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CAPITOLO XXIV.
Nel pomeriggio, dopo una vera scorpacciata di carne di mammouth sapientemente preparata dallo studente con grande abbondanza di droghe e di pepe per toglierle quel sapore di selvatico che si riscontra in tutti i grossi animali, il treno riprendeva la sua corsa.
Ormai soli dieci gradi, ossia seicento miglia, li separavano dal Polo, una vera inezia se potevano trovare il ghiaccio sempre buono.
In tre giorni, e fors’anche in minor tempo, quella distanza poteva essere superata anche senza troppo spingere l’automobile.
Dopo essersi assicurati del buono stato del ghiaccio steso sullo stretto di Smith, lasciarono la terra di Ellesmore e scesero sul pak per raggiungere la terra di Grinnell, le cui coste si profilavano distintamente sul limpido orizzonte.
Enormi ice-bergs si erano radunati nel vasto canale, piantandosi saldamente sul campo di ghiaccio e formando qua e là delle barriere le quali interrompevano sovente la corsa del treno, costringendolo a perlustrare per miglia e miglia prima di poter trovare un passaggio.
Fortunatamente in quel momento le pressioni non si facevano sentire che assai leggermente.
Di quando in quando il campo di ghiaccio vibrava e muggiva e qualche ice-berg, perduto l’equilibrio, strapiombava sul pak con un fragore assordante, aprendosi uno squarcio attraverso a cui l’acqua del mare saliva spumeggiando e rimbalzando.
Gli uccelli marini, che erano tornati numerosissimi, e che nidificavano sui fianchi o sulle cime di quei colossi, scappavano via spaventati, mentre migliaia e migliaia di uova si fracassavano sul ghiaccio, gigantesche frittate perdute, come diceva, molto amaramente lo studente, il quale non aveva ancora potuto, fino allora, permettersi il lusso di regalarsene una.
Tre ore dopo l’automobile, varcato lo stretto, saliva la terra di Grinnell, una terra assai accidentata, cosparsa di profondi fiords e tagliata in vari sensi da catene di montagne di considerevole altezza.
È una delle ultime conosciute, che si stende di fronte agli estremi limiti settentrionali della Groenlandia, da cui è separata dal canale di Kennedy e più oltre da quello di Robison.
Quantunque non formi che una massa sola, si divide in due terre un po’ separate dalla lunga baia di Lady Franklin, chiamandosi quella più boreale terra di Grant, nome datole dagli esploratori americani in memoria del loro glorioso Presidente.
Essendo la parte occidentale piuttosto piana, il treno piegò verso quella direzione per raggiungere il Greely fiord e più tardi la costa di Garfield; nondimeno dovette ben presto rallentare la corsa poichè i ghiacciai delle montagne orientali avevano già spinto molto innanzi le loro enormi masse di ghiaccio, disperdendole in tutte le direzioni.
Dik, che ormai dirigeva risolutamente la corsa, premuroso di mostrare al canadese il suo pentimento pei tradimenti passati, era costretto suo malgrado a fare delle frequenti fermate, delle quali d’altronde approfittavano i suoi compagni per sparare sugli orsi bianchi e sui buoi muschiati che si mostravano numerosissimi.
Una cosa aveva colpito gli esploratori: la improvvisa mitezza del clima.
Mentre più si avvicinavano al Grande Nord, la temperatura, invece di aumentare vertiginosamente, scemava di ora in ora.
Il sole splendeva magnifico, durante le quattro o cinque ore che rimaneva sull’orizzonte, poichè la lunga notte polare s’avvicinava a grandi passi; l’aria si manteneva sgombra di nebbie ed aveva una mollezza che contrastava stranamente coll’altezza dei paralleli, i quali ormai toccavano l’82°.
— Che esista realmente un mare libero intorno al Polo, come hanno affermato tanti navigatori, cominciando da Barentz? — si chiedeva continuamente il canadese. — Se questa temperatura continua a diminuire invece di aumentare, come sarebbe nel suo diritto, noi fra poco troveremo gli ultimi canali quasi sgombri dai ghiacci.
Fortunatamente ho portato con me un canotto di cauciu e mi spingerò da solo verso il Polo.
