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CAPITOLO XIV.
Gli esquimesi, aizzati dal capo e dall’angekok, e persuasi di aver da fare con un mostro destinato a distruggere tutta la selvaggina polare, parevano ben decisi a muovere all’attacco del treno, quantunque avessero provato già l’effetto terribile delle armi da fuoco.
Niente intimoriti dalle grida e dalle minaccie del canadese, si erano disposti in modo da formare un grand’arco che al momento propizio doveva chiudersi intorno ai due esploratori.
Essendo in buon numero, la vittoria non poteva riuscire difficile, poichè il canadese e lo studente non avevano da difendere il solo carrozzone, bensì anche l’automobile, il quale non offriva una difesa completa, quantunque la capote di cuoio fosse abbastanza resistente per arrestare le freccie.
Non vi era quindi un momento da perdere. Era necessario arrestare la marcia dei pescatori di balene con un fuoco terrorizzante, prima che il cerchio fatale si stringesse.
— Siete pronto, Walter? — chiese il signor di Montcalm, dopo d’aver intimato agli assalitori, per l’ultima volta, di ritornare alle loro capanne e di mettere in libertà Dik, senza aver ottenuto obbedienza.
— Quando vorrete, — rispose lo studente.
— Allora diamo battaglia. Tanto peggio per loro, se subiranno delle perdite crudeli. —
Due colpi di fuoco squarciarono l’aria illuminando per un istante la notte cupa, poi seguì un craac craac precipitoso.
I serbatoi dei mauser si vuotavano, seminando la bianca pianura di proiettili.
Gli esquimesi, sorpresi da quel fuoco intenso che pareva non dovesse finire più, e terrorizzati da quella continua successione di detonazioni, erano balzati in piedi tentando di arrestare quella grandine di palle con delle volate di freccie, poi vedendo che alcuni compagni erano già caduti urlando di dolore, per la seconda volta si erano slanciati a corsa furiosa verso il loro villaggio, ricacciandosi nelle loro gallerie e quindi nelle capanne.
La rotta era completa. I mangiatori di lardo ne avevano avuto abbastanza, poichè avevano lasciato sul terreno altri cinque uomini e tutti colpiti in pieno petto da quei terribili bersaglieri.
— Signor Gastone, — disse lo studente, il quale si affrettava a riempire il serbatoio del fucile. — Non vi pare che sia questo un brutto mestiere?
Noi massacriamo senza quasi correre alcun pericolo e ciò diventa noioso.
— Vorrei anch’io risparmiare quei poveri diavoli che quel cretino di stregone ha scaraventato contro di noi gonfiandoli di panzane, ma se noi mostriamo un solo istante di debolezza in questo momento, non risponderei più nè della nostra automobile nè della nostra pelle.
Ormai sono lanciati e non si arresteranno finchè non avranno vendicati i loro compagni.
— E Dik?
— Che cosa volete che vi dica?
— Non possiamo abbandonarlo.
— Non ci penso affatto.
— Se provassimo a venire a trattative?
— Non vedete che scappano sempre?
— Signor Gastone, vorrei darvi un consiglio.
— I vostri li ho trovati, almeno finora, sempre ottimi, quindi potete parlare liberamente.
— Se mettessimo in moto l’automobile per averlo sempre pronto?
— Ottima idea. Faremo una corsa intorno al villaggio.
Il freddo intenso ha rassodata la neve e le nostre ruote morderanno bene.
Tenete d’occhio gli esquimesi, voi.
— Nessuno si avvicinerà, signor Gastone. Il mio serbatoio è pieno e potrò coprire le capanne con una vera grandine di palle. —
Il canadese si era slanciato sull’automobile per far funzionare il motore, cosa che richiedeva pochi minuti, essendo la vettura munita del magnete Bosch a bassa tensione con candele a rupteurs.
Lo studente intanto sorvegliava attentamente le capanne, pronto a far fuoco sul primo esquimese che si presentasse con intenzioni ostili.
