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Capitolo XII - Un’orgia di carne e d’olio
XI XIII

CAPITOLO XII.


Un’orgia di carne e d’olio.


Il briccone si cacciò sotto la capote, si avvolse nella sua pelliccia e dopo d’aver tracannati alcuni lunghi sorsi di wisky, avendo sempre una bottiglia di riserva accanto allo scudo protettore, accese la sua monumentale pipa mettendosi placidamente a fumare.

Che cosa aspettava? Certo che le tenebre fossero più fitte e che il canadese e lo studente si fossero addormentati.

Aveva già fatto il suo piano e non attendeva che il buon momento per metterlo in esecuzione. Karalit non si sarebbe certamente rifiutato di prestargli man forte colla promessa di qualche buon regalo, d’un fucile per esempio, arme ambita soprattutto da quel popolo di cacciatori.

Il vento continuava a soffiare forte sulla baia di Hudson, avventando contro la costa delle grosse ondate, le quali rumoreggiavano sinistramente.

Di quando in quando, fra gli ululati della gelida tramontana ed i muggiti della risacca, si udivano dei rombi spaventevoli, seguìti poco dopo da tonfi d’una sonorità estrema.

Erano gli ice-bergs, ossia le montagne di ghiaccio galleggianti che si urtavano e che si capovolgevano sotto la formidabile spinta.

Per due volte Dik caricò e fumò la sua pipa, poi si decise finalmente a muoversi.

Si cacciò nella cintura una Colt, non essendo improbabile che dei lupi si aggirassero intorno al villaggio per fare la festa a qualche cane esquimese, poi si accostò con precauzione al carrozzone-salon guardando attraverso un finestrino.

Buio perfetto. I due esploratori dormivano già, invitati dal dolce tiepore che si sprigionava dalla piccola stufa e dai ruggiti delle raffiche.

— Benissimo, — mormorò l’ex-baleniere. — Speriamo che Karalit non li abbia imitati!... —

Tornò indietro e si cacciò dentro la galleria che metteva nella capanna del capo, giungendo ben presto nella stanza circolare.

Karalit non si era affatto coricato. Stava preparando una pelle di morsa, battendola con un sasso mentre sua moglie, una donna ancora giovane e abbastanza belloccia per essere una esquimese, seduta sotto la lampada masticava coi suoi robusti denti gli stivaloni da caccia del marito per renderli più morbidi.

— Mio fratello bianco qui!... — esclamò il capo, interrompendo subito la sua nauseante operazione. — Che cosa vuole a quest’ora?

— Invitarti a bere con me una bottiglia, prima di tutto, di quell’acqua forte che brucia e che scalda e che a te piace tanto, — rispose l’ex-baleniere.

— L’hai portata con te? — chiese l’esquimese, i cui occhi si erano subito accesi d’ardente bramosìa.

— Eccola: è quasi piena.

— Mio fratello bianco è un vero amico, — disse Karalit, allungando le mani per afferrarla.

— Adagio, mio caro: te la berrai discorrendo con me.

— Che cosa vuoi?

— Ricordarti un’altra volta, innanzi tutto, che io ti ho salvata la vita.

— Non l’ho mai dimenticato, — rispose Karalit.

— E che io non ho avuto da te mai nessuna ricompensa.

— Allora ero un povero pescatore, padrone d’un kaiak sdruscito e d’una sola fiocina.

— Ma oggi sei capo tribù.

— È vero: domanda quindi quello che vuoi. Delle foche? Delle morse? Dei cani? Delle slitte?

— Niente affatto, poichè noi abbiamo abbondanza di viveri ed una macchina creata dal genio del male, che sfida tutti i tuoi cani.

— Ed allora? — chiese l’esquimese, imbarazzato. — Le mie fiocine ed il mio arco?

— Nemmeno, perchè anzi ho intenzione di regalarti un buon fucile da caccia, che ho già sottratto nascostamente al mio padrone. —

I piccoli occhi dell’esquimese tornarono ad illuminarsi. Un fucile a lui!... Gl’indiani canadesi che sono i nemici secolari di quei piccoli uomini del nord e che li trucidano ferocemente ritenendoli spiriti maligni, avrebbero ben dovuto guardarsi d’ora innanzi.

— Che cosa vuole da me dunque mio fratello bianco? — chiese, con voce quasi tremante.

