< Una sfida al Polo
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Capitolo V - Una sfida grandiosa
IV VI

CAPITOLO V.


Una sfida grandiosa.


Il canadese, forse più robusto dell’americano, o forse ferito meno profondamente, dopo quel sospiro, aveva alzate le braccia, quindi, a poco a poco, aveva aperti gli occhi fissandoli sul suo maestro di boxe, con un misto di stupore e di ansietà.

Il pallore, che poco prima copriva il suo viso, svaniva rapidamente e le sue gote si imporporavano lievemente.

— Non muovetevi, signor di Montcalm, — gli disse Hill. — Finchè non giunge il medico voi dovete rimanere assolutamente immobile, poichè quantunque io me ne intenda un po’ di ferite, non ho studiato come quei signori che escono dall’università.

— Ma che cosa è successo, mister Hill? — chiese il ferito, con voce abbastanza robusta.

— Per centomila caimani!... — esclamò il boxer, un po’ spaventato. Non vi ricordate più dunque del duello all’americana che avete sostenuto con mister Torpon? Avete perduta la memoria, mio caro allievo? —

Il canadese sgranò gli occhi, poi si battè la fronte, mossa che gli fece fare una smorfia, strappatagli dal dolore, poi chiese con voce alterata:

— L’ho ucciso? —

Il maestro di boxe indugiò un momento prima di rispondere.

— Signor di Montcalm, — disse poi, bisogna proprio credere che esista un destino.

— Perchè dite questo, mister Hill?

— Perchè non può essere stato che il destino, quel destino che vi perseguita con un accanimento incomprensibile in tutte le vostre lotte, a guidare le vostre mani ed i vostri coltelli in modo da ferirvi reciprocamente nello stesso punto e probabilmente nelle medesime condizioni di gravità.

— Che cosa dite?

— Che vi siete accoltellati reciprocamente, senza uccidervi.

— Infame destino!...

— Non infuriatevi, signor di Montcalm, — disse il boxer.

— Non dimenticate che siete ferito e che non so dove la punta del coltello del vostro rivale sia giunta.

— Sono ancora vivo.

— Lo vedo, corpo di centomila bombe!... Diavolo!... Ci vorrebbe altro che i miei allievi morissero così presto!

— Dov’è Torpon? — chiese il canadese, coi denti stretti.

— Nella stanza vicina e non è ancora tornato in sè. —

Il signor di Montcalm si passò per la seconda volta una mano sulla fronte, senza fare smorfie questa volta, poi disse con voce un po’ rauca:

— Avesse almeno ucciso me!...

— Ah no, signor mio!... C’è sempre tempo a morire.

— Eppure bisogna finirla e romperla con questo perverso destino che ci perseguita con tanto accanimento.

— Udiamo, signor di Montcalm.... ma ditemi prima se soffrite a parlare.

— Niente affatto. Mi pare di non essere nemmeno ferito, se non mi agito.

— Possedete una fibra meravigliosa.

— Dite dunque mister Hall.

— L’amate proprio alla follia quella indiavolata americana? —

Il canadese lo guardò per qualche istante, poi disse:

— Non so.

— Non ci sarebbe, invece d’una vera passione, un po’ di puntiglio?

— Può darsi.

— Io, se fossi nei vostri panni, me ne andrei a fare un viaggio nel nostro vecchio paese, nella nostra mai dimenticata Francia e abbandonerei gli occhi azzurri ed i capelli biondi a quell’ippopotamo di yankee.

A Parigi troverei facilmente altre donne che mi consolerebbero e che me la farebbero dimenticare ben presto.

— È troppo tardi, — rispose il signor di Montcalm. — Tutti gli sportmen degli Stati dell’Unione e del Canadà tengono gli occhi fissi su di noi, e se io abbandonassi la partita, proprio ora, non ci farei una bella figura, mio caro maestro. Si potrebbe dire che io mi sono ritirato per tema di prendermi un’altra coltellata o di ritentare qualche altra prova.

No, mai!...

— Eppure quell’americana, come moglie, mi farebbe paura. Quella non è una donna, è una diavolessa. —

Il signor di Montcalm stava per dare qualche risposta, quando. si udirono delle porte ad aprirsi e poi si vide entrare mister Patterson seguito da un omiciattolo rotondo come una palla, con due gigantesche basette che gli scendevano fino alle spalle e gli occhi nascosti da un paio d’occhiali montati in oro.