— Sono pronto, — disse ad un tratto il canadese.
Il motore funzionava lanciando in aria i suoi metallici e poderosi teuff-teuff. Tutta la vettura pulsava e fremeva, impaziente, dopo un così lungo riposo, di riprendere le sue corse vertiginose.
— Devo salire? — chiese Walter.
— Certo, — rispose il canadese. — Faremo per ora una corsa intorno al villaggio per provare la resistenza della superficie nevosa.
— E gli esquimesi?
— Vedremo che cosa sapranno fare vedendoci in corsa. A me il volante, a voi il mauser. Se ci lasciano tranquilli non fate fuoco.
Ne hanno avuto abbastanza, credo, e noi abbiamo già dei delitti sulla coscienza.
— Uh!... Le botti di grascia pesano poco, — rispose lo studente, salendo a fianco del canadese.
Una lunghissima nota metallica lacerò l’aria satura di nevischio, propagandosi attraverso la pianura sulle ali del vento, ed il treno si slanciò impetuosamente innanzi, sul largo solco aperto dalle pale.
Con un balzo brusco sormontò lo strato di neve che si trovava all’estremità dello squarcio e si precipitò sulla pianura rumoreggiando e traballando.
La sirena continuava a urlare coprendo gli ululati del vento e rombando dentro le capanne ed i corridoi, con poco piacere certamente degli esquimesi, già sinistramente impressionati dalla voracità di quella bestia misteriosa.
Il treno descrisse un gran circolo intorno al villaggio, poi si arrestò dietro l’ultima capanna, mentre i due esploratori gridavano a piena gola:
— Dik!... Dik!... Saltate fuori!... —
Invece dell’ex-baleniere fu il capo che si mostrò, accompagnato dall’angekok.
Da dove erano sbucati? Nè il canadese, nè lo studente si occuparono di saperlo.
— Briccone!... — gridò il signor di Montcalm, abbandonando il volante per afferrare la rivoltella che aveva appesa allo scudo. — Cerchi di farci pagare ancora la tua ospitalità? Dov’è l’uomo bianco? Rispondi, o ti imbottisco di piombo.
— L’uomo bianco si calmi, — rispose Karalit, tutto umile. — Io non vengo più come nemico, bensì come amico.
— Che amicizia!... — esclamò Walter. — Fidatevi di questi furfanti!... Si protestano amiconi quando le hanno prese, e non si sentono più in grado di prendersi la rivincita.
Signor di Montcalm, non vi fidate troppo di questa gente.
— Non metterò i piedi sulla trappola delle volpi, — rispose il canadese.
Karalit aveva fatto altri tre o quattro passi innanzi, studiandosi di mostrare la grossa rivoltella che non aveva affatto strappata a Dik, poichè l’aveva avuta in regalo.
— Come vi ho detto, — ripetè, — vengo da amico.
— Dammene subito una prova lasciando libero l’uomo bianco, — rispose pronto il canadese.
— Ma tu mi hai ucciso degli uomini, — ribattè con altrettanta prontezza l’esquimese.
— Ci hanno assaliti e noi ci siamo difesi. Quando i lupi assalgono le vostre slitte ed i vostri cani, che cosa fate voi? Vi lasciate divorare tranquillamente?
— Ah no!...
— E noi abbiamo fatto altrettanto contro di voi.
— Non siamo lupi però noi.
— Forse peggiori, perchè non potendo lavorare di denti, ci scagliavate contro delle freccie. Risponda l’angekok che è il grande consigliere della tribù. —
Lo stregone dondolò la testa, si avvolse maestosamente nella sua pelliccia d’orso bianco e si guardò bene dal rispondere.
La logica stringente del canadese lo aveva messo certamente in grande imbarazzo e la sua lingua in quel momento si era paralizzata.
— Deciditi dunque, — disse il canadese, il quale non perdeva di vista la grossa Colt che l’esquimese impugnava, temendo qualche tradimento.
— Tu mi hai ucciso degli uomini, — ripete Karalit, dopo una lunga riflessione.
