< Una sfida al Polo
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Capitolo IX - La baia di Hudson
VIII X

CAPITOLO IX.


La baia di Hudson.


La notte calava rapidissima essendo le giornate assai corte nell’Alto Canadà verso la fine dell’autunno, e la situazione non accennava a cambiare, anzi minacciava di diventare di momento in momento più grave, poichè la neve cadeva sempre, travolta da un freddissimo vento che soffiava dalle non lontane plaghe della baia d’Hudson.

I lupi, più affamati che mai ed ostinati ad avere per cena un abbondante pasto di carne umana, non si erano mossi, nè avevano rotte le loro file.

Si lasciavano coprire dalla neve e sfidavano filosoficamente il freddo che diventava sempre più intenso, raddoppiando le loro guardie per paura che i tre assediati tentassero di fuggire.

Dopo le terribili lezioni ricevute, non avevano più abbandonati i loro posti, con grande collera del campione di Cambridge, il quale aveva ormai cacciate mezza dozzina di palle nei tronchi dei giganteschi alberi, sbagliando le punte dei musi dei prudentissimi animali.

E la neve intanto cadeva; cadeva senza posa, minacciando di immobilizzare l’intero treno e di seppellire i disgraziati assediati, sempre stesi sulla capote di cuoio dell’automobile.

Ah!... Se avessero potuto raggiungere il carrozzone-salon, se ne sarebbero infischiati di quel blocco. Avrebbero accesa la loro stufa, si sarebbero preparati un buon pranzetto, avrebbero fatte delle buone pipate e quindi una buona dormita sui loro comodi lettucci con delle pesanti coperte indosso.

Disgraziatamente avevano indugiato troppo, credendo di poter respingere facilmente le fameliche bestie con un fuoco d’inferno, ed ora era troppo tardi per tentare la ritirata. Se l’avessero tentata, in un baleno tutti quei lupi, un centinaio per lo meno, si sarebbero scagliati loro addosso ed indubbiamente li avrebbero addentati prima che aprissero la porta del carrozzone.

— Ebbene, signor Gastone, — disse ad un certo momento il giovane studente, scuotendosi di dosso, per la ventesima volta, la neve che lo copriva e gettando via, col calcio del fucile, quella che lo circondava. — Sapreste dirmi come finirà questa avventura?

— Mah!... — si era limitato a rispondere il canadese, il quale, abituato ai freddi intensissimi ed alle copiose nevicate del Canadà, non sembrava preoccuparsi gran che del freddo.

— Noi corriamo il pericolo di gelare vivi, signore. Se questo assedio dovesse durare tutta la notte, noi domani saremo più stecchiti dei merluzzi di Terranuova.

— Guardate che cosa fa Dik.

— Sì, fuma placidamente la sua pipa monumentale e si lascia coprire dalla neve come se fosse un esquimese.

— Si prepara la sua tana da orso bianco, — rispose il canadese.

— Ma quello è un baleniere, signor Gastone.

— Forse che la sua carne è diversa della mia e della vostra?

— Imitatelo, mio caro Walter, e quando anche voi sarete ben coperto, non vi lamenterete troppo del freddo.

Accendete la vostra pipa e lasciate che nevichi.

— Preferirei trovarmi nel carrozzone dinanzi ad una zuppa fumante di fagiuoli.

— Veramente ci starei anch’io, mio bravo amico, ma i lupi non ci vogliono permettere questo lusso.

— Un’idea, signor Gastone!... — esclamò improvvisamente lo studente, picchiandosi la fronte.

— Dite pure.

— Voi avete portato con voi delle cartuccie di dinamite per far saltare, se fosse necessario, i blocchi di ghiaccio che ci impedissero di avanzare.

— Certo: ne ho un bel numero.

— Se le provassimo contro i lupi?

— Farebbero indubbiamente delle vere stragi.

— E perchè non le proviamo?

— Perchè si trovano nel carrozzone. —

Walter si era bruscamente alzato, levandosi dalla cintura un solido bowie-knife, e collo sguardo aveva misurata la distanza che separava la macchina dal carrozzone.