— Ecco il dottore, — disse il maestro americano. — Come va mister Torpon?

— Non è ancora tornato in sè, rispose Hill.

— Occupatevi prima del vostro allievo, — disse il signor di Montcalm. — Come vedete, non sto troppo male e posso attendere il turno.

— E me ne congratulo con voi, signore, — disse Patterson. — Che fibre!... Dottore, passiamo nell’altra stanza. —

L’omiciattolo gettò su una sedia il lucente cilindro ed il soprabito, lanciò sul canadese un rapido sguardo facendo un gesto incomprensibile, e seguì il maestro americano.

— Forse credeva di trovare dei moribondi, — disse mister Hill, ridendo, — mentre ne trova uno che sta chiacchierando tranquillamente.

Non abusate però delle vostre forze e della vostra straordinaria energia, signor di Montcalm. La febbre sopraggiungerà e quella brutta bestia talvolta giuoca dei pessimi tiri.

Cacciatevi sotto e aspettiamo quella boccia di carne vivente. —

— La visita a mister Torpon durò una mezz’ora.

— Tutto bene, — disse Patterson, entrando nella stanza del canadese, seguito dal dottore. — È stato un buon colpo di coltello che per un caso miracoloso non ha prodotto conseguenze troppo gravi.

Fra una settimana mister Torpon sarà in piedi.

— Il destino non ci voleva morti, — rispose il signor di Montcalm. — Speriamo che un giorno finisca di stancarsi. —

Il medico visitò la sua ferita, e non potè far a meno di manifestare il suo stupore nel constatare che era stata prodotta nel medesimo punto dell’altra e con eguale poca gravità.

— È strano, — mormorava, mentre, dopo d’aver dato alcuni punti e di averla disinfettata, la fasciava. — È strano. Due colpi di coltello identici. Ciò succede di rado. Bah!... Fra otto giorni anche voi, signore, sarete perfettamente guarito.

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L’omiciattolo non si era ingannato nelle sue previsioni, poichè otto giorni dopo mister Torpon ed il signor di Montcalm si trovavano seduti, insieme ai due maestri di boxe, i quali non li avevano lasciati, dinanzi alla stessa tavola che aveva servito loro pel terribile brindisi augurante la morte o all’uno od all’altro.

La loro guarigione era stata rapidissima, mercè le cure assidue del bravo dottore e sopratutto mercè la loro robusta fibra.

Le ferite si erano perfettamente cicatrizzate quasi nello stesso tempo ed i due valentuomini pareva, almeno apparentemente, che non si fossero serbati alcun rancore per quei due colpi di coltello che ancora una volta li avevano pareggiati nelle loro sfide.

Una splendida colazione era stata ordinata questa volta dal canadese e tutti vi si erano attaccati con grande appetito, inaffiandola coi migliori vini di Francia e anche d’Italia.

Già avevano sorbito il caffè, quando il canadese, dopo di aver acceso un londres e di essersi rovesciato sulla sedia, disse:

Mister Torpon, che cosa pensate ora di fare? Di continuare la nostra lotta o di rinunciare alla mano di miss Perkins?

Mi pare che le abbiamo provate tutte e sempre senza vantaggio nè per voi, nè per me. —

L’americano che stava assaporando il fumo profumato d’un grosso cuba, guardò il canadese con vivo stupore.

— Che cosa dite mai, signor di Montcalm!... — esclamò. — Io rinunciare agli occhi azzurri ed ai capelli biondi di quella deliziosa miss? Da quando in qua un yankee rinuncia alla lotta? Anche se caduto si rialza subito, se il diavolo non l’ha portato via, e più deciso che mai.

Ah!... Su questo terreno, mio caro signore, non c’intenderemo mai.

Se voi volete rinunciare, siete padronissimo di farlo, ma io rimarrò fermo ed incrollabile come la statua della Libertà che illumina la baia di New-York.

Mi avete capito?

— Perfettamente, mister Torpon, — rispose il canadese.

— Sareste voi deciso allora a ritirarvi?

— Io? Oh!... Rimarrò fermo come la enorme calotta di ghiaccio che si addensa intorno al polo nord.

— Allora noi continueremo a disputarci miss Perkins.

— Certo.

