< Una sfida al Polo
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Capitolo XI - Il traditore all’opera
X XII

CAPITOLO XI.


Il traditore all’opera.


Gli esquimesi, che gli antichi naviganti norvegesi, che furono i primi a vederli intorno al 1000, chiamarono Skrellinger, ma che si fanno chiamare nella loro lingua invece Innuit, che vuol dire «uomini», quantunque non siano molto numerosi, occupano tutte le coste dell’America settentrionale, le isole polari, la Groenlandia e perfino quelle dello stretto di Behring.

Anzi si trovano delle loro colonie perfino sulle coste asiatiche, verso l’oceano polare artico.

Formano delle piccole tribù, disperse per lo più a grandissime distanze le une dalle altre, eppure tutte parlanti, salvo poche varianti, la medesima lingua.

Da dove proviene questa razza vivente sotto un clima così infame che rende quelle regioni dei ghiacci eterni appena abitabili agli uomini più robusti?

Dapprima si credette di ritrovare in quei piccoli uomini tutti i caratteri della razza mongolica, poi quella degl’indiani dell’America settentrionale, ma fino ad oggi il difficile problema non è stato ancora risolto.

Il fatto sta che hanno degli uni e degli altri, e cosa ancor più straordinaria, hanno anche delle strane rassomiglianze coi baschi, che furono i primi pescatori di balene che si spinsero, in epoche lontane, verso i mari nordici, forse ancora prima dei norvegesi, dei danesi e degli islandesi.

Può darsi che siano usciti dalla fusione di tutte e tre.

La loro statura sorpassa di rado il metro e mezzo, nondimeno taluni individui superano questa misura.

Hanno la faccia larga, appiattita, con mascelle massiccie, zigomi sporgenti, occhi neri, naso stretto e corto, i capelli neri, grossolani e poco folti, e la pelle, sotto lo strato d’olio e di sporcizia, giallo-chiara con sfumature ramigne.

Sono robustissimi ed hanno invece mani e piedi piccolissimi.

Che un tempo la loro razza avesse abitato regioni più miti, non vi ha dubbio, perchè sono stati trovati dei crani esquimesi perfino nei pressi delle cascate del Niagara.

La ferocia delle pelli-rosse, specialmente delle bellicose tribù canadesi, deve averli a poco a poco scacciati verso quelle terre delle notti quasi eterne e dei grandi freddi, e la pare che si siano perfettamente adattati, poichè trasportati in climi più miti ed in paesi civili soffrono al punto di morire di nostalgia.

Tutti sono grandi cacciatori e grandi pescatori e vivono per lo più del mare e dei suoi animali.

Infatti la loro alimentazione si può dire che è affatto animale e divorano che è uno spavento a vederli. Come fare diversamente d’altronde per mantenere il calore organico in quei climi così terribilmente freddi?

Dotati d’un coraggio meraviglioso, osano affrontare i giganteschi orsi bianchi, assalendoli prima a colpi di freccia e poi colle loro lancie dalla punta d’avorio.

Sul mare poi sono veramente straordinari. Coi loro leggerissimi canotti resi insommergibili da vesciche e così ben chiusi che l’acqua non può entrare da nessuna parte, si allontanano dalla costa, per molte centinaia di chilometri talvolta, sfidando le tempeste, i ghiacci, i nebbioni intensi, e non ritornano senza qualche foca, qualche morsa, o alla peggio con qualche lontra, se non con un grosso narvalo.

È la fame, l’eterna fame che li perseguita senza posa e che di quando in quando distrugge delle intere tribù, quella che li ha resi così coraggiosi e così sprezzanti della vita.

Due sorta di abitazioni usano gli esquimesi, secondo che servono per l’estate o per l’inverno.

Durante la breve estate si accontentano di semplici tende; d’inverno invece si costruiscono delle capanne che sono una specie di tumuli molto bassi, a facce tronche, costruiti con zolle e pietre e coperte da un tetto piatto, sorretto da grandi ossa di balena.

L’ingresso, stretto assai, mette in un corridoio a declivio, che poi si rialza e che finisce in un’unica stanza la quale serve spesso d’asilo a parecchie famiglie.

Una lampada, che è una specie di scodella un po’ ovale, di pietra, con un grosso lucignolo immerso nel puzzolente olio di foca, le illumina e le riscalda così bene che spesso gli abitanti della catapecchia si svestono mentre al di fuori il termometro segna 50° sotto zero.