— Un paio di metri!... — esclamò. — Che miseria pel campione di Cambridge. Anche un novellino dell’Università d’Oxford non si guarderebbe indietro.

È vero che c’è il pericolo di scivolare e di cadere fra le bocche di quei cento affamati.

— Che cosa vorreste tentare, Walter? — chiese il canadese.

— Credete che con questa buona lama si possa forzare il tetto della nostra casa ambulante? Non sono troppo grasso, e levando qualche tavola potrei passare.

— Una riparazione facile a farsi, è vero Dik?

— Sì, padrone, — rispose il meccanico, che era ormai quasi interamente sepolto sotto la neve.

— Allora salto, disse lo studente.

— Badate alle cadute.

— A me, Cambridge!... — gridò l’allegro giovanotto. — Proteggi il tuo campione!... —

Le sue lunghissime gambe si tesero ed il corpo intero si sollevò, attraversando facilmente la distanza che separava l’automobile dal carrozzone.

— Ecco un vero saltatore! — esclamò il canadese. — È vero, Dik? —

L’ex-baleniere rispose con una specie di grugnito e non voltò nemmeno la testa. Abituato agli intensi freddi dei mari polari, si trovava benissimo sotto il lenzuolo nevoso, specialmente colla pipa fra le labbra.

Oh, ne aveva passate ben altre delle nottate terribili al nord dello stretto di Behring e sulle coste dell’Alaska!...

Lo studente era caduto quasi nel mezzo del tetto del carrozzone, tenendosi ancora in piedi per un prodigio di equilibrio e provocando, da parte dei lupi sempre vigilanti, degli ululati spaventevoli che non lo avevano però affatto commosso.

Essendo quel tetto ben più alto della capote di cuoio della macchina, poteva ridersi delle minaccie dei cervieri ed anche dei neri, buoni corridori ma pessimi saltatori di fronte ad un campione di Cambridge.

— Dik, — disse il canadese, volgendosi verso il meccanico — Vi sentireste in caso di tentare anche voi il salto?

— Preferisco starmene qui sotto la neve, signore. Non sono mai stato un saltatore io.

— Ed io preferirei trovarmi al coperto. Dopo tutto non mi sembra un gran che fare quella volata, ora che Walter si troverà pronto a sorreggerci.

Là, proviamo.

— Venite anche voi, signore? — chiese lo studente che stava sbarazzando il tetto del carrozzone.

— Vengo ad aiutarvi. Tenetevi pronto ad afferrarmi. —

Misurò collo sguardo per bene la distanza, si raccolse su sè stesso, poi si slanciò cadendo fra le braccia aperte dello studente.

— Signor di Montcalm, — disse l’allegro giovanotto, — voi meritereste di prendere parte alle gare del Queen’s Club.

Io stesso avrei in voi un serio rivale nel salto.

— Io non appartengo nè all’Università di Cambridge, nè a quella di Oxford, — rispose il canadese. — E poi senza il vostro pronto aiuto sarei andato certamente colle gambe in aria ed avrei finito il mio salto fra le mascelle dei lupi.

Orsù, amico, cerchiamo di aprirci una via attraverso al tetto. In due lavoreremo più rapidamente. —

Sbarazzarono il coperto dalla neve, tagliarono coi loro robustissimi coltelli lo strato di zinco, poi quello di feltro, e misero allo scoperto le tavole.

Seguendo colle punte delle armi le connessure, dopo un quarto d’ora di lavoro accanito riuscivano finalmente a levare due tavoloni, ottenendo uno spazio sufficiente per far passare i loro corpi.

— Finalmente!... — esclamò lo studente che pel primo si era calato nel carrozzone, andando a cadere su una cassa. — Ora i signori lupi avranno da fare con noi.

— Accendete una lampada, — disse il canadese, il quale lo aveva subito seguito.

— E poi la stufa, signore. Io non posseggo la pelle di quell’orso di Dik. È vero che lui è stato baleniere. —

Come al solito, chiacchierava assai ma agiva anche molto. Il lume fu acceso, poi subito dopo la stufa, operazione facilissima che non richiedeva nemmeno mezzo minuto, non trattandosi che di dar fuoco all’essenza minerale, quindi fu sturata una bottiglia di vecchio wisky che in quel momento era più necessaria della stufa, poichè i due viaggiatori erano intirizziti dal freddo.

