< Uomini e paraventi
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Ryūtei Tanehiko - Uomini e paraventi (1821)
Traduzione dal giapponese di Antelmo Severini (1872)
Capitolo XV
Capitolo XIV Capitolo XVI

Capitolo XV.




Gettato il seme e spuntati i germogli della pianta d’amore, quell’oscuro e disameno villaggio di Dògima1 parve al giovane un luogo d’amenità e di delizie. I ponti stessi che ora traversava, gli rammentavano coi loro nomi il fior di susino e di sácura; i pini che stormivano sulla verdeggiante collina di Sonezachi eran per lui una chitarra, che continuamente sonando a sè lo chiamava:2 due volte pieno d’ardore, tre volte depresso di spirito, col cuore che accelerava i suoi battiti, Sachicci Dai-tre-simboli, senza neppur mandare un messaggio alla casa di Ofana, ravviluppandosi nel seno della sopravveste l’involto dei cento riô ricevuti dalla madre, era già dietro alla casa di Utacava dalla parte del fiume. E mentre andando e venendo guardava in su, vide in dentro da un balcone del piano superiore al terreno la figura di Comaz, che se ne stava seduta sola sola e tutta raccolta, come persona immersa nei più tristi pensieri. Per buona sorte, lungo il fiume non si vedeva ombra d’uomo: sicchè Sachicci, per darle il segnale del suo arrivo, battè palma a palma. Comaz, benchè fosse già notte, vide e riconobbe l’amato giovane, e con la mano gli accennava che presto salisse. Ma il pover uomo, sebbene già fosse volato a lei con l’ardore, ali non aveva: e pur volendo salire, nell’accecamento dell’amore, s’appigliò al partito di dar leva ad uno steccone del palancato che circondava la casa, pensando fra sè: son tanto amico di questa gente, che se anche mi scuoprono, presto faccio a scusarmi. Se non che, al primo scricchiolare del legno, in un baleno sbucarono fuori dei cani, che, abbajando rabbiosamente, minacciavano d’addentarlo. Sachicci, nella furia del raccattar sassi nel rigagnolo e lanciarli come gli venivano a mano, disgraziatamente non si accorse che dalla tasca del fianco gli era andato rotoloni in terra l’involto dei cento riô: e, peggio ancora, presolo per un sasso, lo scagliò via insieme con gli altri.

A un tratto, col remore di qualche cosa di fracassato, si vede in distanza spegnersi una lanterna, che era sospesa al cielo d’una barchetta legata alla riva, e si sente la voce di uno che grida: «Razza di furfanti! chi è che lancia sassi a un uomo che dorme?»

Chiotto chiotto per non essere scoperto, Sachicci volse di nuovo gli occhi al balcone, e giù da quello vide venire qualche cosa come un razzo luminoso. Era la ciarpa a disegno di ellera rossa, di cui Comaz soleva farsi cintura di molti doppi alla vita.3 Abbrancatosi a questa potè finalmente superare lo stecconato, e come fu a terra dalla parte di là, disse con un sospiro: «Averci pensato fin da principio, non si sarebbe durata tanta fatica. Di qui vedo, che non si diventa neppur ladro alla bella prima.»

In queste riflessioni salendo al piano superiore, si vide venire incontro Comaz, che tutta accorata incominciò subito: «Ah! io non aveva più speranza di rivedervi, io mi sento morire. Stando le cose nei termini che avete sentito della zia Ofana, io non posso neppur pensare a quel che sarebbe di me, se dovessi dividermi da voi e ritornare in patria per farmi sposa d’un altro. Piuttosto, mi vi raccomando, datemi la morte voi stesso.»

E qui proruppe in tal pianto, che Sachicci per contenerla non seppe far meglio che appressarle una mano alle labbra, mentre le diceva: «Su via, Comaz, parlate con più calma. Che la vostra sorte fosse legata a quella di uno strano essere qual io mi sono, che voi doveste quindi spargere di amarezza la vita dei vostri genitori, è questa tutta una tela di guai ordita prima del nostro nascere. Piegate dunque la fronte.»

«Oh! se voi mi parlate dei miei genitori, a cui m’è tanto difficile non ripensare, voi mi farete pianger di più. Sapete quel che sono le memorie della casa paterna! Si vuol bene anche alla verga con cui siamo stati battuti da piccoli. Immaginate quel che devo sentir io per un padre e per una madre, che non m’hanno toccata mai con un dito, altro che per farmi un mondo di carezze. Dopo loro, chi parimente non ho dimenticato è quel mio fratello di latte che ora è venuto a prendermi. Sebbene oggi non abbia più presenti alla memoria le sue fattezze, come parente e amico dell’infanzia che m’è, non so dirvi quanto mi piacerebbe di rivederlo. Ma egli mi crede ai servigi di una principessa: e quand’anche io non mi lasciassi vedere in quest’acconciatura di capelli e di panni, tanto vistosa quanto spregevole, egli mi leggerebbe negli occhi la causa del mio tormento di cuore.»