— E così?
— Devi ricompensare la tribù di una così grave perdita.
— Sono sette i caduti, è vero?
— Sì, — rispose Karalit.
— Che cosa chiedi per loro?
— La tua bestia e tutte le tue armi da fuoco.
— Tu sei pazzo!...
— Mandiamolo da Calkraff!... — gridò lo studente. — Se fosse qui lo appiccherebbe per bene!... —
Il canadese si era bruscamente alzato. Aveva lasciata la rivoltella per afferrare il mauser ed aveva puntata rapidamente l’arma contro il capo, dicendo:
— Se fai un solo passo per fuggire ti ammazzo!... A voi, Walter!... Puntate lo stregone!... —
Lo studente aveva già compreso al volo l’intenzione del canadese.
Pronto come il lampo aveva già preso di mira l’angekok, il quale aveva sbarrati spaventosamente gli occhi credendo che fosse giunto il suo ultimo momento.
Karalit non aveva nemmeno osato alzare la rivoltella, la quale doveva contenere ancora quattro o cinque cariche.
— Mi volete uccidere? — gridò, con voce tremante.
— Certo, se non dai subito l’ordine ai tuoi sudditi di mettere in libertà l’uomo bianco e se non getti via quell’arma che non sapresti d’altronde adoperare.
— Io sono venuto da te come amico, — balbettò il capo, il quale guardava con spavento la canna del fucile.
— Ed io ti tratto come un nemico pericoloso invece, — rispose il canadese. — O mi obbedisci o sparo.
Getta quell’arma!... —
Karalit capì benissimo che quello non era il momento di esitare nè di tentare una qualunque resistenza, e lasciò cadere la rivoltella, mentre l’angekok, che tremava come una foglia, gettava via la fiocina.
— Ora ordina ai tuoi uomini di mettere subito in libertà il prigioniero.
— Andrò a prenderlo io stesso.
— No, amico, — disse il canadese. — Darai l’ordine rimanendo qui.
— Ti prometto....
— Non promettere niente, perchè già non ti crederei. —
L’esquimese digrignò i denti e brontolò qualche cosa, poi finalmente si decise a lanciare delle grida che dovevano avere il loro significato, poichè pochi momenti dopo dal corridoio d’una capanna usciva una forma umana, la quale si diresse sollecitamente verso l’automobile.
— Dik!... Dik!... — gridarono ad una voce il canadese e lo studente.
— Buona sera, signori, — rispose l’ex-baleniere, colla sua solita voce tranquilla. — Spero che non vi sarete troppo inquietati della mia prigionia.
— Un po’ sì, — disse lo studente. — Avrebbero potuto uccidervi.
— Ah!... Baie!... Questi uomini non sono così cattivi come credete, e se non si fossero cacciati in testa che la nostra macchina è una divoratrice d’orsi e di foche, non ci avrebbero dato nessun fastidio.
Che cosa volete, sono un po’ superstiziosi. Ecco tutto.
Signor di Montcalm, regalate loro alcune bottiglie di gin, se non vi spiace, tanto per compensarli delle perdite subite.
— Che hanno volute, — disse lo studente.
— Dategliele pure, — disse il canadese, — e lasciate pure al capo la vostra rivoltella. —
L’ex-baleniere aprì il carrozzone, empì un canestro di bottiglie e le porto a Karalit, il quale pareva ancora istupidito.
— Va a berle alla nostra salute coi tuoi sudditi, — gli disse.
Poi aggiunse a bassa voce:
— Va a farti impiccare, minchione!... —
Ciò detto balzò sull’automobile prendendo il volante e lanciò il treno a tutta velocità, attraverso la sconfinata pianura coperta già da un buon metro di ghiaccio.
Karalit aveva raccolta prontamente la rivoltella ed aveva sparato un paio di colpi, ma ormai l’automobile era lontana.