Quelli che si trovano più al nord, usano invece la capanna fabbricata completamente di blocchi di ghiaccio.

Comunque sia, le loro abitazioni sono dei veri porcili, dove dormono alla rinfusa uomini, donne, fanciulli di varie famiglie insieme ai cani, ai pesci in putrefazione, agli avanzi di foca. L’odore che regna dentro quei covi è tale, che un europeo si sente asfissiare: gli esquimesi invece ci si trovano benissimo.

A quante migliaia ammontano quei piccoli uomini dell’estremo nord? È impossibile saperlo poichè si trovano delle tribù sperdute a tale distanza dalle terre note da non poter farsene un’idea. Ne furono scoperte talune perfino al di là dell’80° e può darsi che altre se ne trovino anche nelle vicinanze del Polo.

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L’automobile, urlando come una belva in furore, in pochi istanti aveva sorpassati gli esquimesi che scappavano da tutte le parti mandando urla di terrore, e dopo d’aver girata la collina si era precipitata in mezzo ad una cinquantina di capanne allineate di fronte alla spiaggia, provocando fra gli abitanti uno scompiglio indescrivibile.

Udendo quelle urla e vedendo quel mostro sconosciuto rantolante e sbuffante, i vecchi che erano rimasti a casa, le donne, i fanciulli si erano slanciati fuori dalle catapecchie disperdendosi in tutte le direzioni.

Un uomo solo, che si avvolgeva in una gigantesca pelle d’orso bianco, la cui testa gli serviva da cappuccio nascondendogli quasi interamente il viso, era rimasto coraggiosamente fermo, minacciando l’automobile con una specie d’arpione a doppia punta e con un gruppo di code di lupo che agitava disperatamente colla sinistra.

Era l’angekok, ossia lo stregone della tribù.

— Ecco un personaggio importantissimo che noi dovremo trattare coi guanti, — disse il canadese. — Dik, andate a portare, come primo regalo, a quell’imbroglione, una bottiglia di gin.

Con un paio di sorsate si calmerà. —

Mentre lo chaffeur si recava nel carrozzone, l’angekok, preso da un improvviso delirio danzante, si era messo a girare e rigirare intorno al treno, spiccando salti indiavolati e urlando a squarciagola.

Scagliava maledizioni contro il mostro rantolante, colla speranza di farlo scappare, oppure manifestava in quel modo la sua sorpresa e la sua gioia?

Sarebbe stato difficile saperlo.

Quella danza però ottenne un effetto straordinario, poichè gli abitanti delle capanne, che poco prima se l’erano data a gambe, non tardarono a ritornare insieme ai pescatori di balene ed al capo.

Il contegno eroico dello stregone doveva averli pienamente rassicurati, tanto più che il mostro misterioso non l’aveva affatto divorato, anzi non si era più mosso e continuava a russare tranquillamente dinanzi alle capanne.

Dik frattanto aveva portate due bottiglie invece d’una, e dopo d’averle decapitate con un colpo di coltello per fare più presto, le aveva offerte una al capo e l’altra allo stregone.

I due messeri dovevano aver assaggiato altre volte la fortissima bevanda, poichè a rischio di rovinarsi la lingua se le accostarono alla bocca e cominciarono a vuotarle avidamente con un glou-glou rumoroso.

— Corpo di Giove e di tutti i suoi fulmini!... — esclamò lo studente, il quale era balzato a terra portando con se il mauser ed una Colt a sei colpi. — Che stomachi!... Si ubriacheranno, se continuano ad alzare il gomito a questo mondo!

— Lasciateli fare, — disse il canadese. — Sono imbottiti d’olio ed il gin non avrà facile presa su di loro.

— Stregone e capo gareggiano che è una meraviglia. Giù, giù, ancora.... hanno già finito!... Corpo di Giove!... Si direbbe che hanno bevuto un litro di acqua fresca. —

I due esquimesi, dopo essersi ben assicurati che non era rimasta più una sola goccia, passarono le bottiglie ben asciutte ai loro sudditi, perchè potessero almeno fiutare l’odore, poi s’accostarono, non senza una certa esitanza, all’automobile.

Mio fratello bianco, — disse Karalit, rivolgendosi a Dik, — mi ha grandemente spaventato colla sua brutta bestia. Questa bevuta mi era necessaria.

Dovrebbe farmene fare un’altra per rimettermi completamente.