Così dicendo si gettava bocconi, in preda ad infrenabile angoscia. Il giovane, posandole carezzevolmente la mano sopra una spalla, cercava di consolarla: «Purchè possiate subito riscattarvi, il tempo ci darà poi consiglio. Frattanto, grazie al buon cuore di mia madre, io son qua con una somma di cento riô. Ma giacchè m’è riescito d’entrar di nascosto in questa casa dove ho qualche debito, senza dire che io son qui, sarà meglio consegnare questo danaro ad Ofana, che lo tenga come deposito del prezzo già sborsato per avere in servitù la vostra persona. — Poveri noi!» esclamò ad un tratto, frugandosi e rifrugandosi da ogni parte. «Fra quei sassi che poc’anzi ho lanciato ai cani, m’è parso bene che uno avesse un peso insolito; ma chi poteva supporre che fosse l’oro cadutomi di tasca? Stupido! a non pensare che bastava averlo involto in una pezzuola per non trovarsi a questo frangente!»

Mentre pieno di confusione Sachicci teneva gli occhi a terra, Comaz gli si fece più da vicino e riprese: «Disgrazie sopra disgrazie: morire, e non altro, è la sorte che m’è serbata. Fate pure il caso che io potessi riscattarmi: rimanere in vita e non ritornare in patria, non è possibile; ritornare in patria e non farmi sposa d’un altro, è parimente impossibile: dunque, io ve ne scongiuro, Sachicci, concedetemi questa grazia, fate che io muoja di vostra mano. Io non ho già dimenticato d’esser figlia d’un militare, e porto meco un pugnale. Uccidetemi, uccidetemi con questo.»

E porgendolo al giovane, tanto gli si mostrò posseduta dal genio della morte, che questi, pieno il cuore di compassione, rispose: «Ormai sono le cose a tal punto, che anch’io, diviso da voi, vedrei mancare ogni meta al corso della mia vita. Sciagurato a segno da non distinguere più i cocci o le pietre dall’oro, e mille volte meglio che anch’io la finisca.»

«Morire insieme! oh quale contentezza mi date, quanto ve ne son grata! Questa sera il salotto è deserto: i samurai son di servizio da qualche tempo, e siccome entrano di guardia dopo il mezzogiorno, per buona sorte non sono qui ancora. Fuggiamo la possibilità di esser veduti; andiamo là dentro.»

E con fermezza di proposito s’avviava, quando una voce gridò dal di fuori: «Comaz, Comaz, una visita!»

Sbigottita la giovane spinse in tutta fretta Sachicci entro un armadio, ed appoggiatavisi davanti, con una canzone d’amore sul labbro, come suol dirsi, e con la prece dei defunti nel cuore invocando la morte, e tuttavia dissimulando come meglio poteva, fece scorrere il telajo di carta bianca che separava quella stanza dal salotto: e benchè l’agitazione le avesse tolto il lume dagli occhi, mentre l’ospite entrava, disse in risposta alla voce che l’aveva chiamata: «Che cos’è che vi contraria, mia buona zia? Ah! quel tristo d’Uranochiô sta ad aspettare le visite allontanandosi dal salotto, senza tante cerimonie, proprio al principio del ricevimento. Mi piacerebbe che gli si tenesse ben d’occhio per sapere dove va a zonzo. Ma io non ho alcuna familiarità con lui, e lascio correre.»

Con queste ciance Comaz avea preso un poco di tempo per ricomporsi, e nell’intenzione di nascondere quanto poteva l’armadio, s’andava allargando le maniche del vestito.

Il nuovo venuto, senza far parola, apriva e chiudeva il ventaglio, facendone risonare le stecche, e guardava, guardava.

Allora Ofana pensando che, qualunque fosse lo stato di Comaz, si poteva parlare liberamente, poichè non v’erano estranei; e d’altra parte spaventata all’idea di vedersi a un tratto comparire davanti chi, secondo lei, doveva arrivare da un momento all’altro, s’affrettò a dire: «Comaz, non riconoscete voi quest’uomo?»

«Sì, quel signore che oggi ho veduto due altre volte. Giacchè siamo in tutta confidenza, si accomodi qua.»

«Ma neppure per sogno! Quest’uomo è Riusche, il messo venuto da Camacura per ricondurvi.»