Ah!... Io non tornerò senza averlo veduto e senza avere spiegata lassù la bandiera della vecchia Francia. —
Alla sera il treno, dopo una traversata assai laboriosa, si arrestava sulle rive del Greely fiord. Erano allora appena le tre pomeridiane ed il sole era già tramontato.
Non essendovi nè luna, nè stelle, nè aurora boreale, i tre esploratori si accamparono poco lungi dal pak, non fidandosi di attraversarlo per paura che non fosse abbastanza solido per reggere il peso del treno.
La temperatura, che diventava sempre più dolce, li costringeva ormai a diffidare del ghiaccio marino.
Alle nove del mattino, quando un leggiero barlume di luce cominciava a mostrarsi verso levante, riprendevano la marcia a piccola velocità, girando il fiord il quale era formato da aspre colline non sempre accessibili, e verso le undici, al primo raggio di sole, passavano sulla terra di Grant, terra assolutamente deserta, poco nota, che spinge le sue spiaggie fino al canale di Robison, l’ultimo esplorato.
Anche l’83° parallelo era stato felicemente superato. Sette gradi ancora ed il Polo, quel terribile polo che in quattro o cinque secoli aveva divorate tante vittime umane per non lasciarsi togliere il velo misterioso che lo copriva, era vinto.
— Avanti giorno e notte, — disse il canadese a Dik, preso da un improvviso entusiasmo. — Vi offro mille dollari ogni grado che mi farete vincere.
— Ed io vi prometto di intascarli, — aveva risposto l’ex-baleniere. — Mister Torpon per me ora è morto!... —
Ed il treno era subito ripartito a grande velocità, salendo e scendendo le larghe ondulazioni della pianura gelata, sprofondando però talvolta entro la neve rammollita da quello strano tiepore che non aveva cessato di aumentare.
Al tramonto anche la terra di Grant, l’ultima rilevata ed osservata dagli esploratori artici, arrestatisi allo stretto di Robison ed alla baia di Morkham, era attraversata.
Malgrado i molteplici ostacoli, Dik aveva condotto meravigliosamente il treno, imprimendogli talvolta una velocità di sessanta e perfino di settanta miglia.
Al di la dell’ultima terra esplorata dagli audaci navigatori americani ed europei, si stendevano parecchie isole che sembravano picchi vulcanici emersi dal mare chissà in quali lontane epoche, congiunte fra di loro da terre basse e contornate da ghiacci ancora abbastanza solidi per reggere il treno.
Non vi era però da fidarsi gran che. La temperatura non cessava di scemare, e verso il settentrione apparivano degli ampi canali d’acqua libera, quantunque ingombri d’ice-bergs natanti, vecchi forse da secoli.
— Adagio Dik e scandagliamo prima il ghiaccio, — disse il canadese, il quale temeva che da un istante all’altro il pak cedesse sotto il peso del treno e li facesse scomparire nei baratri dell’oceano artico. — E noi, Walter, gonfiamo il canotto cauciu e teniamolo pronto.
Non è di grande portata, tuttavia potrà, in caso disperato, reggerci. —
L’automobile ormai non avanzava che con estrema lentezza, passando da un’isola all’altra, non senza che Dik, esperto conoscitore dei ghiacci, avesse prima provata la solidità dei campi di ghiaccio.
L’89° parallelo era stato già superato quando il treno, dopo d’aver attraversato un’isoletta di mediocre vastità, si trovò improvvisamente dinanzi ad una distesa d’acqua intensamente azzurra, ingombra solamente da enormi montagne di ghiaccio che il vento del nord faceva oscillare spaventosamente ed urtare le une contro le altre con rombi che impressionavano.
Un picco aguzzo, tutto coperto di ghiaccio, forse un antico vulcano, dai fianchi quasi inaccessibili, spiccava su quel mare libero che una superba aurora boreale, sprigionatasi in quel momento, tingeva d’un rosso vivissimo.
Il canadese mando un grido altissimo:
— Ecco uno dei due cardini del mondo!... Il Polo è là!... Dik, il canotto!...
— Il polo!... Quello è il polo!... — esclamò lo studente.
— Sì, Walter: domani a mezzodì io farò il punto, e vedrete che è proprio sul vertice di quel picco che s’incrociano tutti i meridiani del mondo.
— Possibile, signore?