Riscaldatisi con un paio di bicchierini e rimesse a posto le due tavole del tetto per impedire l’ingresso alla neve, che cadeva sempre abbondante, si misero a cercare la cassetta contenente le cartuccie di dinamite, impresa facile poichè tutte le casse erano state prima diligentemente numerate.

— Ecco qui tanta materia esplosiva da far saltare tutti i lupi della terra, — disse il canadese prendendone, con precauzione, cinque o sei. — Walter, aprite una finestra mentre io accendo una miccia.

— Non salteremo anche noi per caso? — chiese lo studente. — Io ho sempre avuto un gran terrore per questi terribili esplosivi.

— La cartuccia è pesante e andrà ben lontana.

— E la neve non spengerà la miccia?

— Non vi è pericolo. —

Il canadese si affacciò alla finestra, tenendo in mano una delle sei cartuccie il cui cordoncino già fumava.

Trenta o quaranta lupi si erano radunati ad una cinquantina di passi dall’automobile, come se si preparassero a tentare un nuovo assalto.

Era il buon momento per somministrare a quegli affamati una tremenda lezione.

— Walter, — disse il canadese. — Gettatevi a terra. —

Poi lanciò a tutta forza la cartuccia attraverso la finestra, facendola cadere in mezzo alla banda urlante.

Un momento dopo una detonazione formidabile si propagava sotto la foresta e così forte che il treno intero fu scosso e spostato.

Walter ed il canadese si erano precipitati verso la finestra, mentre si udiva Dik che imprecava.

Del gruppo dei lupi raccoltisi per ritentare l’attacco non ne esisteva più uno.

Il potente esplosivo li aveva, per modo di dire, polverizzati. Gli altri invece scappavano a tutte gambe, colle code basse, ululando spaventosamente.

— Credo che sia bastato, — disse il canadese.

— Che strage, signor Gastone! — esclamò lo studente.

Poi udendo ancora il meccanico brontolare, gridò:

— Ohè, mastro Dik, vi è caduto addosso qualche lupo?

— Ho perduto la mia coperta di neve che mi teneva così caldo, — rispose l’ex-baleniere. Mi è stata portata via di colpo.

— Posso offrirvene una di buona lana accanto alla stufa, insieme a una mezza bottiglia di wisky vecchio quanto Noè.

Lasciate il vostro covo di orsi bianchi, ora che i lupi si sono congedati. —

Se non vi fosse stata la promessa di un paio di bicchieri di quella fortissima bevanda della quale tutti gli americani fanno un uso smodato, probabilmente l’ex-baleniere, che se ne rideva delle nevi, non si sarebbe mosso, ed avrebbe attesa un’altra coperta candida. Bevitore emerito, come lo sono quasi tutti gli uomini di mare, non seppe resistere alla tentazione e saltò a terra sprofondando nella neve fino alle anche, e raggiunse la porta del carrozzone già aperta.

— Volevate proprio dormire lassù al fresco? — gli chiese Walter, chiudendo subito, affinchè il dolcissimo calore della stufa non sfuggisse. — Io mi trovo meglio qui, non essendo nato esquimese. —

Dik alzò le spalle e si attaccò alla bottiglia.

Il canadese rinchiuse accuratamente la cassetta delle pericolose cartuccie e si mise a preparare la cena, aiutato dallo studente.

Intanto fuori continuava a nevicare ed il vento sibilava o ruggiva attraverso la foresta, torcendo perfino i grossi rami dei pini bianchi e rossi.

I lupi in lontananza ululavano sempre, senza però osare accostarsi al treno.

Ne avevano avuto abbastanza di quella cartuccia, dopo le gravi perdite subìte prima.

— Aspettiamo domani, — disse il canadese, quando ebbero terminato di cenare. — Intanto il freddo rassoderà la neve.

— Purchè i lupi non attacchino le pneumatiche, — disse Walter.

— Sono così robuste da sfidare i loro denti. Orsù, cacciamoci sotto le coperte. —

Tutta la notte il vento soffiò con estrema violenza, facendo tremare perfino le grosse vetrate delle piccole finestre, e la neve non cessò dal turbinare.