«Se così è, signore, dinanzi a voi quanto io devo arrossire!»

Pronunziate queste parole, senza muoversi neppur d’un pollice, Comaz ricadeva nel suo abbattimento.

«Oh no, non è questa l’accoglienza ch’io m’aspettava da voi. Non voltare neppure il viso verso di me!»

Vedendo che a tali parole Comaz dava in un pianto, Juchimuro continuò per calmarla: «No, non vi abbandonate a cotesta costernazione, di cui non può esservi alcun motivo. Se anche in questa Naniva, lontano dal vostro paese di Camacura, vi sono accadute cose per le quali voi vi crediate avvilita, non vi sarà in patria anima viva che ne abbia sentore, e il nome della vostra famiglia non potrà riceverne macchia. Juchimuro Riusche, oggi samurai al servizio della nobile casa de’ Momonoi, è il figlio della vostra nutrice, e il vostro fratello di latte, è un addetto alla vostra famiglia. E per questo appunto la scelta del messo, che doveva ricondurvi, e caduta sopra di me; ed a me non si è dubitato di dare queste istruzioni, cioè: che se qua per caso fosse accaduto qualche cosa non troppo conveniente a sapersi, avessi cercato di prender lingua e di aggiustare per lo meglio ogni cosa. Io, vedendo che la signora Fanajo mi faceva cento discorsi, da cui non c’era verso di cavare un costrutto, a furia d’indagare e di domandare son riuscito a raccogliere, che generalmente si sospettava che la celebre ballerina Comaz fosse una nipote dei conjugi Fanazachi. In casa di questi, per usare ogni maggior riguardo, mi son fatto vedere per altri quattro o cinque giorni; ed accortomi che da parte loro era tutta questione di salvar le apparenze, mi son presentato alla tesoreria, sapendo che di un giovane samurai non si diffida; ne ho ricevuto in prestito il danaro che mi occorreva, e poco fa, recatomi dal vostro padrone Tocuvacaja, ho avuto con lui un colloquio, l’ho rimborsato del prezzo al quale egli vi aveva comprata, mi son fatto restituire la scritta; e così fin da questa sera voi siete libera. Pensate adesso che chi vi è venuto a riprendere è quel Riusche, con cui avete giocato tante partite al doppio sei, e tante altre ai buffetti con le chioccioline. Direi dunque che fosse tempo di lasciar da una parte cotesta o confusione o vergogna che sia, e farmi vedere una buona volta il vostro bel viso rasserenato. Facendomi dei misteri, in certo modo come se io fossi un estraneo, mi costringete a supporre che voi tutt’e due abbiate del mal’animo contro di me.»

A questo punto, commosso fino alle lacrime, il buon samurai cessò di parlare. Comaz, sempre in disparte, ascoltava e taceva. Allora Ofana, chinando anch’essa la fronte per la vergogna, si fece animo a dire: «Mi preme innanzi tutto di farvi sapere che, se Misavo si è assoggettata ad un servizio indegno di lei, tutta la colpa è mia. Non è cosa questa da mettervi sopra una pietra, come pare che voi vorreste: ma invece io devo esser preparata a subire tutte le conseguenze del male che ho fatto. Ora però, sebbene il ritornare ad una condizione di vita ragguardevole, nel proprio paese, sia per sè stessa una fortuna, è pur vero che questa figliuola, durante il tempo che si è trattenuta da queste parti, ha contratto un impegno di matrimonio, da cui non è più possibile che si sciolga. Che ne direste voi dunque, se io proponessi che voi vi faceste mediatore per ottenere che si celebrassero gli sponsali di Misavo con questo giovane, e i genitori di lei venissero a stabilirsi qui in Naniva? Non vi pare possibile questa cosa?»

Alla proposta di Ofana, Comaz, benchè soffocata dal pianto, tentò di aggiungere le sue preghiere: «È tale il bene che m’hanno sempre voluto i miei genitori, tanti sono i benefizi che io so d’aver ricevuto da loro, che mi pare superfluo di assicurarvi, che io penso sempre a loro con tutta la tenerezza d’una figlia amorosa: il mio corpo è qui, ma l’anima mia è sempre nel cuor di mia madre. Con questi sentimenti di pietà filiale, io so d’altra parte d’esser figlia d’un militare, e intendo, come l’intenderebbe anche una persona del volgo, che vincolata da doveri a cui non è lecito sottrarsi, io non posso far altro che rimanere in questa terra di Naniva. Dite che Misavo è ammalata, dite che è morta: ma lasciatemi qui, non mi costringete a ritornare nel mio paese.»

E così dicendo, piegava le mani come in atto di adorazione.

