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CAPITOLO III.
Mentre la folla fuggiva, udendo crepitare i primi colpi di moschetto, fossero pure sparati in aria pel momento, l’automobile di miss Ellen Perkins, giungeva felicemente sulla riva di quel fiume gigante che si chiama il S. Lorenzo, il maggiore che solca il Canadà e che è così vasto e così profondo da permettere alle navi di spingersi, senza correre alcun pericolo di arenarsi, fino a Montreal ed anche molto più sopra.
Un gran numero di ferry-boat e di pontoni, noleggiati dagli spettatori americani giunti da Boston, da New-York e da altre città più lontane, stavano ancorati lungo la sponda.
Il signor di Montcalm si era alzato e dopo d’aver accostato le mani alla bocca come per fare porta-voce, aveva gridato con voce stentorea:
— Presto: un pontone!... I policemen del Canadà ci danno la caccia!... —
L’automobile, guidato dalle piccole e bianchissime mani di miss Ellen, dotate però di una forza straordinaria per una fanciulla della sua età, si era arrestato bruscamente dinanzi ad un vasto barcone, coperto da un largo ponte, che ondeggiava lievemente sotto la spinta della fiumana.
— Eccoci a voi, gentlemen!... — avevano gridato i dieci barcaiuoli che lo montavano, afferrando rapidamente i lunghissimi e pesanti remi.
L’automobile, che russava minacciosamente, spiccò quasi un salto e si arrestò sul ponte della barcaccia.
— Passa!... — gridò il signor di Montcalm, mentre due barcaiuoli gettavano dinanzi alle ruote anteriori della macchina una grossa trave, pel timore che riprendesse la corsa e che precipitasse nel fiume che in quel posto era molto rapido e probabilmente molto profondo.
Miss Ellen si era voltata verso il canadese, sorridendogli graziosamente.
— Comandate come un capitano d’un transatlantico, — gli disse. — Spero però che non ci farete naufragare.
— Per oggi no di certo, — rispose il signor di Montcalm, con una sottile punta d’ironia.
— E contate di venire con noi ad Albany?
— No, signora. La mia casa non si trova sul territorio americano, lo sapete bene.
— Volete tornare ad Ottawa?
— Certo, miss. Vi accompagnerò fino ad Oswego, poi attraverserò l’Ontario su qualcuno dei tanti piroscafi che salpano quasi ad ogni ora.
— Mi pare che sarebbe pericoloso per voi tornare ora sul territorio canadese. Non dovreste dimenticare che siete voi una delle cause principali della rivolta contro la polizia.
— O sono stati invece i vostri begli occhi, miss?
— Ah!... Non nego che possano averci avuto una certa parte, ma non si arrestano due occhi, siano essi neri od azzurri.
— Ben detto, miss, — disse mister Torpon, ridendo.
— Dunque, signor di Montcalm volete proprio lasciarci?
— Pel momento sì, miss. Non abbiamo più nulla da fare per ora, è vero, mister Torpon?
— Non so, — rispose l’americano, facendo un gesto vago.
— Che cosa vorreste tentare? Dove riprendere la nostra partita di boxe?
— Dove? Lo so io.
— Potremmo andarci subito? Io sono pronto a lasciar andare ancora dei fist-shoke.
— Ed io non meno di voi, signor di Montcalm, rispose l’yankee, quasi con ferocia, — però questo non è il momento.
Riprenderemo questo discorso quando saremo giunti ad Oswego, se non vi rincresce.
— Benissimo, mister Torpon, — rispose il canadese.
— Vi chiederei solo di fermarvi fino a domani.
— Ad Oswego?
— Sì.
— Accettato. —
Miss Ellen aveva prestato orecchio attento a quello scambio di parole, non nascondendo una certa inquietudine. Anche i partners, ai quali non era sfuggita una sillaba del dialogo, si erano guardati l’un l’altro con un po’ di ansietà.
— Mister Torpon, — disse la giovane americana, mi avete l’aria d’un cospiratore. Voi tramate certamente qualche cosa.