— Più tardi, — rispose l’ex-baleniere. — Fa intanto gli onori di casa a me ed ai miei amici.

— La colazione deve essere pronta.

— Misericordia!... — esclamò Walter. — Che cosa ci offrirà questa botte d’olio? Accettate, signor Gastone?

— E perchè no? — rispose il canadese, ridendo.

— Che cosa potrà offrirci? Qualcuno dei suoi cani fritto nell’olio di foca?

— Si vedrà, Walter. Faremo però bene a portare con noi delle conserve alimentari e qualche bottiglia di Bordeaux.

— Me ne incarico io. —

Lo studente corse nel carrozzone, empì un canestro di scatole e di biscotti, tirò fuori dalla piccola cantina un paio di bottiglie polverose, richiuse accuratamente la porta colla spranga e colle chiavi, per paura che durante la loro assenza gli esquimesi tentassero un saccheggio in piena regola, e raggiunse il canadese e Dik i quali si erano fermati, insieme al capo ed allo stregone, dinanzi ad una catapecchia un po’ più vasta delle altre, adorna, sulla cima, d’una mezza dozzina di crani di renne e d’alci, infilati in corna di narvali.

Dinanzi all’abituro si stendeva, per una mezza dozzina di metri, una specie di galleria che doveva essere ben bassa, formata con pietre e coperta di torba e d’alghe marine.

— Dov’è la porta? — chiese lo studente, che aveva compiuto il giro dell’abitazione senza vederne alcuna.

— È quel buco che immette nella galleria, — disse il canadese.

— Corpo di Giove!... È vero che gli esquimesi sono poco alti, ma non so come facciano ad entrare.

— Strisciando come i serpenti.

— Dentro quel budello che sembra il tubo d’un pozzo nero?

— Non ci tengono gran che alla pulizia, mio caro.

— È tutta una fetente pozzanghera dove guazzano avanzi di pesci e d’intestini di foca e di morsa.

— Non ci fate caso.

— Povere le nostre vesti!

— Ci cambieremo più tardi. Orsù, coraggio e spingete prima innanzi il canestro.

— Il capo, l’angekok e Dik si erano già cacciati dentro quel budello, aiutandosi colle mani e coi piedi ed inzaccherandosi fino al collo.

Lo studente sternutò una mezza dozzina di volte, poi si fece animo e si mise dietro ai talloni di Dik.

Appena dentro, credette di morire asfissiato, tanta era la puzza che usciva da quel corridoio; sentendosi spinto innanzi dal canadese che lo seguiva, sgattaiolò il più presto che gli fu possibile fra le strette pareti, colla speranza di poter giungere subito in un posto meglio arieggiato, e si trovò in una stanza circolare abbastanza vasta, illuminata da un foro aperto in alto e difeso da un pezzo di vescica di cavallo marino che bene o male serviva da vetro.

La speranza di poter trovare un’aria più respirabile, sfumò subito, poichè la puzza che regnava là dentro era ben più acuta di quella che aveva invasa la galleria.

Quello sopratutto che colpì e che prese alla gola, il povero studente, fu un acre odore d’ammoniaca. La catapecchia ne era addirittura appestata in modo spaventevole.

— Per tutti i fulmini di Giove!... — esclamò, rialzandosi a fatica. — Ohè, Dik, c’è qualche fabbrica d’ammoniaca qui dentro? Come fate voi a resistere?

— Vi abituerete anche voi, — rispose l’ex-baleniere, il quale pareva che non si trovasse troppo a disagio entro quel letamaio.

— E da che cosa proviene.... questo profumo, chiamiamolo pure così, se è quello gradito dalle belle esquimese. —

Lo chaffeur gl’indicò tre o quattro grossi vasi di pietra porosa, che occupavano un angolo della stanza.

— Da quelli, — disse poi. — Sono pieni d’orina.

— E che!... Questi porci la conservano per....

— Per conciare i loro stivaloni di mare.

— Ed anche le nostre pelli a quanto pare, — disse il canadese, sbucando dal corridoio. — Questo è un vero negozio di profumeria.

— Infernale, — aggiunse lo studente, il quale non cessava di sternutare e di fare delle smorfie ridicole.

Si erano guardati intorno.

Tutto il mobilio si riduceva a grossi rotoli di pelli che alla sera dovevano servire certamente da letti, ed a molti vasi dentro i quali gelavano, immersi nell’olio puzzolente degli anfibi marini, pezzi di foca, di morsa e di narvalo.

