Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XXIV |
CAPITOLO XXV.
— Ebbene, signor Gastone, come va dunque?
— Ho un freddo terribile, mio buon Walter.
— Sfido io!... Con quel po’ po’ di ghiaccio che avevate intorno!... L’acqua non doveva essere certamente calda.
— Chi mi ha ripescato?
— Quel bravo Dik. Corpo di tutti i fulmini di Giove, quell’uomo è un vero orso marino.
Si è appena cambiato ed è corso subito fuori per cercare di trovare l’altro, ma io non credo che sia tanto fortunato, o meglio tanto sfortunato, poichè quel bisonte americano sta meglio in fondo all’oceano artico piuttosto che sopra.
— Il canotto dunque?
— Si è staccato nel momento in cui l’ice-berg si rovesciava ed abbiamo potuto raccoglierlo subito essendo stato scaraventato sulla spiaggia dal contraccolpo dell’onda.
— Che sia proprio morto, Torpon?
— Vorrei sperarlo, signor Gastone, — rispose lo studente.
Nel carrozzone, bene riscaldato, poichè la stufa, abbondantemente alimentata, brontolava più forte che mai facendo gorgogliare il ramino per l’acqua del thè, regnò per alcuni istanti un certo silenzio.
Il canadese, che si trovava coricato sul suo lettuccio, sepolto sotto un mucchio di coperte di lana, aveva alzato la testa e pareva che ascoltasse ansiosamente.
— Walter, che l’abbia trovato? — chiese finalmente.
— Io spero di no, — ripetè lo studente, versando l’acqua bollente nella teiera dove aveva già messo due cucchiai di thè polvere di cannone.
— Quell’uomo era pazzo.
— Era un gran birbante invece, signor Gastone. Cercava di spingervi nell’abisso. —
In quell’istante la porta si aprì e comparve l’ex-baleniere.
— Nulla? — chiesero ad una voce il canadese e lo studente.
— Ogni ricerca è stata inutile, signori, — rispose Dik, con voce un po’ alterata. — Qualche masso deve averlo schiacciato ed il mare lo ha inghiottito.
— Avete compiuto il giro dell’ice-berg?
— Sì, signore.
— Che il mare se lo tenga, — disse lo studente, alzando le spalle. — Signor Gastone, ed anche voi Dik, mandate giù una tazza di questo eccellente thè. Dopo il bagno che avete preso, vi assicuro che vi farà bene. —
I due uomini trangugiarono a gran sorsi la profumata bevanda, poi anche Dik si gettò sul suo lettuccio, mentre il canadese si ricacciava sotto le coperte.
Le tenebre erano già scese con rapidità fulminea poichè ormai il sole non si manteneva sull’orizzonte che sole tre ore.
— Dormite tranquilli, — disse lo studente, accendendo la sua pipa mobile. — Io vado a far la guardia al Polo dentro l’automobile.
Perdinci!... Ora che l’abbiamo raggiunto, bisogna guardare che non ci scappi. —
E l’allegro giovanotto se ne andò mentre il cielo si tingeva tutto d’immensi raggi bianchi, verdi, giallastri e sopratutto rossi.
L’aurora boreale illuminava il cardine settentrionale del mondo.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Dopo il mezzodì dell’indomani il signor di Montcalm approfittando del mare tranquillo e di quelle poche ore di luce, s’imbarcò da solo sul leggiero canotto per prendere possesso della montagna polare sopra la cui cima, la sera innanzi, lo studente aveva veduto brillare la fulgida stella dei naviganti boreali.
Arrancando di gran lena, poichè il bagno e le emozioni del giorno prima non lo avevano affatto indebolito, mezz’ora dopo sbarcava alla base della montagna, e su una roccia che era riuscito a scalare piantava la bandiera francese, dicendo:
— Io prendo possesso di te, o Polo artico, che per secoli e secoli sei stato il sogno ardente dei più arditi naviganti dell’America e dell’Europa.
Io solo ti ho domato e sei mio!... —
Guardò la cima della montagna, guardò a lungo il mare libero che la circondava, poi scese lentamente verso la spiaggia, balzò nel canotto e ritornò verso i compagni, i quali lo aspettavano in preda ad una viva emozione.