— Non un tradimento, in tutti i casi, — rispose l’americano, con un sorriso un po’ grossolano. — Anche fra i yankees si trovano dei gentiluomini, più gentiluomini di quei grandi europei ed anche dei loro discendenti.
— Ed infatti vi hanno chiamati orsi grigi, — disse il signor di Montcalm.
— Chi? — gridò l’americano, rosso di collera.
— I gentiluomini europei.
— Perchè noi siamo più ricchi di loro e dei loro blasoni malamente dorati.
— Vorreste alludere anche a me? — chiese il canadese.
— Eh!... Anche il blasone dei Montcalm non vale quelle dei re del petrolio, del ferro, dell’acciaio, delle ferrovie e nemmeno quello del re dei porci salati di Chicago.
— Che bei blasoni!... — esclamò il canadese, ironicamente. — Sicchè sul vostro avete fatto dipingere in oro, in campo azzurro, una lucerna accesa. —
Il yankee fece un gesto d’ira e non rispose a quella mordace canzonatura.
D’altronde la barcaccia era già giunta sull’altra riva e l’automobile si preparava a rimettersi in corsa.
I barcaiuoli assicurarono fortemente il galleggiante, tolsero la trave, presero al volo un paio di dollari gettati loro dai due campioni, e l’automobile salì d’un colpo solo la riva, guadagnando la larga e comoda via che costeggiando il lago Ontario conduce ad Oswego, una delle più ridenti cittadine delle estreme frontiere settentrionali degli Stati dell’Unione.
Miss Ellen, che conosceva benissimo i dintorni di tutti i grandi laghi, aveva lanciata la sua macchina alla velocità di ottanta chilometri all’ora, facendola quasi volare dinanzi alle fattorie che sorgevano lungo i margini della larghissima via, una delle più belle e delle migliori del Canadà.
Quantunque vi fosse un buon palmo di neve, le ruote, fornite di robuste pneumatiche, scorrevano velocissime senza slittare.
In capo a pochi minuti, l’automobile, uscito di fra la campagna, si trovò sulle rive del lago.
L’Ontario scintillava superbamente, incastonato fra gigantesche foreste di pini bianchi, enormi vegetali che raggiungono una circonferenza di cinque ed anche sei metri, ed un’altezza di più di trenta, che le scuri dei boscaiuoli, quantunque da qualche secolo poderosamente manovrate, non erano ancora riuscite ad abbattere.
Delle grosse barche da pesca, colle vele variopinte, si cullavano graziosamente fra le onde che un freddo vento del settentrione sollevava, e dei piroscafi lunghi e sottili, filavano rapidamente, lanciando in aria turbini di fumo e fischi interminabili.
Dei grossi falchi pescatori, grandi distruttori di pesci, che attirano, a quanto pare, rigettando delle materie oleose, volavano via, ora alzandosi quasi a perdita d’occhio ed ora lasciandosi cadere, quasi a corpo morto, sulla superficie del lago, per rialzarsi poco dopo con qualche grossa trota stretta fra il robusto becco.
Panorami splendidi si succedevano senza posa, ma gli automobilisti pareva che non se ne interessassero affatto, specialmente la miss, la quale concentrava tutta la sua attenzione sul volante e sulla interminabile via che le si apriva dinanzi, serpeggiando fra immensi filari di alberi della cicuta, piante preziosissime, poichè il loro legno serve alla costruzione delle palizzate costeggianti i laghi ed i fiumi, essendo incorruttibile, anche se immerso da centinaia d’anni.
In quanto ai due campioni avevano ben altro da pensare in quel momento che starsene a contemplare le acque del lago o le navicelle che lo solcavano, e fors’anche i loro partners avevano troppe preoccupazioni.
Le parole pronunciate poco prima da mister Torpon avevano gettato nei loro animi un certo sgomento.
Con un’altra fulminea volata l’automobile girò intorno alle varie e profonde insenature che l’Ontario descrive presso l’imbocco del S. Lorenzo, poi verso le cinque di sera, nel momento che il sole autunnale stava per scomparire dietro le gigantesche foreste, infilò la gran via maestra di Oswego, arrestandosi dinanzi ad un grande albergo di sette piani.