All’indomani, quando Dik aprì la porta per recarsi all’automobile, trovò uno strato nevoso alto quanto i predellini delle due vetture, ma così solido da reggere benissimo anche una piccola nave.

Un freddo intensissimo ed improvviso, aveva gelato tutto.

— Si può andare? — chiese il canadese, affacciandosi alla porta.

— Rompiamo lo strato che rinserra le ruote e poi vedrete che bella corsa faremo. Io conto di farvi pranzare sulle rive della baia di Hudson.

— Allora non perdiamo tempo. —

Mandarono giù in fretta un paio di tazze di thè ben bollente, si armarono di vanghe e di picconi ed attaccarono poderosamente lo strato gelato, per fare alla macchina un po’ di largo e prendere lo slancio.

Un’ora dopo il treno già filava magnificamente attraverso la foresta gelata, con una velocità di quaranta chilometri all’ora.

Walter ed il canadese, ben avvolti in pesanti pelliccie, avevano ripreso il loro posto dietro il meccanico, tenendo i fucili fra le gambe, sempre in attesa di fare qualche buon colpo onde variare, con qualche buon pezzo di selvaggina, la minuta del pranzo.

L’automobile si comportava magnificamente anche perchè il terreno su cui s’alzava l’immensa foresta, si manteneva costantemente piano.

La neve, tramutata ormai quasi in un banco di ghiaccio, non cedeva sotto il peso del treno. Era bensì vero che qualche volta succedevano degli slittamenti, ma poi la macchina riprendeva il suo slancio con un teuff-teuff sonoro.

Di quando in quando della piccola selvaggina s’alzava fra i cespugli di rose canine e di bacche, semi-sepolte nella neve, e scappava via con velocità fulminea.

Erano per lo più lupatti, volpi e martore. Di tratto in tratto però qualche schiera di grossi cigni, emigranti verso il sud, passavano fischiando, producendo un rumore strano colle loro ali piuttosto deboli per sorreggere dei corpacci pesanti una trentina ed anche più di libbre.

Verso il mezzodì il treno lasciava finalmente la grande foresta e si slanciava attraverso ad una sconfinata pianura tutta bianca e gelata la quale proiettava, verso le nubi gravide di neve, una luce intensissima, acciecante: era l’ice-blink.

Il canadese stava per dar ordine a Dik di arrestare l’automobile per preparare il pranzo, quando degli ululati si fecero udire verso il margine della foresta che avevano appena lasciata.

— Toh!... — esclamò lo studente. — Ancora i lupi!...

— In caccia, — rispose il canadese, il quale tendeva gli orecchi.

— Di chi?

— Ma!... Forse di qualche caribou o di qualche altro grosso animale. Se si trattasse d’un piccolo capo di selvaggina non urlerebbero tanto.

Dik, fermate!... —

L’automobile slittò per una ventina di metri, poi si arrestò.

Gli ululati dei lupi continuavano verso la foresta. A giudicarlo dalle urla non doveva trattarsi d’un grosso branco.

Il signor di Montcalm, ritto sul sedile, col mauser in mano, osservava attentamente, pronto a far fuoco.

Ad un tratto un grosso animale che rassomigliava ad un grande cervo, assai più alto di quelli comuni, fornito di lunghe corna ramose e colla pelliccia bruno-rossastra, si slanciò fuori dalla foresta, filando velocemente verso la vasta pianura.

Sette od otto grossi lupi grigi gli stavano alle calcagna, stringendolo da presso.

Un colpo di fuoco risuonò.

L’animale fece un gran salto, rizzandosi poscia sulle zampe deretane e scuotendo disperatamente la testa, poi si abbattè.

I lupi, sorpresi da quella detonazione e da quella inaspettata caduta, si erano fermati bruscamente, non osando scagliarsi su quel corpo che si dibatteva ancora fra le ultime convulsioni dell’agonia.

D’altronde il treno aveva ripresa la corsa e si dirigeva verso il margine della foresta.