— Partiamo, amici, — disse. — Ormai non abbiamo più nulla da fare qui. —
Poi tese loro le mani dicendo:
— Grazie: è stato per sforzi anche vostri che io sono riuscito a raggiungere il Polo. —
L’automobile pulsava fragorosamente come se fosse impaziente di tornare verso il sud, orgogliosa, nella sua anima d’acciaio e di fuoco, d’aver aggiunta un’altra vittoria alle tante guadagnate dall’automobilismo su tutte le piste del mondo.
Il sole, pallidissimo, come se fosse ammalato, si coricava rapidamente come se s’immergesse nel mar libero polare, quando l’automobile e la sua vettura volsero le spalle al nord slanciandosi attraverso le isolette collegate fra di loro da banchi di ghiaccio abbastanza solidi per reggerli.
Fuggivano temendo che le grandi nevicate li immobilizzassero sulle terre di Grant, di Grinnell o di Ellesmore, le più fredde e le più battute dagli uragani di tutte quelle che si stendono al di là dell’oceano artico.
Dopo due giorni di corsa quasi continua, poichè splendide aurore boreali illuminavano, meglio che il pallidissimo sole, quelle plaghe desolate, il treno riattraversava felicemente lo stretto di Robison all’altezza della baia di Markham.
Dieci ore di sosta, o meglio di sonno, poi eccoli nuovamente in corsa, prima attraverso la terra di Grant, poi quella di Grinnell.
Il freddo era aumentato spaventosamente. L’enorme calotta polare, formata di ghiacci antichissimi e di campi di ghiaccio sconfinati, soffiava nebbioni e nevicate abbondanti.
Due giorni ancora ed ecco i fortunati conquistatori del Polo sulla terra di Ellesmore, in rotta per quella di Lincoln.
Poi eccoli in gran corsa attraverso il canale di Jones, che superarono senza provare le tremende pressioni che li avevano sorpresi sullo stretto di Lancaster.
La benzina sfumava rapidamente, ma i grossi serbatoi del carrozzone ne davano sempre come se fossero inesauribili.
Erano ancora ben lontani dal forte di Churchill, l’unico posto dove potessero rifornirsi, pure non disperavano di raggiungerlo e non completamente asciutti.
E la corsa continuava furiosa, febbrile, giorno e notte, con brevissimi riposi, sovente fra spaventose bufere di neve, attraverso prima la terra di Devon, poi quella di Baffin, quella di Boothia; quindi eccoli sulle spiaggie della immensa baia di Hudson. Sette giorni dopo giungevano finalmente, ancora con qualche centinaio di litri di benzina, al forte di Churchill, quasi interamente sepolto sotto la neve.
Ormai potevano considerarsi nel Canadà.
I fortunati esploratori, grandemente festeggiati da quei bravi cacciatori e dal borghese, sostarono un paio di giorni al forte per rimettersi dalle terribili prove subite e dalle dure fatiche.
Erano giunti assai dimagriti e molto sfiniti.
La partenza pel sud infinito fu salutata da tutti i cacciatori del forte con entusiastici hurràh e con grandi scariche di moschetteria.
Quantunque non tutti i pericoli fossero cessati, poichè l’inverno scatenava quasi ogni giorno furiose tempeste di neve, i tre esploratori ridiscesero verso l’alto Canadà, sempre costeggiando la baia di Hudson in gran parte gelata, poi nel basso, e ventitrè giorni dopo aver lasciato il Polo, una bella notte calma, di luna piena, entravano in Montreal fermandosi dinanzi la palazzina che avevano creduto di non più mai rivedere.
— Silenzio con tutti per ora, — disse il signor di Montcalm quando si ritrovò nel suo gabinetto da lavoro. — Per quarant’otto ore desidero che tutti ignorino, canadesi ed americani, che noi abbiamo conquistato il Polo nord.
Poi forniremo ai reporters dei giornali tutto quello che vorranno sapere sul nuovo trionfo di queste macchine impareggiabili che si chiamano automobili. —
Prese un foglietto di carta e vi scrisse sopra rapidamente alcune righe, poi lo porse al suo gigantesco portiere dicendogli:
— Manda subito a miss Ellen Perkins questo dispaccio.
— Subito, padrone, — rispose il colosso, uscendo frettolosamente.
Il signor di Montcalm stette un momento silenzioso, poi volgendosi verso l’ex-baleniere disse:
— Dik, andate pure a riposarvi nella stanza che vi ho fatta preparare. Domani mattina verrete qui ad incassare uno cheque di diecimila dollari che uniti agli altri che voi avete guadagnati in quel modo che voi sapete, vi permetteranno di armare una buona goletta da pesca e diventare capitano baleniere.
