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Capitolo III.
Presso alla Rotonda meridionale di Nara,1 in una bottega posticcia da tè costruita sul prato, una giovane, all’apparenza fra i diciassette e i diciotto, accompagnata da una fanciulla di quattro anni circa, se ne stava a sonare l’arpa; e la fanciulla, sporgendo il ventaglio verso le persone che andavano e venivano, era sempre attorno ad accattar quattrinelli.
La giovinetta, oltre ad essere di bellissimo aspetto, faceva scorrere con tanta grazia i suoi ditali d’avorio su per le corde dell’arpa,2 ed al suono di questa così deliziosamente cantava, che molto parlandosi e molto sentendosi parlare di lei, buon numero di ammiratori le si accalcava d’intorno.
O fatalità delle unioni conjugali di questa vita! Nulla v’è da maravigliarsi di ciò che tu operi.3
Il nostro Sachicci era appunto di pochi giorni arrivato in Nara, e stando ad albergo in via Crocicchio del Prato,4 vide naturalmente la sonatrice d’arpa. La vide e se ne invaghì.
Con l’intramessa di qualcuno si procurò dei ragguagli sul conto di lei, e venne a risapere che la giovane si chiamava Misávo,5 e quantunque andasse così accattando, non apparteneva alla classe dei paltonieri,6 ma era figlia d’un rônin,7 ridottasi a quella meschina professione per sollevare l’estrema povertà d’una sua sorella maggiore, di cui era figliuola quella bambina per nome Cojosci che conduceva in sua compagnia.
La notizia di così lodevole azione accrebbe a cento doppi nel cuore del giovine l’amoroso pensiero di lei; cosicchè, sebbene egli avesse già preso voce dei luoghi celebri e delle antiche reliquie da visitare, deposta ogn’idea di far gite, era lì tutti i giorni alla solita bottega da tè. E da principio facendo alla giovinetta, con ogni maggior riguardo, qualche regalo, riuscì bel bello a trattenerla in discorsi.
Essendo Sachicci bell’uomo, e per di più mostrando di commiserar grandemente la sorte di Misavo, questa provava per lui tutt’altro che ripugnanza. Ma l’abietta condizione di lei dava assai da riflettere: impediti altresì di potersi parlare liberamente, lasciarono trascorrere giorni e poi giorni, ispirandosi a vicenda una viva passione, senza che mai se ne aprissero.
- ↑ Città celebre della summentovata provincia di Jamato, detta anche la Miaco o metropoli meridionale. — Ciò che io chiamo Rotonda è significato nel testo con caratteri cinesi che letteralmente valgono «Sala rotonda del mezzogiorno.» Chiamasi pure «Il tempio della prosperità.»
- ↑ Il coto, a cui si dà per equivalente la nostra arpa, e meglio dovrebbe dirsi arpa orizzontale, vien sonato con le punte delle dita armate di certi arnesini che noi abbiamo chiamato ditali e i Giapponesi chiamano tsume, ossia unghie, d’avorio.
- ↑ Il Buddismo insegna che i matrimonii sono predestinati secondo i meriti o demeriti, le affinità e le attenenze avute in vite antecedenti.
- ↑ Intende probabilmente il prato dove era stata costruita la bottega posticcia da tè.
- ↑ Nome corrispondente al nostro Modesta.
- ↑ Nel testo Hi-nin «I non uomini, Gl’indegni del nome di uomini,» più volgarmente chiamati Yeta o Eta. È una classe di persone che si vuol discesa dai prigionieri Coreani, avuta sommamente a vile dai Giapponesi e condannata ai più abietti servigi. Veggasi Mitford, Tales of old Japan, vol. II, pag. 210 e 242.
- ↑ «Cavaliere errante.» Questo nome prendono i samurai licenziati dal servizio d’un nobile.