— Una cosa semplicissima.

— Parla.

— Impedire ai miei compagni di partire.

— Perchè? — chiese Karalit, con stupore.

Dik, invece di rispondere subito, si sedette su un ammasso di pelli mettendosi fra le gambe la bottiglia di wisky sulla quale si posavano insistentemente gli occhi del capo, poi chiese:

— Sai che cosa vanno a fare quegli uomini che io conduco verso il gran nord con quella macchina?

— Non me l’hanno detto.

— Vanno a distruggere tutte le foche, le morse, le lontre, i narvali, i lupi, gli orsi bianchi e perfino i buoi muschiati che abitano le vostre terre ed i vostri mari.

— E perchè?

— Per farvi morire tutti di fame.

— Noi non abbiamo mai fatto nulla di male agli uomini bianchi.

— Dicono che voi siete dei ladri e che sterminate tutte le balene che si trovano in questi mari, mentre sono necessarie agli uomini bianchi per trarne l’olio occorrente alla illuminazione delle loro grandi case.

— E hanno mandata quella brutta bestia che brontola sempre!...

— Una bestia veramente terribile, amico, — disse Dik. — Tu l’hai veduta come corre.

— Va come le grandi raffiche.

— E quando corre a tutta forza piomba su tutti gli animali e li uccide col solo urto.

Capisci?

— Abbastanza, — rispose Karalit. — Sicchè distruggerà tutti gli animali che sono necessari all’esistenza delle nostre tribù?

— E non vi rimarrà altra risorsa che quella di tapparvi nelle vostre capanne e di lasciarvi morire di fame.

— E perchè tu, che sei nostro amico, hai accettato di guidare quella brutta bestia?

— Se mi fossi rifiutato il gran capo degli uomini bianchi mi avrebbe fatto bruciare vivo.

— Che cosa devo dunque fare per impedire che i miei sudditi ed i miei fratelli del gran nord muoiano di fame?

— Impedire ai miei padroni di andare innanzi e ricacciarli verso il gran sud. Tu hai abbastanza gente per costringerveli.

— E se facessi gettare quella brutta bestia nella baia insieme ai tuoi padroni?

— Non ti consiglierei di farlo, perchè quella bestia nasconde nel suo ventre del fuoco che potrebbe scoppiare e bruciare te e tutto il tuo villaggio.

— Ed allora, che cosa devo fare? — ripetè l’esquimese. — Fermarli qui o farli retrocedere?

— Fermali, se puoi.

— Hanno delle bocche da fuoco e quelle fanno paura.

— Ti ho detto che ne darò una anche a te.

— Mio fratello bianco è un vero fratello, — disse Karalit. — Ora mi dia da bere.

La mia lingua ha parlato troppo ed è asciutta.

— A te, ora bevi, — rispose Dik.

Il capo afferrò la bottiglia e si mise a bere a garganella.

— E tua moglie? — chiese l’ex-baleniere, fermandolo.

— Lasciala gustare i miei stivali, — rispose l’egoista. — A lei bastano. —

Rialzò la bottiglia con un gesto brusco, e per paura che suo fratello bianco tentasse ancora d’intervenire, in tre o quattro colpi vuotò il contenuto.

— Ecco il calore, — disse, facendo scoppiettare la lingua. — Ve ne sono ancora di queste bottiglie nella bestia maledetta?

— È piena, — rispose Dik.

— Allora puoi tenerti certo che i miei sudditi, se tu vorrai, muoveranno senza esitare all’attacco della bestia per spillarle dal ventre l’acqua che riscalda e che raddoppia la vita.

— Io lascerò loro tutte le bottiglie e parte dei viveri purchè non commettano dei guasti.

— Quando dovremo agire?

— Domani, dopo lo squartamento della balena, alla quale assisteranno senza dubbio i miei padroni.

Di quanti uomini puoi disporre?

— Di un centinaio.

— Armi da fuoco?

— Nessuna: solamente archi e fiocine. —

Dik si tolse la rivoltella e la porse al capo, dicendo:

— Dirò ai miei padroni che voialtri me l’avete rubata. Hai otto colpi da sparare.

— Me ne servirò. Conosco queste armi avendone appreso il maneggio da un cacciatore che è passato per di qua prima dello scioglimento delle nevi.