— Ah birbante!... — esclamò lo studente, il quale aveva uditi gli spari, malgrado il fragore che produceva l’automobile. — Non credevo che quei piccoli uomini fossero così cattivi.
Che gli dia una lezione, signor Gastone?
— Lasciatelo andare, — rispose il canadese, abbassandogli il fucile che aveva già impugnato. — Non aggiungiamo un’altra vittima a quelle che abbiamo già fatte.
— Graziamolo pure, egli però se avesse potuto, non ci avrebbe risparmiati.
— Che cosa volete: sono vendicativi questi abitanti dei grandi freddi, e non meno degli abitanti dei grandi calori.
Dik, badate!... Poggiate verso la baia e state attento ai corsi d’acqua che sono ormai gelati e scomparsi sotto la neve.
Slittano le ruote?
— No, signore: mordono abbastanza bene.
— Rallentate un po’. Dobbiamo pensare anche al carrozzone, la nostra casa che ci sarà più cara dei motori, quando i grandi freddi piomberanno su di noi.
— Mi pare che comincino a prenderci già ora, — disse lo studente, stringendosi addosso la pelliccia. — Mi pare che il mio naso voglia andarsene a tener compagnia alla neve.
— E questo non è ancora nulla, — rispose il canadese — Non abbiamo che 30° sotto, una vera inezia.
— Volete spaventarmi, signor Gastone?
— No, prepararvi.
— A sfidare....
— Una cinquantina di gradi.
— Mi sento gelare di già.
— Eppure gli esploratori polari che a migliaia e migliaia si sono avventurati fra le alte latitudini, li hanno sopportati.
— Erano di ferro quelli.
— Lo diventeremo anche noi, Walter, — rispose il canadese, ridendo. — Toh!... Ecco che ricomincia a nevicare.
La bianca dama ci accompagnerà certamente fino al Polo, se riusciremo a giungervi.
— Ne dubitereste?
— Mah!...
— Badate che lassù splendono i begli occhi di miss Ellen. —
Una nube passò sulla fronte del canadese e le sue labbra si contrassero ad un sorriso ironico.
— Credo, — disse poi, con voce un po’ sorda, — che gli occhi della miss abbiano ben poco a che fare col Polo ormai.
Ora non si tratta più che dell’onore della bandiera: il Canadà o gli Stati dell’Unione? Spero di far impallidire le stelle di mister Torpon sotto i colori della vecchia Francia.
— Non sotto il rosso infuocato dei miei compatriotti?
— No, Walter, — rispose con voce grave il signor di Montcalm. — I vecchi canadesi sono rimasti francesi.
Dik.... rallentate! La pianura diventa cattiva. —
Ed infatti la immensa pianura che costeggiava la baia dalla parte di ponente, cominciava a diventare pessima.
Le grandi raffiche che avevano soffiato nei giorni precedenti sul mare interno, avevano accumulata la neve in ammassi considerevoli i quali formavano delle vere montagnole, entro le quali l’automobile, che filava con una velocità di cinquanta chilometri all’ora, si affondava sfaldandole e seppellendovisi quasi dentro.
Per di più ricominciava a nevicare a larghi fiocchi ed un vento impetuoso e freddissimo scendeva dalle regioni boreali spazzando, di quando in quando, la sterminata pianura con una violenza inaudita.
— Brutta giornata!... — esclamò lo studente. — Purchè non veniamo bloccati in mezzo a questo deserto di neve! —
Dik aveva rallentata la velocità anche perchè gli ostacoli aumentavano continuamente e la tempesta di neve aumentava con una rabbia impressionante.
La macchina si affannava a vincere i cumuli di neve, funzionando con grande energia e riempiendo del suo fragoroso respiro la bianca pianura.
Le sue ruote anteriori, che giravano vertiginosamente, aprivano nella neve due larghe breccie, come due gigantesche ferite entro cui quelle posteriori affondavano pesantemente, seco trascinando il carrozzone il quale funzionava come una gigantesca catapulta.