— È qui che volete fermarvi, mister Torpon? — chiese la giovane, arrestando la macchina.
— Sì, miss, — rispose l’americano. — Vi fermate a cenare con noi o proseguirete per Albany?
— Ho fretta di giungere a casa mia, signori miei.
— Gli è che si fermeranno con noi anche i partners.
— E così?
— Volete partire sola, di notte?
— Forse che non ho la mia rivoltella?
— La vostra macchina potrebbe guastarsi lungo la via. Avete fatto male a non condurre con voi il vostro meccanico. —
Miss Ellen alzò le spalle.
— Forse che non vi è la cassetta contenente tutti gli ordigni necessari per fare una riparazione, e forse che io non ho fatto un corso di meccanica? Non inquietatevi per me, mister Torpon e nemmeno voi signor di Montcalm.
Arrivederci presto, signori miei, e quando avrete deciso qualche cosa di nuovo, avvertitemi subito.
Il destino che vi perseguita finirà di stancarsi e l’uno o l’altro avrà la mia mano, purchè sia il più forte.
Buona notte!...
— Buon viaggio, miss, — risposero i quattro uomini.
L’indiavolata ragazza fece colla mano un ultimo gesto d’addio e lanciò nuovamente la sua splendida automobile a corsa sfrenata, facendo scappare i curiosi che si erano affollati sui due margini della via.
Un minuto dopo non era più visibile.
— Io credo che quella fanciulla abbia il sangue del demonio nelle sue vene, — disse mister Torpon. — Che cosa ne dite voi, signor di Montcalm?
— Che è una donna da far paura, — rispose il canadese.
— Ma bella, by-good!...
— Non dico di no.
— Affascinante.
— Se tale non fosse, già da lungo tempo ve l’avrei abbandonata. Disgraziatamente mi ha bruciato il cuore e sento ormai che non potrei rassegnarmi a vivere senza di lei.
— Allora si carica una buona rivoltella e si va a dimenticarla all’altro mondo.
— Il consiglio mi pare buono, però vorrei che prima foste voi a metterlo in esecuzione.
— Ah no, signor mio, — disse l’americano, con vivacità. — Provate prima voi.
— Per ora no, quantunque io abbia la certezza che quella donna non possa far felice nessun uomo.
— Allora si lascia andare.
— No.
— È un puntiglio allora il vostro.
— Non lo so, ma mi pare che questo non sia il luogo per occuparci dei nostri affari, mister Torpon.
— Avete ragione, signor di Montcalm. Io mi ero proposto di offrirvi una cena e di mangiarcela assieme ai nostri partners. Accettate?
— Con tutto il piacere e tanto più che stamane non ho fatto che una leggierissima colazione per mantenermi più agile.
— Per darmene di più, — disse l’americano, ridendo. — Venite, signori. —
Entrarono nell’albergo, passando dinanzi ad una mezza dozzina di camerieri negri, vestiti correttamente di nero e con dei collettoni candidissimi che li tenevano come impiccati, ed entrarono in una magnifica e spaziosissima sala, illuminata sfarzosamente da un centinaio di lampade elettriche, prendendo posto dinanzi ad una tavola isolata, situata verso un angolo.
Essendovi poche persone, potevano parlare a loro agio senza poter essere disturbati, nè uditi.
L’yankee, abituato a fare le cose in grande, ordinò una cena degna d’un milionario come era lui, poi mentre si faceva servire, tanto per aguzzare maggiormente l’appetito, un paio di bottiglie di vino del Reno a cinque dollari l’una e cinque dozzine di gamberi di California a venti cents l’uno, disse:
— Signor di Montcalm, vi ringrazio di aver accettato la mia proposta di seguirmi su territorio americano per definire una buona volta la nostra eterna questione, poichè vi dichiaro francamente che io sono estremamente stanco dei brutti giuochi che ci fa continuamente il destino.
— Ed io non meno di voi, — rispose il canadese.
— Voi non rinuncierete mai al possesso di miss Ellen Perkins?
— Mai, dovessi affrontare mille volte la morte.
— Nemmeno se vi offrissi dei milioni?