— A domani, — disse Dik, alzandosi — Ah!... Farai bene a mandar via le donne ed i ragazzi.

— L’avevo già pensato.

— Buona notte, Karalit.

— Che mio fratello bianco riposi tranquillo, rispose l’esquimese.

L’ex-baleniere si ricacciò nel corridoio, passando sopra a sette od otto cani che si erano rifugiati là dentro, e raggiunse l’automobile.

Le raffiche accennavano a diminuire di violenza, mentre il freddo era rapidamente aumentato.

Sulle coste della baia le onde si frangevano sempre con estrema violenza, rumoreggiando sinistramente nella notte cupa.

Dik si cacciò sotto la capote, si sdraiò sui soffici cuscini, si avvolse per bene nella sua pelle d’orso nero e si addormentò placidamente dopo d’aver mormorato più volte:

— Gli affari sono affari.... —

L’indomani, ai primi albori, fu svegliato da un gridìo assordante mescolato a latrati di cani.

I cacciatori si disponevano a recarsi alla piccola cala sui cui banchi si era arenata la gigantesca balena, con un lungo seguito di slitte tirate da dozzine di cani irrequieti, un po’ somiglianti ai lupi e che non cessavano di azzuffarsi fra di loro benchè i loro padroni picchiassero forte colle lunghissime fruste a manico cortissimo.

Il canadese e lo studente, udendo tutto quel baccano, erano pure usciti dal carrozzone e si erano accostati all’automobile dove Dik stava montando la sua piccola incudine per procedere alla riparazione del guasto che non esisteva che nella sua fantasia.

— Che cosa succede, amico? — chiese il signor di Montcalm.

— Nulla di male, signore, — rispose l’ex-baleniere, levando da una delle cassette una quantità di ferri. — Quel caro Karalit sta per recarsi alla costa coi suoi pescatori per pelare la balena. Sarà uno spettacolo interessante a vedersi e vi consiglierei di approfittare della bella occasione, anche perchè l’automobile non potrà essere pronta prima di questa sera.

— È grave il guasto?

— Ma no, signore, richiederà solo un po’ di tempo e di pazienza. Come vi ho già detto, rispondo io di tutto.

— Allora possiamo accompagnare gli esquimesi, — disse lo studente.

— Stavo per proporvelo. Rimanendo qui vi annoiereste inutilmente, — disse l’ex-baleniere.

— Si va, signor di Montcalm?

— Andiamo, Walter, — rispose il canadese.

Karalit aveva già fatto avanzare una slitta tirata da venti cani e guidata da un giovane pescatore, mettendola a loro disposizione.

I due viaggiatori vi salirono, portando con loro i mauser ed un canestro di provviste, e subito i cani, al primo colpo di frusta della guida, si slanciarono attraverso la pianura gelata, latrando e ululando di quando in quando come i lupi.

Tutte le altre slitte si erano pure messe in moto, gareggiando fra un incessante scrosciare di fruste ed un baccano assordante, poichè i guidatori sono costretti a urlare non meno fortemente dei cani per farsi obbedire.

Che quelle bestie, derivate a quanto sembra da un incrocio di lupi e di volpi polari, prestino ai piccoli abitanti delle nevi eterne dei grandi servigi, è innegabile; tuttavia non si creda che siano molto docili ed obbedienti ai loro padroni.

L’istinto selvaggio delle due razze e sopravvissuto e la lunga schiavitù non li ha affatto domati.

Si prestano al tiro delle slitte per paura della frusta, non per fare una cosa gradita ai loro padroni, verso i quali anzi non nutrono nessuna affezione e ci vivono insieme solamente perchè sanno che qualche cosa rimarrà sempre anche per loro dopo il pranzo.

Solo gli esquimesi sanno guidarli. Un europeo non riuscirebbe ad altro che ad andare a gambe levate ad ogni momento, insieme alla slitta.

Correndo rissano continuamente fra di loro, imbrogliando i legami, si mordono, urlano, poi chi si scaglia a destra, chi a sinistra, generando una confusione enorme che solo la terribile frusta, maneggiata dal guidatore con una maestrìa ed un vigore straordinario, riesce a calmare.

Guai poi se sulla loro corsa s’imbattono in una volpe, in una martora od in qualche altro piccolo animale. Allora non c’è più direzione.

