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Capitolo V.
Or qui è da sapersi che in Fannia-saca, sobborgo di Nara, dimorava un uomo per nome Tofei, il quale viveva esercitando il mestiere di portantino. Tempo innanzi s’era egli recato nel Cuantô,1 ed aveva servito sotto gli ordini del capitano Cazmura Teidafu, come soldato a piedi. Quivi però si prese d’amore per Fanajo, sorella minore di Fazzuse, la qual Fazzuse era la moglie del capitano. Ne sorsero tali difficoltà, che unico partito rimase agli amanti il fuggirsi nascostamente: e poichè questo sobborgo di Nara era il paese natale di Tofei, qui si ridussero i fuggitivi, e si congiunsero in matrimonio. Di questo nacque una bambina, cui posero nome Cojosci, la quale appunto in quest’anno compiva il quarto dell’età sua.
Dei genitori di Tofei, sola rimaneva in vita la vecchia madre chiamata Cúcciva; e questa, dopo aver sofferto d’oftalmia catarrale per quasi un anno, essendone alfine divenuta cieca, era causa di grandi angustie ai due poveri conjugi. E quasi ciò fosse poco, sopravvenne altro caso singolarissimo. Il capitano Teidafu, il già padrone di Tofei nel Cuantô, per motivi che si diranno, erasi dovuto dare a vita raminga. Priva così la famiglia d’ogni sostegno, la moglie Fazzuse, non vedendo modo di provveder neppure alla sussistenza dell’unica figlia Misavo, s’appigliò al partito di mandarla dalla minor sorella Fanajo, raccomandandole di tenerla seco e di educarla come meglio potesse. Tutto ciò avvenne, perchè Fanajo aveva fatto giungere alla sorella segrete notizie del luogo dove si teneva nascosta, e con lei di tempo in tempo aveva ricambiato anche lettere: ma in queste, per non affliggerla, non le parlò mai delle strettezze in cui era caduta la famiglia dove s’era accasata, mentre in precedenza le aveva lasciato intendere che vi menava comoda vita.
La parentela, che intercedeva tra Fanajo e Misavo, era, per ciò che s’è detto, quella di zia e nipote: ma siccome fra l’una e l’altra correva una differenza di soli tre o quattr’anni di età, in presenza di tutti si chiamavano sorelle. Rispetto a Tofei, Misavo era la figlia di quel padrone, dal quale egli non avea mai tolto licenza: si faceva egli dunque uno stretto dovere di usarle ogni più scrupoloso riguardo.
Ogni giorno, al Crocicchio dell’Albero, era sempre innanzi e indietro col suo carico della portantina da nolo: ma per quanto il pover’uomo si travagliasse, privo come sempre era stato di qualche risparmiuccio, e da un anno a quella parte, stante la grave malattia della madre, costretto naturalmente anche a trascurare in parte il mestiere, si ridusse a dover vendere quasi che tutta la masserizia di casa.
Non reggendo il cuore a Misavo di vedere quel disgraziato che stentava fino a provvedere a’ suoi giorni, volle venirgli in soccorso, e per non dirgliene il modo, a cui egli non avrebbe mai consentito, diede a credere non solo alla vecchia cieca, ma anche ai due conjugi, che aveva fatto un voto solenne, a compiere il quale doveva recarsi giornalmente per lo spazio di cento giorni alla Rotonda meridionale, per quivi pregare e recitarvi a uno a uno i cento fascicoli delle meditazioni buddiche.
Quanto alla piccola Cojosci, intelligente com’ell’era per bambina di tenerissima età, Misavo non dubitò di condurla in sua compagnia, imponendole sul proprio operato il più stretto silenzio. Cambiando poi, di tempo in tempo, in moneta preziosa gli spiccioli messi insieme con quella sua maniera di accatto, dava quelle somme alla sorella Fanajo, facendole passare per sovvenzioni che le mandavano i suoi.
- ↑ Veggasi la nota a pag. 3.