— A voi ora, Walter, — aveva detto il canadese, la cui arma fumava ancora. — Sbarazzatemi da quei pochi predoni. —

Sei colpi rimbombarono uno dietro l’altro e cinque lupi caddero in mezzo alla neve per non più rialzarsi. Solamente l’ultimo, sfuggito miracolosamente alla sesta fucilata, potè rifugiarsi nella vicina foresta.

— Diavolo d’uomo!... — esclamò il canadese, guardando con ammirazione lo studente. — La Compagnia delle pelliccie della baia d’Hudson avrebbe fatto con voi un buon acquisto.

Voi sparate meglio dei più vecchi trappeurs dell’alto Canadà, mio caro.

— Lo credete? — chiese Walter, ridendo.

— Rimpiango fin d’ora gli orsi bianchi che incontreremo sul nostro cammino.

— Mi pare però, signor di Montcalm, che anche voi non scherziate quando vi appoggiate il fucile alla spalla.

Avete fulminata quella povera bestia con una precisione matematica, come avrebbe detto il mio vecchio maestro di tiro a segno, quell’ottimo John Cardik.

— Ah!... Perchè s’insegna anche a sparare all’Università di Cambridge? Poveri studi!...

— Ma si diventa uomini.

— Eh, lo vedo, — disse il canadese. — Poco pane della scienza ed invece molto sport. —

L’automobile era giunto presso il wapiti. La povera bestia era stata colpita presso l’occhio sinistro e la palla umanitaria — come viene chiamata la pallottola del mauser — gli aveva attraversato il cervello.

— Che cosa ne faremo di tanta carne? — chiese lo studente. — È un cervo splendido. Mai ne ho veduto uno di così grosso.

— Quelli del Canadà superano per statura e peso tutti gli altri, disse il canadese. — Carichiamolo sulla vettura di rimorchio e poi penseremo a farlo a pezzi e gelarlo. I viveri non sono mai troppi per la gente che va al Polo.

— Infatti mi hanno detto che la maggior parte degli esploratori polari sono morti di fame.

— Purtroppo, — rispose il canadese.

Issarono, non senza grandi sforzi, il wapiti sul carrozzone, poi l’automobile riprese la corsa attraverso la sconfinata pianura bianca.

Il freddo era sempre intensissimo, malgrado che il sole, molto pallido a dire il vero, si fosse aperto un varco fra le nuvole sempre gravide di neve.

Sopra l’automobile sfilavano, di quando in quando, lunghissime file di volatili diretti verso il sud, in cerca d’un clima più mite.

Erano corvi di mare, oche selvatiche, anitre e stormi immensi di gru. Doveva fare un bel freddo sulla baia di Hudson.

— Essi scappano e noi invece saliamo verso il nord, — disse lo studente, il quale si era provato a sparare qualche colpo senza buon successo però, data la grande altezza. — Se incontrate quel caro yankee ditegli che siamo già vicini al Polo.

A proposito, che sia già partito o che stia ancora sospirando sotto le finestre di miss Ellen?

— Suppongo che sia già in viaggio, — rispose il canadese.

— Che lo incontriamo in qualche luogo?

— Forse nelle vicinanze del Polo, se entrambi riusciremo a giungervi. Come vi ho detto mi si disse che invece di seguire le coste occidentali della grande baia si sarebbe tenuto verso quelle orientali per raggiungere al più presto la Groenlandia, terra che io invece non conto affatto di toccare.

Noi saliremo direttamente fino alla terra di Grant, passando sempre attraverso le isole.

— Vi spiacerebbe incontrarlo al Polo?

— Preferirei non vederlo, mio caro Walter. Già io non gli presterei nessuna assistenza e lui farebbe certamente altrettanto, anche se ci trovasse morenti di fame.

— Eh, da quei yankee tutto si può attendere.

— Signore, — disse in quel momento lo chaffeur. — Siamo già in vista della baia.

— Così presto!... Sento come il freddo aumenta rapidamente.

Gli ice-bergs fanno sentire la loro influenza. —

Si era alzato e proteggendosi gli occhi con ambe le mani, per vincere i bagliori acciecanti del sole riflettentisi sulla bianca pianura, aveva spinti gli sguardi verso il settentrione.