Tutto il soffitto era coperto di pesci appesi a delle corde fatte di nervetti intrecciati, pesci già corrotti che spandevano un odore più che nauseante, molto gradito però agli esquimesi i quali preferiscono la carne già molto, anzi troppo passata, a quella fresca. Questione di gusti.

— Se non crepiamo asfissiati è un vero miracolo, signor Gastone, — disse lo studente. — Dovevamo portarci qualche bottiglia di eliotropio o di ilang-ilang!... Per tutti i fulmini di Giove!... Che razza di polmoni posseggono dunque questi orsi umani?

— Si sono abituati, — rispose il canadese.

— Ma io non ci riuscirei mai e poi mai.

— Nemmeno io, credo.

— Eppure quel diavolo di Dik pare che non si trovi troppo male qui dentro.

— Era marinaio, mio caro.

— Già, me l’ero scordato. —

Mentre si scambiavano le loro impressioni, il capo e lo stregone non perdevano il loro tempo.

Avevano levate, di sotto un cumulo di pelli di foca, certe scodelle di forma ovale, di pietra ollare malamente scavata, e le avevano deposte nel centro della catapecchia, su una splendida pelliccia d’orso bianco, poi avevano portato quattro o cinque vasi di dimensioni piuttosto enormi, tirando fuori, colle mani, si capisce, poichè l’esquimese ha sempre ignorato l’uso della forchetta, delle teste di foca arrostite prima sulla lampada e poi conservate nell’olio di balena, bocconi degni solamente di essere assaggiati dai grandi personaggi.

Poi da un altro vaso trassero un certo intruglio formato di sangue coagulato e di quei tali licheni chiamati zuppa di roccia, altro boccone scelto, quindi un paio d’oche marine conservate nel grasso di balena dopo essere state arrostite al fuoco della fumosa lampada, che per gli esquimesi serve da stufa e da fornello.

— Dio degli dei!... — esclamò lo studente, cacciandosi le mani nei capelli come un disperato. — Ed io dovrò mandare giù queste porcherie!... Fulmine di tutti i fulmini di Giove, del cielo e della terra!... Io scappo!... —

Se il canadese non fosse stato pronto ad afferrarlo per un lembo della sua villosa casacca, il campione del salto di Cambridge avrebbe certamente dato un saggio dell’agilità e della robustezza dei suoi garretti, filando come un’automobile attraverso la galleria.

— Avete dunque dimenticato che abbiamo portato un canestro contenente qualche cosa di meglio di queste porcherie, tollerabili solo, sono il primo a convenirne, dagli stomachi degli esquimesi?

Vi assicuro che nemmeno io assaggerò questi manicaretti polari, debbano o no offendersene i nostri cari orsi del nord.

— Corpo di Giove!... Mi ero scordata la nostra colazione.

— Mettetela fuori dunque, e vedremo se il capo ed il suo compare faranno più onore alle nostre conserve alimentari o alle loro teste di foca.

— Ma si soffoca qui dentro, signor di Montcalm. Io puzzo già come un pozzo nero.

— Ce ne andremo al più presto, Walter. Credo che anche Dik cominci ad averne abbastanza.

— È vero, signore, — rispose lo chaffeur. — Preferisco respirare della buona aria gelata a 50° sotto.

— Allora spicciamoci. —

Il canestro fu vuotato accanto alla zuppa di roccia ed alle teste di foca ed alle oche e tutti cominciarono un poderoso attacco, sopratutto i due esquimesi.

La zuppa ed i manicaretti polari fecero una gran magra figura, poichè anche il capo e lo stregone preferirono divorare le provviste degli esploratori e lasciare in pace le teste di foca ed anche le oche.

L’olio non fece la sua comparsa poichè le due bottiglie di buon vino lo surrogarono e che furono prestissimo asciugate dai due compari del nord.

— Andiamocene, — disse Walter, gettando in aria il canestro vuoto. — Aria!... Aria!...

— Sì, sì, lasciamo subito questa cloaca, — disse il canadese. — Al diavolo tutte le capanne di questi orsi polari. —

Ne avevano fino sopra i capelli, compreso Dik, il quale aveva finito per trovarsi a disagio là dentro, quantunque avesse soggiornato molte volte presso le tribù esquimesi.

Appena si trovarono all’aperto, la popolazione intera fu loro addosso urlando e gesticolando. Pareva in preda ad un pazzo terrore.

