pure le sciabole di già sguainate.

La legge la vuole vinta a qualunque costo ed arriva con forze imponenti.

I due campioni si sono fermati. Torpon bestemmia da vero americano; il canadese fa un gesto di furore.

I partners impugnano minacciosamente le bottiglie di brandy, pronti a resistere alla forza.

Delle grida s’incrociano.

— È una bricconata!...

— È una infamia!...

— Non si può più scambiarsi dunque due pugni nè negli Stati dell’Unione, nè nel Canadà?

— Dove è andata a finire la libera America? In fondo all’Atlantico forse?

Gentlemen, alla prepotenza rispondiamo colla prepotenza!...

— Addosso alla legge!...

— Morte ai poliziotti!... Abbasso gli sbirri!...

— Sì, sì, addosso!... —

Una rabbia folle ha invaso, per la seconda volta, i diecimila spettatori. Inglesi, canadesi ed americani si slanciano verso i bars improvvisati ed in un momento li pongono a sacco, malgrado le proteste e le grida disperate dei proprietari.

Una tempesta di bottiglie è pronta a rovesciarsi addosso alla forza che sta per forzare l’entrata della pista.

Miss Ellen era rimasta impassibile, dietro il volante del suo automobile, guardando curiosamente la folla che si apparecchiava a resistere energicamente non solo ai policemen, ma anche contro i dragoni della Regina e ad inzuppare le rosse divise di questi ultimi d’ogni sorta di liquori.

Il canadese si era avvicinato a Torpon, il quale digrignava i suoi denti da orso grigio, sagrando:

— Lo vedete: un’altra volta il destino si è frapposto fra voi e me.

Lo vedo, gentlemen, — rispose l’americano. — Eppure dobbiamo ben finirla.

— Lo desidero anch’io, ma per ora non ci rimane altro da fare che di battercela prima di venire arrestati.

— Lo vedo bene, by-good!...

— Sì, andiamo, — dissero i due partners, — e lasciamo che se la sbrighino i vostri ammiratori. —

Si erano affrettati a raggiungere l’automobile, il quale pareva impaziente di riprendere lo slancio.

— Salite dunque? — chiese miss Ellen. — Ormai non vi è più nulla da fare qui e la forza non tarderà ad aver ragione.

Sarà per un’altra volta.

— Siamo disgraziati, miss, — disse Torpon.

— È proprio vero, mister, ma che cosa volete farci? Cercheremo un altro luogo dove potrete battervi.

— Sì, dovessimo recarci al polo, — disse il signor di Montcalm. — Là almeno non ci troveremo sempre dinanzi questi odiosi policemen.

— Su, salite, gentlemen. Approfittiamo di questo istante di sosta, — disse la giovane americana. — Usciremo dall’altra parte della pista. —

I quattro uomini si arrampicarono sull’automobile, coprendosi frettolosamente coi loro soprabiti bene impellicciati e si misero dietro alla miss impugnando quattro grosse rivoltelle Colt.

— Avanti!... — gridò mister Torpon.

L’automobile ebbe un sussulto, poi si scagliò attraverso la pista verso il lato sgombro, filando colla velocità d’una rondine marina.

Il passo era libero, poichè tutti gli spettatori si erano rovesciati verso l’entrata del recinto che stava per essere forzato dai poliziotti e dai dragoni del 3.° Reggimento della Regina.

In un lampo l’automobile raggiunse l’uscita che si trovava verso l’estremità meridionale e si scagliò, sbuffando e rumoreggiando, sulla strada che conduceva verso il fiume S. Lorenzo, avvolgendosi in un turbinìo di nevischio.

In quel momento dall’altra parte giungevano i tre automobili montati dai poliziotti. I due squadroni li seguivano a cinque o seicento passi, lanciati a corsa sfrenata.

— Ecco la battaglia che comincia, — disse Torpon. — Che peccato non potervi prendere anche noi parte attiva!

I miei compatriotti lavoreranno per bene di pugni.