— Oh!... Meno che meno. Un Montcalm non si lascia comperare dai dollari.
— Vi stimo doppiamente, parola d’yankee.
— Suvvia, dove volete andare a finire? — chiese il canadese, facendo un gesto d’impazienza.
— Io vorrei farvi un’altra proposta.
— Di ritentare la partita di boxe?
— Avremmo delle altre noie da parte delle autorità e forse nessun risultato decisivo, poichè siamo, credo, della medesima forza anche in questo campo dello sport. Vorrei qualche cosa di più serio.
— Dite pure.
— Un giuoco, per esempio, che finisse col mandare me o voi a fare la conoscenza con Caronte e colla sua barca, ammesso che navighi ancora sulle nere acque dello Stige.
— Vi preme di sopprimermi?
— Potreste essere invece voi il fortunato.
— Continuate, mister Torpon. —
L’americano sgusciò il suo dodicesimo gambero, lo inghiotti d’un colpo versandoci dietro un bicchiere di vino, poi disse con voce grave:
— Accettereste, signor di Montcalm, un duello all’americana? —
Il canadese era rimasto silenzioso, mentre i due partners erano diventati assai pallidi.
L’americano lasciò trascorrere qualche mezzo minuto, poi disse:
— Signor di Montcalm, attendo una vostra risposta. —
Il canadese si scosse.
Vuotò lentamente il bicchiere che gli stava dinanzi, guardando fisso nel fondo, poi rispose:
— Avrei preferito un duello alla spada, alla sciabola od alla pistola, mister Torpon.
— E il destino che ci sta sempre addosso? Sarei sicuro che con quelle armi una partita d’onore non avrebbe buon esito per noi.
Proviamo a batterci nell’oscurità. Si dice che la fortuna sia cieca; chissà che non lo sia anche il destino.
— Lo volete proprio, mister Torpon? — chiese il canadese, con voce tranquilla.
— Sì, signor di Montcalm. Noi siamo giunti ad un tal punto che è meglio che uno di noi scompaia per sempre dalla superficie del globo.
— E dove ci batteremo?
— Qui.
— Quando?
— Questa sera stessa, se non vi rincresce.
— No, perchè penso anch’io che sarebbe meglio saldare al più presto il nostro conto.
Senza testimoni, è vero?
— Ci aspetteranno fuori: non abbiamo i nostri maestri di boxe? Accettate, è vero, signori, di aiutarci? —
I due partners s’inchinarono, facendo un cenno d’assentimento.
— Affitteremo tutto l’appartamento dell’ultimo piano che m’immagino sarà vuoto, — continuo l’yankee, — perchè nessuno venga a disturbare i nostri affari.
— Il proprietario non sospetterà qualche cosa e non avvertirà quei dannati policemen? — osservò il maestro di boxe del canadese.
— Lasciate fare a me, mister, — rispose il yankee. — E poi il dollaro può tutto, almeno negli Stati dell’Unione.
— E le armi? — chiese il signor di Montcalm.
— Oh!... Non sarà difficile trovare due solidi bowie-knife press’a poco uguali.
Gli armaiuoli non mancano ad Oswego e s’incaricheranno i nostri partners di trovarceli.
Sono appena le sei e si chiude un po’ tardi nelle nostre città.
Ora signori ceniamo da buoni amici, allegramente, e non manchiamo di fare un brindisi a quello che domani mattina andrà a portare i nostri saluti a Caronte. —
Quattro negri avevano cominciato a portare, su dei grandi ed artistici vassoi d’argento, delle vivande diverse che esalavano dei profumi da far venire l’acquolina in bocca anche ad un morto, mentre un quinto disponeva sulla tavola, dinanzi a ciascun commensale, delle bottiglie polverose che portavano delle marche celebri.
I quattro uomini, tornati improvvisamente gai, diedero subito un formidabile assalto alle diverse portate, scherzando amabilmente e deridendo i negri. Pareva che avessero già dimenticato che uno di loro stava ingollando il suo ultimo pasto.
Suonavano le sette alla ricca pendola dorata, collocata all’estremità del vasto salone, quando mister Torpon si alzò, dicendo:
— Vado ad accomodare l’affare col proprietario, mentre la bottiglia di champagne gela per brindare al morto.