— Suggeritemi ora in quale modo. Come avete veduto, anche i coltelli si rifiutano di dare ad uno di noi una tale supremazia sull’altro da soddisfare la miss.

— Tentiamo una cosa, mister.

— Dite.

— Voi avete fatto venire la vostra automobile?

— Sì, perchè desidero tornarmene a Buffalo.

— Andiamo invece ad Albany a trovare miss Perkins e chiediamo a lei un consiglio.

— Volevo proporvelo anch’io.

— Speriamo che ci dica quale sfida possiamo ormai tentare. Certe volte dai cervelli delle donne escono delle buone idee.

— Specialmente dalle donne sportiste, — disse Hall, ironicamente.

— Ne sanno trovare più delle altre, — rispose Torpon, seriamente. — Signori, non perdiamo altro tempo.

Il mio pilota è stato già avvertito di tenersi pronto. —

Saldarono il conto, un po’ salato, poichè durante quegli otto giorni avevano tenuto sempre a loro disposizione l’appartamento dell’ultimo piano, diedero ai servi negri una generosa mancia ed uscirono.

Dinanzi all’hôtel russava una bellissima automobile tutto dipinta in grigio, della forza di sessanta cavalli, guidata da un giovane meccanico asciutto come un’aringa e dagli ocelli nerissimi e vivaci.

I quattro uomini si accomodarono sui soffici cuscini e la macchina prese lo slancio, filando a grande velocità attraverso le vie di Oswego.

Cinque minuti dopo marciava già attraverso la campagna coperta di uno strato piuttosto alto di neve, dirigendosi verso il sud-est.

Quantunque le strade americane siano generalmente pessime e si prestino ben poco alle lunghe e fulminee volate delle automobili, specialmente quando cominciano i primi geli, cinque ore più tardi l’automobile di mister Torpon entrava nella bella e popolosa Albany, una delle più graziose dell’America del nord, e si arrestava dinanzi ad un villino d’architettura prettamente italiana, semi-circondato da uno spazioso giardino nel cui centro s’apriva una vasta cinta.

Erano appena suonate le due, quindi miss Perkins doveva trovarsi ancora in casa.

Avevano appena condotta l’automobile in un piccolo e grazioso garage che s’alzava a fianco della pista, entro cui sonnecchiavano parecchie macchine, motociclette, velocipedi, scialuppe-automobili ecc., quando la bella miss si presentò, tutta vestita in seta azzurra con pizzi bianchi, un cappellino piumato sui biondi e splendidi capelli ed un frustino in mano.

— Ah!... Miei gentlemen!... — esclamò, tutta ilare. — Sono ben felice di rivedervi perfettamente ristabiliti.

Voi volete commettere delle sciocchezze. Passi una partita di boxe, ma un duello a colpi di bowie-knife non si dovrebbe perdonare.

Mio Dio!... Siete diventati dei cow-boys del Far-West?

— Come!... Voi avete saputo, miss.... — balbettò mister Torpon, che la divorava cogli occhi.

— E come non saperlo? I reporters americani cacciano il naso dappertutto e s’interessano specialmente delle persone che fanno molto chiasso.

Voi minacciate di diventare più popolari ancora del signor Roosevelt!... Mister Torpon!... Il signor di Montcalm!... Ecco due nomi che corrono ormai su tutte le bocche e che si odono ripetersi perfino nei deserti dell’Arizona e del Colorado.

— Ah!... — fece semplicemente il canadese, facendo un lieve inchino.

— Se continuate così, — riprese l’indiavolata ragazza, — finirete per farvi portare alla presidenza nella prossima lotta elettorale.

— Io sono canadese, miss, quindi non potrei mai aspirare ad un tanto onore, — disse il signor di Montcalm, con una sottile punta d’ironia.

— Naturalizzatevi americano. È un buon consiglio che vi do, mio gentleman.

— Ne chiederei un altro da voi, miss.

— A me!...

— A voi, poichè si tratta proprio di voi.

— Per la vostra eterna questione?

— Messa in campo da voi, miss.

— È vero, — rispose la giovane.