Si scagliano dietro alla selvaggina senza più badare alle grida ed alla grandine di frustate, gettandosi all’impazzata dentro i crepacci o dentro i burroni, finchè finiscono per rovesciare il veicolo ed il più delle volte per renderlo anche inservibile.

Sono ben lontani dai nostri cani danesi o di Terranuova, sempre docili e sempre obbedienti e di buona lena. Le cinquanta slitte, poichè tante erano, in meno di venti minuti raggiunsero la costa, fermandosi di fronte al bassofondo su cui si era arenata la balena.

L’enorme massa non era stata menomamente smossa dalle ondate della notte e mostrava il suo potente dorso ancora tutto irto di fiocine.

La coda, rimasta fuori dal banco, fluttuava sotto i colpi della risacca, la quale s’ingolfava perfino dentro l’enorme bocca, rumoreggiando e spumeggiando intorno e fra mezzo i fanoni non ben serrati.

Walter ed il canadese erano subito balzati a terra, ed approfittando della bassa marea che aveva lasciato il banco quasi allo scoperto, si erano spinti innanzi fugando, con due colpi di fucile, una miriade di volatili radunatisi per prendere parte alla festa e rimpinzarsi di lardo.

Gabbiani, falchi pescatori, aquile pescatrici, procellarie, albatros giganteschi, erano accorsi da tutte le parti e volteggiavano sopra il gigante marino con un gridìo assordante.

Le lumme poi si contavano a migliaia e migliaia.

Gli esquimesi si erano armati di certe pale di ferro, di forma quadrata, assai taglienti, a manico corto, comperate certamente dai balenieri, ignorando quel popolo nordico la lavorazione del ferro, metallo che forse manca in quelle regioni, ed avevano invaso il banco per spogliare quell’enorme massa del suo lardo e delle sue carni.

Prima ad essere assalita fu la testa del cetaceo, per mettere al sicuro la lingua.

Sfondati i fanoni, dodici o quattordici uomini penetrarono nella bocca e si misero subito all’opera, mentre altri cominciavano a piantare le loro pale nei fianchi del gigante, segnando le striscie di lardo che più tardi dovevano venire levate e trasportate, sulle slitte, al villaggio.

— Ecco i viveri assicurati per tutto l’inverno, — disse il canadese a Walter. — Questi uomini fortunati potranno attendere senza timore le grandi nevicate, senza porre la punta dei loro nasi fuori dalle capanne.

— Quanto olio potranno ricavare dalla lingua, signor di Montcalm? — chiese lo studente, il quale si era avvicinato all’enorme bocca entro la quale gli esquimesi lavoravano accanitamente.

— Circa otto barili, ed è il migliore che si ricava dalla balena.

— E dalla massa intera?

— Suppergiù trentamila libbre.

— Una vera inondazione.

— È la parola, Walter.

— Vediamo un po’ questi fanoni, che devono essere i famosi ossi di balena che si pagano ben cari.

— Sono grosse lamine, fisse nella mascella superiore, che scendono diritte formando una specie di siepe, un po’ dentellate ad uno dei margini.

— Vedo, — rispose lo studente — E nessun dente!... È strana!...

— Certi cetacei, quelli chiamati balene maschio, ne posseggono però, ma non se ne servono.

— Mentre i capidogli?...

— Sono formidabilmente armati di denti di forma conica, ognuno dei quali non pesa meno di due chilogrammi.

— Che morsi devono dare!...

— Lo sanno purtroppo le disgraziate balene.

— Perchè sono nemici?

— E terribili nemici; e sono, come potete immaginarvi, sempre le balene che hanno la peggio, non servendo a nulla i fanoni.

— Sapete che idea mi dà la bocca di questo cetaceo?

— D’una scialuppa.

— Precisamente, — rispose lo studente. — A quanto stimate la lunghezza di queste mascelle?

— A non meno di venti piedi, — rispose il canadese. — La larghezza di questa bocca deve raggiungere i dieci, con un’altezza di sei, ossia di due metri.

Come vedete, gli uomini non hanno bisogno di curvarsi per lavorare.

Lasciamo che questa brava gente si avvoltoli nell’olio e nel lardo, e noi andiamo a tirare quattro fucilate contro gli uccelli marini.

Non avete che da scegliere.