— Che cosa credevate di trovare dunque voi al Polo? La luna forse, o tutti i vostri fulmini di Giove riuniti in fascio?
— Non lo so, signor Gastone, — rispose lo studente, che pareva sbalordito.
— Dik, il canotto!... — ripetè il canadese. — Metteteci dentro la gloriosa bandiera della vecchia Francia.
— Eccomi, signore, — rispose l’ex-baleniere uscendo di sotto il carrozzone, dove in un cassetto di ferro si trovava il canotto ben ripiegato, coi pezzi dell’armatura, i due remi e la pompa premente per gonfiarlo.
Lo studente era accorso in suo aiuto.
In dieci minuti la piccola imbarcazione, capace di portare non più di due uomini, fu gonfiata, armata e portata sulla spiaggia.
— Lasciate che per ora io solo prenda possesso del Polo nord, — disse il canadese con voce grave, fissando e spiegando sulla poppa una piccola bandiera coi colori di Francia.
— Ne avete il diritto, signor Gastone, rispose lo studente. — A voi spetta pel primo di posare i piedi sul cardine boreale dell’orbe terracqueo. —
Il canadese aveva già afferrati i remi, quando un colpo di fucile rimbombò sul mare libero, ripercuotendosi fragorosamente fra i monti di ghiaccio.
— Uno sparo.... qui.... a due passi dal Polo!.... — esclamò il signor di Montcalm con vivo stupore.
Poi un nome gli sfuggì:
— Torpon!... —
Dik e Walter si erano slanciati giù dalla spiaggia, spingendo i loro sguardi al largo.
In quel momento un secondo sparo rimbombò, e sui fianchi d’un enorme ice-berg, il quale oscillava spaventosamente a cinque o seicento metri dalla sponda, salì una nuvoletta di fumo.
— Un uomo laggiù!... — disse l’ex-baleniere.
— Aspettatemi qui!... — gridò il canadese. — Chiunque sia cercherò di salvarlo. —
Afferrò i remi e fece volare il canotto sulle acque spingendolo verso la gigantesca montagna di ghiaccio la quale, quantunque il mare fosse calmo, continuava a rollare come se fosse lì lì per perdere l’equilibrio e rovesciarsi.
Su una specie di piattaforma che declinava verso l’acqua, una forma umana era comparsa ed agitava pazzamente le braccia, urlando a squarciagola:
— Help!... Help!...1. —
Il canadese, abilissimo canottiere, come tutti i suoi compatriotti del S. Lorenzo, in pochi minuti attraverso la distanza, gettò un gancio sul ghiaccio e balzò sulla piattaforma.
L’uomo che gridava era scomparso qualche istante prima dietro una sporgenza.
— Dove siete? — gridò il canadese. — Sono venuto a salvarvi!... Non abbiate alcun timore!... —
Aveva già raggiunta la cima della piattaforma, quando un uomo gli rovinò addosso, bestemmiando.
Stringeva fra le mani un fucile, impugnandolo per la canna.
— Ah!... Miserabile!... — gridò, con accento feroce. — Ti ho trovato finalmente ed ora ti uccido!... Tu non andrai al Polo!...
— Voi.... Torpon!... — aveva gridato il canadese, balzando indietro. — Disgraziato, che cosa volete fare? —
Era proprio il yankee, il suo rivale, che gli stava dinanzi, spaventosamente dimagrito, colla pazzia negli sguardi, il viso smunto, col naso gelato e già intaccato dalla cancrena.
Che cosa era toccato a quel miserabile, ritrovato in vista, anzi a poche centinaia di metri dal Polo? Dov’era la sua automobile? Dov’erano i suoi compagni, poichè non era ammissibile che si fosse slanciato da solo nella grande e perigliosa impresa?
— Giù quel fucile!... — gridò il canadese, estraendo rapidamente il bowie-knife che portava appeso alla cintola, e che era l’unica arma che in quel momento possedeva. — Io non voglio farvi alcun male, mister Torpon, quantunque abbiate ordito contro di me dei tradimenti infami!... —
Lo yankee rispose con uno scoppio di risa, e dardeggiò sul suo rivale uno sguardo feroce.