— Che cos’è accaduto? — chiese il canadese. — Sono diventati nuovamente matti questi cari amiconi? —

Una bestemmia era sfuggita a Dik.

— Hanno toccato la macchina e l’automobile si è spostata. Purchè non abbiano guastato il radiatore!... —

Infatti il treno, durante la loro assenza, si era avanzato per oltre centocinquanta metri e s’accaniva a salire una roccia incrostata di ghiaccio assolutamente insuperabile.

Qualche curioso aveva mossa la leva e la macchina si era messa in moto a rischio di frantumarsi contro quell’ostacolo.

Dik in pochi slanci la raggiunse ed arresto il motore, mentre la piccola tribù si disperdeva nuovamente in tutte le direzioni malgrado le grida del capo e dell’angekok.

— Nulla di guasto? — chiese il signor di Montcalm, il quale, insieme allo studente, aveva raggiunto lo chaffeur.

— Qualche cosa deve essersi rotto, — disse Dik, la cui fronte appariva annuvolata.

— Il radiatore forse?

— Ah no, signore. Non sarà cosa grave. Prima di domani la nostra macchina sarà in ordine.

Ne rispondo io.

— Saremo così costretti a fermarci qui questa sera.

— È necessario, signore. Devo visitare il meccanismo.

— Abbiamo commessa una imprudenza ad abbandonare il nostro treno, — disse Walter.

— Sarà l’ultima, rispose il canadese.

— Che il diavolo si porti via quel maledetto orso che ha avuto la pessima idea di mettere in moto la nostra macchina.

— Possediamo tutto l’occorrente per guarire simili ammalati, è vero, Dik?

— Sì, signore. Come vi ho detto, io rispondo di tutto.

— Ecco un buon medico!... — esclamò lo studente.

L’automobile fu fatta indietreggiare fino al villaggio, presso la catapecchia del capo, fra le urla degli abitanti, i quali a poco a poco erano ritornati, senza che gli esploratori potessero comprendere se erano grida ostili o di gioia.

Cominciava a far buio poichè le giornate sono straordinariamente corte d’inverno, sotto quelle alte latitudini, ed un vento freddissimo si era alzato sulla vastissima baia, soffiando con molta violenza e spingendo innanzi a sè nubi di nevischio.

Era il momento di ritirarsi nel comodo carrozzone-salon e di accendere la stufa.

Anche gli abitanti cominciavano a rifugiarsi nelle loro catapecchie, dove già le donne avevano accese le puzzolenti lampade.

Fuori non rimanevano che i cani, scorazzanti in mezzo alla neve, insensibili al freddo ed al vento.

Un bel buco sotto la neve e la loro casa era pronta e preferibile forse al pestifero corridoio delle capanne.

— Signore, — disse Dik al canadese. — Io non soffro affatto al freddo e se non vi rincresce dormirò sulla mia macchina, così sorveglierò anche questi uomini.

Non dobbiamo fidarci poichè, a quanto ho capito, ritengono il nostro treno come un genio malefico destinato a distruggere tutta la selvaggina che è così necessaria per la loro esistenza.

Prima di addormentarmi visiterò il motore e vedrò se vi è realmente qualche guasto.

— Fate come volete, Dik, rispose il canadese. — Per mio conto preferisco addormentarmi presso la stufa.

— E sui nostri comodi lettucci, — aggiunse lo studente.

— Io starò benissimo anche sotto la capote della macchina, — rispose l’ex-baleniere. — Buona notte, signori. —

Si erano già congedati dal capo e dall’angekok, i quali si erano pure ritirati nelle loro capanne.

Il canadese e lo studente, che si sentivano investire furiosamente dalle raffiche nevose, si ritrassero in fretta nel carrozzone, mentre l’ex-baleniere caricava tranquillamente la sua grossa pipa insensibile al freddo ed alle folate, mormorando:

— È questo il momento di mettermi ai servigi di mister Torpon e di mantenere le mie promesse. By-god!...

Diecimila dollari non si gettano via come se fossero sabbia.

Karalit mi aiuterà, corpo di una balena sventrata!... Se gli ho salvata la vita, mi deve della riconoscenza, e se si rifiuterà guai a lui. Dik è stato sempre un bel briccone, lo dicevano tutti i miei camerati ed in fondo non s’ingannavano.

Orsù, all’opera ed areniamoli qui!... —





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