— Sparerò sugli albatros.

— Carne coriacea, amico. Preferisco gli altri. —

Mentre si divertivano a fare dei bei colpi contro tutti quegli immensi stormi di volatili, i quali d’altronde non si mostravano affatto spaventati, gli esquimesi tagliavano, rompevano, fracassavano con energia febbrile, ansiosi di demolire il gigante e di mettere in salvo la sua carnaccia ed il suo lardo prima che si scatenasse qualche tempesta e lo portasse via, trascinandolo verso altre coste a formare la fortuna di qualche altra tribù.

Schiere d’uomini, carichi di enormi pezzi di grasso sgocciolanti d’olio, rossi di sangue fino ai capelli, passavano continuamente sulla costa e caricavano le slitte, le quali ripartivano subito pel villaggio per poi tornare al più presto.

Gli altri, sotto la direzione di Karalit, non cessavano di tagliare, cacciandosi perfino dentro l’enorme carcame, per strappare alle viscere brandelli enormi di grasso.

Sembravano tante formiche attorno al corpo d’un bisonte o d’un rinoceronte.

A mezzodì i lavoratori presero un po’ di sosta, radunandosi sulla spiaggia cosparsa di vere montagne di lardo e di carne. Che festa!... Uomini e cani gareggiavano nel rimpinzarsi e gli uccelli vi prendevano parte indisturbati, giacchè nè le grida, nè le frustate sarebbero riuscite a cacciarli di là.

Piombavano a legioni così fitte da oscurare talvolta la luce del sole, ed erano così audaci da strappare di mano, con un fulmineo colpo di becco, i pezzi che gli uomini stavano per portarsi alla bocca.

Soprattutto i grossi albatros mostravano un accanimento feroce e resistevano energicamente alle frustate ed anche ai colpi di rampone, sbattendo furiosamente le loro immense e poderose ali. Il canadese e lo studente, nauseati da quello spettacolo e quasi soffocati dalla puzza orribile che tramandavano le interiora del cetaceo in mezzo alle quali si avvoltolavano cani ed uomini insieme, si erano tirati in disparte, saccheggiando il loro canestro.

Durante la giornata, il via vai di uomini, di cani, di slitte non cessò. Gli esquimesi, quantunque pieni di lardo al punto da correre il pericolo di scoppiare, avevano nuovamente assalito il carcame, che ormai mostrava le gigantesche costole, per privarlo di tuttociò che poteva servire di nutrimento.

Alla sera ben poco rimaneva del disgraziato cetaceo. Perfino la testa era stata sfondata per togliere il cervello, relativamente piccolo riguardo alla massa imponente del corpo, che doveva fornire al capo ed allo stregone una deliziosa frittura!...

Ricominciava a soffiare il vento sulla baia ed a cadere del nevischio, quando i pescatori tornarono al loro villaggio cogli ultimi carichi.

Il canadese e lo studente avevano ripreso posto sulla slitta messa a loro disposizione dal capo, e che per un certo riguardo, molto apprezzato dai due esploratori, non era stata adoperata per trasportare quelle montagne di grasso.

Venti minuti dopo giungevano al villaggio, fermandosi presso l’automobile.

Dik stava vibrando alcuni colpi di martello su dei bulloni e su delle viti, canticchiando a mezza voce, quantunque avesse la pipa stretta fra i denti.

— Tutto accomodato? — chiese il canadese.

— Tutto, signore, — rispose l’ex-baleniere. — La nostra macchina filerà meglio di uno steamer.

— Allora domani potremo riprendere la nostra corsa e spingerci fino al forte Severn.

— Anche direttamente a quello di Churchill, signore. Avremo abbastanza benzina per raggiungerlo.

— Walter, prepariamoci il pranzo, — disse il canadese, — e voi Dik venite a dormire con noi nel carrozzone.

— Io mi trovo benissimo sotto la capote dell’automobile, — rispose l’ex-baleniere. — E poi non mi fido affatto di questi uomini dopo il guasto che ho constatato.

Capirete che basta un momento a rovinare il radiatore o sventrarci le pneumatiche, e sarà perciò meglio che io vegli.

Io già non ho mai avuto molta fiducia negli esquimesi, checchè si sia detto sulla loro pretesa onestà.

Ho finito: vengo ad aiutare il cuoco. —




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