Una linea azzurro-cupa spiccava vivamente sul luminoso orizzonte, cosparso di grossi punti bianchi.

— È la baia coi suoi quasi eterni ghiacci galleggianti, — disse. — Se qualche accidente non interrompe la nostra corsa, faremo presto a raggiungere il Polo.

Speriamo che i canali delle terre boreali siano tutti gelati e tutto andrà allora bene.

— Una grande bella baia, è vero signor di Montcalm? — chiese Walter.

— Sarebbe anzi stato meglio chiamarla mare di Hudson, poichè è un vero mare.

È vero che il suo scopritore non aveva avuto il tempo di constatarne la vastità.

— Perchè naufragò forse?

— Peggio che peggio, amico. La sua fine fu tragica e forse terribilmente tragica.

Era un gran bravo navigatore quel vostro compatriotta che si era già distinto in altre navigazioni polari nei pressi dello Spitzberg e che era salito in grande fama per le sue osservazioni idrografiche e magnetiche, fra le altre quella sull’inclinazione dell’ago magnetico.

Nel 1610, aiutato da negozianti, armata una nave, salpava per queste regioni, animato dalla speranza di poter trovare il famoso passaggio del nord-ovest, scoperto invece più di due secoli e mezzo dopo da Mac-Clure.

— Che navi avevano allora quegli audaci naviganti?

— Dei miserabili navigli di cento o centocinquanta tonnellate e niente di più.

— Continuate, signor Gastone. Le scoperte polari mi hanno sempre interessato.

— Più fortunato di tanti altri, Hudson raggiunge felicemente l’America, tocca l’estremità nord-ovest del Labrador, scopre il gran fiume che oggidì porta il suo nome, ed avanzando nel canale intravvisto cento dieci anni prima da Cortereal, scopre la grande baia che ci sta dinnanzi.

Ma lì, su quelle acque, sventure inaudite piombano sulla spedizione.

I ghiacci imprigionano la sua nave nella baia di S. Michele, impedendo il ritorno.

La fame non tarda a farsi sentire tremenda, poichè le provviste portate erano state tutt’altro che abbondanti.

Per qualche mese si nutrono di pernici bianche, di oche, di anitre e di cigni, poi, emigrati quei volatili, si vedono costretti a nutrirsi di licheni.

Sul principio del Giugno dell’anno seguente lo sgelo permette finalmente ai naviganti di rimettersi alla vela.

Avevano preso molto pesce durante la primavera, ma ben poco ne era rimasto.

Hudson divide fra l’equipaggio diventatogli ostilissimo mercè le arti infami del segretario Green, che pure aveva ricevuto tanti benefici dallo sfortunato esploratore, e tenta di riguadagnare l’Inghilterra.

I suoi sforzi non sono condivisi dai suoi marinai, e la cospirazione, da lunga mano preparata dal Green, il 21 Giugno scoppia.

Il disgraziato Hudson viene calato in una scialuppa insieme a tutti gli ammalati che si trovavano a bordo, con viveri per qualche giorno, un fucile e poche munizioni, ed abbandonato fra i ghiacci galleggianti.

— Ah!... Canaglie!... — esclamo lo studente. — E che cosa accadde di quei disgraziati?

— Quello che doveva fatalmente accadere: morirono tutti di fame e di freddo, almeno così si suppone, poichè nè di Hudson nè dei compagni che aveva nella scialuppa più mai si ebbero notizie.

— E quel furfante di Green?

— Non godette a lungo il frutto della sua vigliacca azione, che privava la marina inglese d’uno dei suoi più grandi esploratori.

Venuto a questione con una tribù di esquimesi del Labrador, fu massacrato e probabilmente anche mangiato.

La nave, dopo una infinità di disgrazie ed i suoi ultimi marinai, costretti a cibarsi di candele, di pezzi di pelle bollita e di ossa d’animali triturate per formare una specie di pane, giungevano finalmente alla baia di Galway, nell’Irlanda.

— Avrebbero dovuto appiccarli tutti!...

— Mentre pare che così non sia avvenuto, — rispose il canadese. — Ecco la baia: vediamo se possiamo fucilare delle foche o qualche morsa. —



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