— Grazie, signore, — rispose Dik, curvando il capo ed arrossendo.
— Andate: anche voi avete bisogno di riposo. —
Si alzò, prese da uno scaffale una vecchia bottiglia di Bordeaux, la sturò ed empì due bicchieri, poichè nella elegante stanzetta non era rimasto che Walter.
— Che cosa credete che io abbia telegrafato a miss Ellen? — chiese allo studente, il quale sgranava gli occhi come per interrogarlo.
— Che mister Torpon è morto, che voi avete vinta la sfida e che attendete la sua mano, — rispose Walter.
— Davvero? — chiese ironicamente il canadese.
— Diamine!... Non avete trionfato voi? Non è morto il vostro rivale?
— Bevete, Walter: domani ne saprete di più.
— Corpo di tutti i fulmini di Giove!... Vi assicuro che non ci vedo chiaro in tutta questa faccenda.
— Ci vedrete meglio domani, poichè quella graziosa miss, dagli occhi di tigre, non mancherà di farci visita sulla sua automobile.
Le donne americane quando promettono mantengono, ma l’aspetterà una sgradita sorpresa.
— Come?... Voi....
— Bevete, Walter, — disse il canadese, interrompendolo bruscamente. — Ora che ci siamo perfettamente conosciuti e che ho avuto il tempo di apprezzare le vostre meravigliose qualità, vorrei farvi una proposta.
— Dite pure, signor Gastone.
— Voi siete venuto al Canadà per crearvi una posizione.
— È vero.
— Vi nomino, se non vi spiace, mio segretario a vita. Voi vi occuperete delle mie immense boscaglie e delle mie segherie e comanderete da padrone.
— Ah!... Signor Gastone!... — esclamò lo studente, allargando le braccia.
— Sì, qua una buona stretta mio giovane amico, con cinquemila dollari all’anno.
Ed ora, Walter, andiamo a dormire in un buon letto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Alle nove del mattino, una splendida automobile di 60 cavalli, si arrestava bruscamente dinanzi la palazzina del signor di Montcalm e miss Ellen Perkins, più bella e più fresca che mai, quantunque sotto le spoglie poco simpatiche delle automobiliste, balzava leggermente a terra senza l’aiuto dello chaffeur e del suo aiutante.
Il gigantesco portiere, già avvertito dal suo padrone di quella visita, la introdusse tosto nel salotto di ricevimento.
Un momento dopo il canadese entrava, salutandola con un profondo inchino e senza porgerle la mano.
Walter era pure entrato, quasi di soppiatto, celandosi nell’angolo più oscuro.
— Ah!... Signor di Montcalm!... — esclamò la giovane. — È dunque vero che voi avete raggiunto il Polo?
— Ho dei testimoni, miss, — rispose freddamente il canadese, facendo un nuovo inchino.
— E mister Torpon?
— Riposa laggiù, nei baratri dell’oceano artico, vittima della sua audacia.
— Morto!... Già, non aveva mai avuta fortuna quel disgraziato.
— Ah!... — fece il canadese, coi denti stretti.
— Sicchè domani tutti i giornali dell’America parleranno di voi, diventerete l’uomo più popolare degli Stati dell’Unione e del Canadà, e parleranno del nostro matrimonio, poichè voi avete conquistata valorosamente la mia mano.
— Quale, miss? — chiese il canadese, un po’ ironico.
— La mia: siete voi che avete vinto.
— Ebbene miss, a quella vittoria alla quale era impegnata la vostra mano io vi rinuncio, — rispose il signor di Montcalm, con voce grave. — Le donne che esigono delle vittime e che cercano di spingere degli uomini ad uccidersi in imprese arrischiate, non hanno mai fatto fortuna nel Canadà.
Miss, cercatevi pure un marito fra i vostri compatriotti.
— Avete detto? — gridò la giovane furente.
— Che miss Ellen Perkins non diventerà mai la signora di Montcalm. —
Ciò detto il canadese le volse le spalle e uscì dalla stanza.
La giovane spezzò con un pugno un magnifico vaso giapponese mandandolo in mille pezzi, ed a sua volta uscì seguita da uno scroscio di risa sardoniche del campione di Cambridge.
L’indomani tutti i giornali degli Stati dell’Unione e del Canadà salutavano con grande entusiasmo la nuova vittoria dell’automobile e la conquista del Polo artico.