Riflettè un momento, poi raccogliendo graziosamente la sua lunga gonna da amazzone, disse:

— Seguitemi nel mio chiosco favorito, signori. Prenderemo un thè insieme. —

Uscì dal garage svelta e leggiera come un uccello e dopo d’aver attraversato parecchie aiuole ormai spoglie di fiori e di foglie, introdusse i due rivali ed i loro partners in un elegantissimo chiosco di stile chinese, tutto in pietra bianca, con vetrate colorate a disegni rappresentanti draghi mostruosi vomitanti fuoco, e lune sorridenti in mezzo ad un cielo d’una tinta indefinibile ed ammobiliato graziosamente.

Una stufa a gaz ardeva in un angolo, spandendo un dolce tiepore che faceva crepitare i numerosi giornali gettati, semi-spiegazzati, su un tavolino laccato, di manifattura celestiale.

Toccò un bottone elettrico, per dare qualche ordine, poi invitò i quattro uomini a sedersi su delle poltroncine di velluto azzurro, dicendo:

— Signor di Montcalm, potete spiegarvi meglio. Quale consiglio desiderate da me?

Miss, — disse il canadese, con voce grave, — siete sempre risoluta a concedere la vostra mano al più forte di noi due?

— Un’americana non ha che una parola, ve l’ho già detto, — rispose la giovane. — Non so se le canadesi siano così.

— Uditemi, miss: noi abbiamo tentato tutte le prove e come avrete constatato, nè io, nè mister Torpon siamo riusciti a riportare una vittoria decisiva. Noi veniamo quindi a chiedere a voi che cosa d’altro possiamo provare, giacchè siete sempre risoluta ad accordare la vostra mano solamente al vincitore di questa singolare tenzone.

— Ma credete, signor di Montcalm, di aver esaurite tutte le sfide?

— Mi pare che non ci rimanga più nulla da tentare.

— V’ingannate. Avete letto l’edizione di ieri del New-York Times?

— Non ne ho avuto il tempo. M’interesso poco dei giornali americani.

— Allora voi non avete udito ancora parlare della grande corsa intorno al mondo in automobile, organizzata dal New-York Times in unione al Matin di Parigi, quello che ha indetta la famosa corsa Pekino-Parigi guadagnata da uno sportmen italiano, il principe Borghese.

— Una corsa intorno al mondo!... — esclamarono ad una voce i quattro uomini.

— Sì, signori miei, un raid gigantesco al quale, si sa fin d’ora, prenderanno parte automobili italiani, francesi, americani e tedeschi. Si fanno già i nomi degli eroi che prenderanno parte alla gara.

Si tratta d’una corsa di trentaseimila chilometri, trentamila dei quali verranno coperti dalle vetture.

— Bisogna essere pazzi per tentare una simile prova! — esclamò mister Torpon.

— E perchè, mio gentlemen? Io ammiro già quegli uomini che si slanciano attraverso il mondo sulla sbuffante macchina, sfidando chissà quali pericoli!... Ah!... Se io fossi un uomo invece di essere una donna, mi farei subito iscrivere.

Miss, — disse il canadese, mentre due servi negri entravano portando un superbo servizio di thè, con chicchere color del cielo dopo la pioggia e adorne di stravaganti caratteri cinesi; — che cosa vorreste dire con ciò?

— Che se io fossi al vostro posto, tenterei anch’io un raid da far stupire e commuovere il mondo intero, — rispose miss Ellen, cogli occhi scintillanti d’entusiasmo.

— Vorreste che ci iscrivessimo anche noi a quella grande corsa? — chiese il canadese.

— Oh!... Io tenterei qualche cosa di meglio.

Ormai quel raid è sfruttato, quantunque abbia ancora da cominciare.

— Che cosa fareste voi allora?

— Io!... Tenterei la conquista del Polo nord coll’automobile, per esempio!...

— Superba idea!... — esclamò mister Torpon, che da buon americano non vedeva alcuna difficoltà anche nelle più pazzesche imprese.

— Un po’ troppo pericolosa forse, — disse invece il canadese.

— E perchè pericolosa, signor di Montcalm? Se i concorrenti della corsa organizzata dal New-York Times e dal Matin si propongono di attraversare la gelida Alaska, che come voi saprete non è altro che un immenso deserto di neve per non chiamarla addirittura un mostruoso ghiacciaio, per poi passare lo stretto di Behring gelato e quindi lanciarsi attraverso la non meno fredda Siberia, vuol dire che un’automobile può sfidare le nevi ed i ghiacci.

Vi pare, signor Torpon?