— Io non ho potuto andare al Polo quando già stavo per metterci il piede, — disse con voce cupa. — Il freddo ha spento i miei due compagni e l’oceano ha inghiottita la mia automobile, ma nemmeno voi andrete al Polo, signor di Montcalm.
Già se anche io ci andassi, miss Ellen non mi vorrebbe più ora che il mio naso è putrido.
Guardatevi: non ho più che una sola cartuccia, perchè le due ultime le ho sacrificate per richiamare la vostra attenzione, però ho ancora abbastanza forza per uccidervi.
Nessuno di noi guarderà più mai gli occhi di quella terribile e crudele fanciulla!...
— Giù quel fucile, mister Torpon, — ripetè con tono minaccioso il canadese. — Vi ripeto che non voglio farvi alcun male e che vi ricondurrò sul continente, perdonandovi i vostri tradimenti.
— Quali? — chiese ironicamente l’americano.
— Dik, il mio chaffeur, mi ha narrato tutto.
— Ecco una grande canaglia: mi prende diecimila dollari e vi lascia giungere al Polo. Bisogna che vi uccida tutti!... —
Con un balzo improvviso si era scagliato sul canadese, mandando un ruggito di belva.
Il suo avversario che già si teneva in guardia, aspettandosi qualche brutto giuoco da parte di quell’uomo a cui le sofferenze avevano guastato il cervello, con un salto di fianco si sottrasse al calcio del fucile che avrebbe dovuto spaccargli la testa, poi gli si precipitò addosso afferrandolo strettamente e gridando:
— Arrenditi!... Ho un coltello nelle mie mani!... —
La risposta fu una bestemmia seguita da uno scroscio di risa.
L’americano aveva lasciato cadere la carabina ed aveva, a sua volta, avvinghiato il canadese, cercando di spingerlo giù dalla piattaforma e scaraventarlo nel mare.
Una lotta terribile, feroce, si era impegnata fra i due uomini, i quali ormai non avevano altre armi che le loro mani, poichè anche il canadese si era lasciato sfuggire il bowie-knife.
Erano caduti sul ghiaccio e si rotolavano tentando di sopraffarsi e scambiandosi, quando potevano, dei poderosi pugni.
Imprecazioni e ruggiti di belve in furore sfuggivano dalle loro labbra.
Walter e Dik, impotenti, assistevano a quella lotta selvaggia senza nulla poter tentare, poichè il canotto era rimasto fisso al ghiaccione col raffio.
Intanto l’enorme ice-berg, sospinto dal vento polare, s’avvicinava alla spiaggia rollando sempre più spaventosamente.
Gli uccelli marini che nidificavano sulla sua cima erano già volati via abbandonando le loro uova, e dai fianchi della gigantesca massa rotolavano, rimbalzando, gran numero di ghiacciuoli.
Era un avvertimento ben conosciuto ai marinai pratici delle regioni artiche. Il colosso, roso alla sua base dalle acque non più così intensamente fredde, stava per perdere il suo equilibrio e capovolgersi.
Dik se n’era accorto.
— Signor di Montcalm!... — gridò, facendo colle mani porta-voce. — Fuggite!... La montagna sta per rovesciarsi!... Al canotto!... Al canotto, signore!... —
Disgraziatamente la sua voce veniva coperta dal continuo grandinare dei ghiacciuoli, e poi i due uomini erano tanto accaniti nella lotta da non vedere e da non udire più nulla.
Continuavano a rotolarsi per la piattaforma, tempestandosi di pugni, l’uno facendo sforzi disperati per non lasciarsi precipitare in mare, e l’altro per gettarvelo.
Ad un tratto l’enorme montagna s’inclinò su un fianco tuonando, come se nel suo seno fosse scoppiata una mina.
Le due vette descrissero sull’azzurro del cielo un grande arco, poi l’enorme massa, che pesava quanto un’alta montagna, si rovesciò rapidamente mentre la parte fino allora sommersa s’alzava sollevando una immensa ondata.
Dik e Walter avevano mandato due grida d’angoscia.
— Signor di Montcalm!... —
Per qualche istante videro i due uomini, strettamente aggrappati, sollevarsi in aria insieme alla piattaforma sulla quale lottavano, poi non scorsero altro che una immensa colonna di acqua e di spuma da cui emerse, con un salto immenso, la parte inferiore dell’ice-berg.
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