Pareva che l’automobile fosse diventata una nave sbattuta dalla tempesta, poichè rollava e beccheggiava entro i crepacci che la neve aveva ormai coperti e che cedevano sotto il peso dei motori.
Intanto il vento aumentava e la neve turbinava così fitta che certe volte l’ex-baleniere non riesciva a mantenere la direzione giusta, quantunque il canadese tenesse la bussola in mano.
L’alba era ancora assai lontana, essendo le notti lunghissime in quelle regioni dei grandi freddi.
Il treno si dirigeva ormai a caso, piegando sempre verso ponente per non trovarsi improvvisamente sulle coste della grande baia e cadervi dentro. Intorno agli esploratori, rannicchiati sui loro sedili, da ogni parte imperversava la bufera di neve, piena di ululati e di fragori sinistri.
L’orizzonte si era chiuso rapidamente sotto un denso velo di nebbia il quale si avanzava coll’impeto delle onde del mare sospinte dall’uragano. Pareva che una falce gigantesca, vertiginosamente agitata, volesse precipitarsi sul treno e spazzarlo via o sminuzzarlo.
Nelle alte regioni dell’aria turbinavano migliaia di ghiacciuoli, sottili come spilli, i quali di quando in quando si abbattevano sull’automobile, colpendo senza misericordia Dik, non protetto dalla capote di cuoio, pungendogli dolorosamente il viso e le mani esposte sul volante.
Di quando in quando le raffiche cessavano, come se desiderassero un po’ di riposo per riprendere maggior lena, poi si scatenavano con furia indicibile, ululando o ruggendo e scagliando dentro l’automobile turbini di neve e di ghiacciuoli i quali s’ingolfavano, come una tromba, perfino dentro la capote, strappando al poco paziente campione di Cambridge una interminabile sfilza di maledizioni.
L’automobile correva, correva: il suo motore funzionava sempre rabbiosamente per vincere gli urti sempre più poderosi del vento. Si era affondata nella nebbia, la quale aveva finito per raggiungerlo.
Una oscurità densissima ormai l’avvolgeva. Dove andava? Attraverso la tempesta che ruggiva da tutte le parti, senza poter avere una direzione esatta.
Ad un tratto la macchina si drizzò come un cavallo che s’inalbera sotto un poderoso colpo di sperone e ricadde pesantemente, seppellendosi quasi intera in un enorme cumulo di neve che aveva sfondato col proprio peso.
La vettura di rimorchio, spinta dallo slancio, la investì con un fragore spaventevole.
— Dik!... — gridò il canadese. — Che cosa è successo?
— Una cosa semplicissima, signore, — rispose l’ex-baleniere, colla sua calma abituale, chiudendo d’un colpo i freni. — Siamo in panne.
— È guastata la macchina?
— Non lo so.
— Eppure il motore funziona sempre.
— Buon segno.
— Arresta ed aspettiamo l’alba.
— È fatto.
— Ed ora ritiriamoci nel carrozzone e lasciamo che la burrasca passi, giacchè non si può più andare innanzi.
— E prepariamoci la cena che ieri sera ci è mancata, — disse Walter. — Il mio stomaco la reclama imperiosamente.
Non so se quello di Dik sia stato riempito di teste di foca o di grasso di balena. —
L’ex-baleniere masticò fra i denti qualche cosa, probabilmente una bestemmia, poi balzò a terra affondando nella neve fino quasi alla cintola.
— Una notte d’inferno, è vero, mastro Dik? — chiese lo studente.
— Uh!... Ne ho vedute ben altre nello stretto di Lancashir, — rispose il marinaio, alzando le spalle.
Tolse la sbarra al carrozzone ed entrò accendendo subito la stufa e la lampada.
Il canadese e lo studente, dopo d’aver sbarazzato le pelliccie dai ghiacciuoli, l’avevano seguito, mentre al di fuori la tempesta di neve si scatenava con violenza inaudita, ed in lontananza le grosse ondate della baia di Hudson muggivano più forte che mai, sfasciandosi contro la desolata costa.