— Io dico ciò possibilissimo, rispose l’americano, senza esitare.

— Aggiungerò anzi che si dice che se il raid intorno al mondo riuscirà, come si spera, l’anno venturo i due giornali lancieranno una sfida polare attraverso l’Artico.

Sfruttate prima voi quel grandioso progetto e vi coprirete senza dubbio di gloria.

— Se non morremo, — disse il canadese, con un sorriso sardonico.

— Il destino che finora vi ha perseguitati, vi proteggerà, — disse la giovane americana, sempre più entusiasmandosi. — Volete la mia mano? Ebbene, marciate verso il Polo.

L’avrà, ve lo giuro, chi si sarà spinto più innanzi.

Se credete, disputatevela. —

Nel chiosco regnò un silenzio piuttosto lungo. I due rivali si interrogavano collo sguardo, mentre la miss versava il thè.

— Che cosa dite dunque voi, signor di Montcalm? — chiese finalmente Torpon.

— Che se voi tenterete di raggiungere il Polo, io vi contrasterò, con tutte le mie forze, la mano di miss Perkins, — rispose il canadese con voce grave. — Accada quello che si vuole, io tenterò quest’ultima lotta. Tanto peggio per me se i ghiacci inghiottiranno me e la mia automobile, o se gli orsi bianchi faranno colazione colle mie carni.

— Così dovevano parlare i grandi eroi dell’antichità!... — esclamò miss Ellen. — Qua la vostra mano, miei valorosi, e poi lanciatevi alla conquista di quel cardine del mondo che è stato il sogno di tanti audaci navigatori ed anche di tanti sportmen.

Afferrate il volante e.... go ahead!...

— Ecco una donna meravigliosa!... — esclamò mister Torpon. — Nelle vostre vene avete il vero sangue americano, miss.

— Per mandarvi a tentare la pelle e farsi una clamorosa réclame, — borbottò fra sè il maestro di boxe canadese, aggrottando la fronte. — Preferisco le canadesi e quelle del nostro vecchio paese. Almeno sono più equilibrate.

— E così, signori, siete ben decisi? — disse la giovane, dopo che tutti ebbero vuotate le tazze.

— Per mio conto sì, — rispose il yankee. — Questa corsa verso il polo mi ha subito conquistato. O raggiungerò il punto ove s’incrociano tutti i meridiani del globo o morrò nell’impresa, col vostro nome sulle labbra, miss.

— E voi, signor di Montcalm?

— Vi ho detto già miss, che partirò ed al più presto possibile per disputare al signor Torpon la palma della vittoria.

— Ah, la vedremo, mio gentleman!... — gridò il yankee. — Io spero di piantare lassù, fra il regno degli orsi bianchi, la bandiera degli Stati dell’Unione, prima di voi.

— Non siete ancora giunto al Polo, mister.

— Ci andrò, ve l’assicuro.

— Non contate su nessun aiuto da parte mia. Ci considereremo come nemici implacabili.

— Se io v’incontrassi, poichè io non partirò in vostra compagnia, e dovessi trovarvi morente di fame, non pensate che io vi dia una sola crosta dei miei biscotti.

— Meglio così, mister. Almeno ora so che non dovrò calcolare che sulle mie sole forze, ribattè il canadese.

— Nemmeno se vi vedessi fra le fauci d’un orso bianco, consumerò una cartuccia per voi. Ricordatevelo, signor di Montcalm.

— Va bene. —

Il canadese s’inchinò dinanzi alla giovane americana, la quale aveva assistito, impassibile, a quel battibecco, quasi come la cosa non le riguardasse, dicendole:

Miss, ritorno a Montreal per prepararmi al grande viaggio, poichè conto di partire prestissimo per approfittare dei grandi freddi. Se cadrò durante l’impresa, qualche volta pensate a me. —

Ciò detto uscì bruscamente dal chiosco, seguito dal suo partner, il quale masticava delle bestemmie.

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Due giorni dopo su tutti i giornali di Montreal e di Quebec si leggeva, a grossi caratteri, nelle quarte pagine, il seguente annuncio:

«Si cercano due uomini per accompagnare un signore che intende recarsi al Polo in automobile. Uno dovrà essere uno chaffeur già provato in lunghi viaggi».

Rivolgersi al signor Gastone di Montcalm,

Gordon Street, 27
Montreal.


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