— Lasciate che se la sbrighino loro, — disse miss Ellen, la quale manovrava il volante con una sicurezza meravigliosa, facendo aumentare sempre più la velocità della sua splendida macchina. — Io non desidero affatto di vedervi arrestare. —

Un urlìo spaventevole coprì le sue ultime parole. I diecimila spettatori avevano impegnata la lotta contro i rappresentanti della legge, con uno slancio ed un coraggio degno d’una causa migliore.

Una bordata di bottiglie aveva accolto gli automobili, inondando le guardie d’ogni sorta di liquori e spaccando qualche testa.

— A morte!... A morte!... — urlava la folla. — Indietro o vi uccidiamo!... —

Qualche colpo di fuoco si era confuso fra il fragore dei vetri che si fracassavano contro le macchine. Gli americani sopratutto non scherzavano.

I policemen, malgrado quella pessima accoglienza, che d’altronde si aspettavano, erano balzati rapidamente a terra impugnando le loro robuste mazze.

Le legnate grandinano sulle prime file della folla e senza veruna misericordia, rompendo teste e costole in buon numero, ma un’altra bordata di bottiglie colpisce in pieno i rappresentanti della legge mandandone a terra un bel numero.

— A noi, dragoni!... — urlano i disgraziati che gocciolano come se fossero stati appena tratti da delle vasche piene di gin, di brandy, di wisky e di coktail.

Un odore acutissimo di alcool si spande dovunque e pare che ubbriachi di colpo la folla, poichè invece di dare indietro si caccia animosamente innanzi, prende d’assalto i tre automobili e li rovescia l’uno accanto all’altro, improvvisando una formidabile barricata tutt’altro che facile ad espugnarsi.

I due squadroni, che hanno udito le grida d’aiuto dei policemen, giungono ventre a terra. I cavalleggieri, rossi di collera, fanno descrivere alle loro sciabole dei molinelli minacciosi, ma sono costretti a rompere bruscamente la furiosa carica dinanzi ai tre automobili che ingombrano l’entrata del turf.

— Piede a terra!... — comandano i due capitani che li guidano.

I soldati non hanno nemmeno il tempo di lasciare le selle che una tempesta di bottiglie li scompagina. Sono le ultime, poichè ormai i bars sono stati completamente vuotati, però la tempesta è tale che i cavalli, spaventati, s’impennano, tirando calci in tutte le direzioni.

Dei dragoni sono sbalzati violentemente al suolo e si rotolano sotto le zampe degli animali, facendosi schiacciare gli elmi.

Ne rimangono ancora però molti in sella e da abili cavalieri tentano, aizzati dai loro ufficiali, di superare la barricata. Che diamine!... Montano dei cavalli di razza e sopratutto di razza inglese.

Ad un tratto però le povere bestie che puzzano di liquori, indietreggiano, poi si sbandano, malgrado i colpi di sperone dei cavalieri.

Delle detonazioni echeggiano e delle fiammate altissime si alzano dinanzi a loro. I serbatoi di benzina degli automobili sono scoppiati e le magnifiche macchine ardono rapidamente.

È un altro colpo della folla inferocita o meglio di un gruppo di audaci americani i quali hanno sfidato valorosamente le mazze dei policemen.

Una barriera di fuoco divide gli assaliti dagli assalitori, barriera che diventa di momento in momento più gigante, poichè dei volonterosi l’alimentano, scaraventandovi in mezzo non più delle bottiglie, ormai esaurite, bensì dei fiasconi pieni di liquori, l’ultima riserva dei bars.

È troppo!... Un’altra volta la legge sta per essere soprafatta da quegli ostinati ed il pericolo è gravissimo poichè policemen, dragoni e cavalli sono inzuppati di gin, di brandy, di wisky e d’altri liquori infiammabilissimi.

I dragoni del 3.° Reggimento della Regina non devono indietreggiare. Non sono dei poliziotti.

Fra i crepitii dell’incendio si odono i comandanti a urlare:

— Armate i moschetti!... —

Quel comando fa l’effetto d’una doccia gelata. I diecimila spettatori lasciano il campo libero alla legge e si scagliano attraverso il turf, scappando, colla velocità di tante lepri, dall’altra uscita.

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