— Ed io vado a provvedere le armi, — disse il maestro di boxe del canadese.
— Spicciatevi!... — disse l’americano.
Accese un grosso sigaro, essendo la cena ormai terminata, e si fece condurre nel gabinetto del proprietario, il quale stava seduto dinanzi ad una monumentale cassa-forte, tutto immerso nella lettura d’una copia del New-York Herald.
— Mister, — gli disse senza preamboli Torpon, — è libero tutto l’ultimo piano del vostro hôtel?
— Disgraziatamente sì, mio gentleman, — rispose l’albergatore, il quale avendo riconosciuto subito il personaggio che aveva ordinata quella cena luculliana e costosissima, era diventato subito molto amabile. — La stagione è cattiva e gli affari non prosperano al principio dell’inverno e....
— Vorreste affittarlo tutto a me per quarant’otto ore?
— Tutto!... Vi sono trenta stanze ed una sala lassù, mio gentleman.
— Non importa: fissate il prezzo. Io non ho l’abitudine di lesinare. — L’albergatore si lisciò due o tre volte la sua barba da becco e guardo con sorpresa il suo compatriotta.
— Ma.... ditemi, aspettate molti altri amici forse?
— Niente affatto. Non siamo che noi quattro.
— E che cosa vorreste fare di tante stanze?
— Avete mai assistito a nessuna seduta di spiritismo?
— Io no: lascio in pace le anime dei trapassati. Già non verrebbero qui nè a mangiare, nè a bere, nè tanto meno a lasciarmi dei dollari.
— Bene, si vede che siete un uomo pratico e mi congratulo con voi, — disse Torpon, un po’ ironicamente. — Dunque io affitto tutto l’ultimo piano del vostro hôtel per eseguire una serie di esperimenti, avendo condotto con me un medium d’una potenza straordinaria, già ammirato perfino dal nostro presidente.
Siccome gli spiriti non vogliono essere disturbati, voi mi darete la vostra parola d’onore di lasciarci assolutamente tranquilli. Quanto?
— Cinquecento dollari.
— Siete ancora onesto. —
Levò dal suo portafoglio una manata di biglietti di grosso taglio, contò la cifra, riaccese il sigaro e raggiunse il canadese ed il secondo partner, i quali chiacchieravano tranquillamente sottovoce, facendo di quando in quando girare la bottiglia di champagne immersa fino al collo in un vaso pieno di ghiaccio.
— È fatto, disse. — Per quarant’otto ore noi saremo liberi di gettare anche all’aria tutte le trenta stanze.
— E di scannarci con tutto il nostro comodo, — aggiunse il canadese, beffardamente.
In quell’istante il partner che era uscito per acquistare le armi entrò, portando un pacco.
— Marca di casa celebre, lame solide e capaci di troncare, con un colpo solo, la spina dorsale ad un bisonte. — disse.
— Sturiamo, — disse il canadese, traendo dal recipiente gelato la bottiglia di champagne. — Chissà che a qualcuno, questo vino maturato nelle terre che videro nascere i miei avi, non porti fortuna. —
Torpon aveva aggrottata la fronte.
— By-good!... — esclamò. — È vino di Francia, e voi siete un discendente di quel popolo. Che porti sfortuna a me?
— Sareste superstizioso, mister Torpon? — chiese il canadese.
— Eh!... Qualche volta non si può far a meno di esserlo.
— Allora dopo lo champagne berremo un bicchierino di wisky, il liquore americano per eccellenza.
— Accettato, signor di Montcalm. Così saremo pari. —
La bottiglia fu sturata e le tazze furono riempite.
— Ai begli occhi di miss Ellen, prima di tutto, — disse il yankee.
— Alla solidità ed al filo della mia lama, — disse invece il canadese.
— Sareste feroce come un antropofago, signor di Montcalm? — chiese il yankee.
— Può darsi, — rispose asciuttamente il canadese, e vuotò d’un colpo il bicchiere.
Vi erano sulla tavola parecchie bottiglie di liquori. Ne prese una di wisky, la fece sturare e ne versò a tutti, dicendo:
— Bevo al felice viaggio dell’uomo che domani sarà morto.
— Come siete funebre, signor di Montcalm, — disse mister Torpon, il quale si era sentito correre per le ossa un brivido gelato.
— È un brindisi come un altro. —
Si erano alzati. I due rivali sembravano tranquillissimi; i due partners invece, quantunque abituati a vedere degli uomini fracassarsi reciprocamente i corpi e le teste a gran colpi di pugno, erano pallidissimi.
Ad una chiamata del yankee un servo negro che reggeva un doppio candelabro d’argento, era accorso.
— All’ultimo piano, — disse il canadese.
Attraversarono la sala, entrarono nell’ascensore ed in un momento si trovarono in alto.
Il negro accese le lampade elettriche e fece percorrere, ai quattro uomini, tutte le trenta stanze, introducendoli per ultimo in una vasta sala, lunga una quindicina di metri e larga non meno di dieci, il cui pavimento era coperto da un gigantesco tappeto. Non vi era che un solo mobile: un pianoforte.
— Qui? — chiese sottovoce l’americano al canadese.
— Sì, — rispose questi.
— Puoi andartene, — disse il primo al negro. — Sopratutto che nessuno ci disturbi anche se succede un po’ di fracasso.
Gli spiriti qualche volta si divertono a fare un po’ di chiasso. —
Il negro sgranò i suoi grandi occhi di porcellana e scappò via come se avesse il diavolo alle spalle, chiudendo dietro di sè le porte.
— Le armi? — chiese brevemente il canadese quando furono soli.
Il partner che teneva il pacco ruppe le corde e mostrò due magnifici bowie-knife, lunghi un buon piede e larghi due pollici, affilati come rasoi ed assai acuminati.
La luce proiettata dalle lampade elettriche raggruppate in mezzo alla sala, riflettendosi sul lucidissimo acciaio, proiettò negli occhi dei quattro uomini un lampo impressionante, tale da farli rabbrividire.
— Buone armi, — disse il canadese, affettando una certa calma. — Queste sono ottime per la caccia dei caribou: un buon colpo nella spalla e si è sicuri di raggiungere il cuore.
— Ed anche per spaccare la spina dorsale ai nostri giganteschi bisonti del Far-West, — disse mister Torpon, il quale non voleva tenersi indietro.
Fra i quattro uomini regnò un breve silenzio, poi il signor di Montcalm, il quale aveva prontamente riacquistato il suo sangue freddo e tutta la sua audacia, riprese:
— Mister Torpon, lascio a voi la scelta dell’arma. Quale preferite, quantunque mi sembrino perfettamente eguali?
— V’ingannate, signor di Montcalm, — disse il yankee, — perchè sul manico d’uno vedo impresse tre stelle mentre sull’altro non ve ne sono che due e può essere quella protettrice che manca.
— Ah!... Il superstizioso!...
— La sorte, — dissero i due partners.
— Sia, — risposero ad una voce i due rivali.
Il maestro di boxe dell’americano chiuse nel pugno un cent, mise le braccia dietro il dorso facendole girare più volte, poi le tese innanzi ai due rivali dicendo:
— Il pugno pieno per le tre stelle, il vuoto per le due. Il pieno per la porta di destra l’altro per quella di sinistra. —
La sorte fu favorevole al yankee, il quale parve assai lieto d’aver guadagnato una stella di più.
— Gentlemen, — disse allora il partner, con voce grave. — Siete pronti?
— Sì, — risposero all’unisono il yankee ed il canadese.
— Voi non entrerete in questa sala se non dopo trascorsi cinque minuti.
— Benissimo.
— Che Dio vi guardi. Mister Torpon seguitemi nella stanza di destra.
— E voi, signor di Montcalm, seguitemi in quella di sinistra, — disse il maestro di boxe di Montcalm.
I due rivali, con un moto spontaneo si stesero la destra e si diedero una vigorosa stretta, poi seguirono i loro partners senza scambiarsi una parola.
Subito le lampade elettriche furono spente e la vasta sala s’immerse in una oscurità profondissima.