Riusche allora con occhi fra lagrimosi e accigliati ricominciò: «Disdoro per voi, giovinetta nata e cresciuta in una famiglia di nome, aver contaminato la vostra gentil persona con cotesti emblemi di leggerezza che vi veggo dintorno, aver preso a seguire gli esempi d’un vivere spensierato! Come potè il vostro cuore cambiarsi a segno da scordare il paese che vi vide nascere, scordare il padre e la madre? Oh se sapeste! Un giorno i vostri buoni genitori mi presero a parte e mi dissero: — Quando noi eravamo raminghi, quante volte siamo stati tentati di raderci il capo, entrare in un convento, e finirvi la vita lontano dai trambusti del mondo; ma poi dicevamo: che cuore sarà quello di Misavo, quando nel ritornare alla casa paterna troverà questo cambiamento? Così ce ne siamo sempre astenuti, ed oggi che finalmente ci è toccata questa bella ventura di rientrare al possesso del nostro stato, ci raccomandiamo a voi, Riusche, di farci aver presto la consolazione di riabbracciare nostra figlia. —

» Mi par di vederli i famigliari del principe che si preparano a ricevervi schierati in due lunghe file, con le mani a terra in attitudine di rispetto; e il signore del castello che vi viene incontro ad accarezzarvi. Là dove tutti ansiosamente v’aspettano, io dovrò dunque ritornarmene solo e scornato? — Ma v’è di peggio. Quando si saprà che la promessa di matrimonio fatta ad una famiglia ragguardevole del paese è riuscita una menzogna, chi vi dice che vostro padre non sia costretto di squarciarsi le viscere? E voi, signora Fanajo, che non vi unite a me per indurre vostra nipote al ritorno, voi mi parlate di voler concludere qui un matrimonio. Suppongo già che si tratti del noto mercante di riso di Dogima. Io vi voglio concedere che costui possegga in terreni un milione di patrimonio: è mai presumibile che un guerriero voglia dare in isposa la propria figlia a un uomo del volgo, vivere alle spese d’un tal genero, abbandonare l’antico signore che si è degnato di richiamarlo, e prendere stanza in questa terra di Naniva?

» Se io mi riscalda tanto, fin quasi alla collera, potete ben credere che lo fo solo perchè mi sta vivamente a cuore la sorte di una gentildonna, qual’è la signorina Misavo. — Ah povera madre! lontana le mille miglia dal supporre niente di simile, essa conta sulle dita i giorni, e dice fra sè: forse arriva oggi, forse domani! — Guardate, essa mi diede questa lettera che io vi consegno. Vi piaccia leggerla e ponderarla maturamente.»

Comaz la prese in mano e lesse la soprascritta:

Alla signora Misavo da parte di sua madre.

Quindi aggiunse: «Saluti ed augúri per tutti noi, è stato sempre l’argomento delle lettere di mia madre. — Io che all’età di quattordici anni fui mandata da Camacura alla provincia di Jamato, e per lo spazio di otto anni non ho potuto salutar di presenza i miei genitori, come potrei non desiderare di rivederli? Ma a tali strette mi sono trovata questa sera, che la mia salute ne ha sofferto insanabilmente. Ora, mentre io sento che la morte s’impossessa di me, venite pure ad accrescermi i tormenti dell’agonia col dipingermi a vivi colori la tenerezza di una madre che io forse non potrò più riabbracciare, copritemi pure di obbrobri, martirizzatemi pure; ma non mi dite che ho scordato mia madre: sareste troppo crudele!»

Stringendosi al seno amorosamente la lettera, mandò un sospiro di tale accoramento, che anche l’anima parve si fosse partita con quello.

Passò qualche minuto in silenzio: e quindi Comaz, ferma nel pensiero di liberarsi, con uno o con altro pretesto, dalla presenza di Riusche e di Ofana, rasciugandosi gli occhi riprese: «Ho riflettuto seriamente, e intendo anch’io, che non si deve anteporre l’amante ai genitori. Or bene, la mia determinazione è presa: dimani partiremo per Camacura. Datemi dunque agio questa sera di congedarmi dalla persona che fin qui mi ha mostrato la più cordiale affezione, e più tardi compiacetevi di ritornare.»

Uomo di perfetta bona fede, Riusche, senz’ombra di sospetto, si rallegrò con tutta l’anima sentendo queste parole: «Vi siete finalmente lasciata persuadere! Benissimo dunque, domani verrò a prendervi con una lettiga, non troppo vistosa, per esser meno osservati. Ora, non per entrare nei fatti vostri, ma, se aveste qualche rimasuglio di debito, o voleste lasciare qualche regalo, se insomma vi occorresse danaro, son certo che fra noi non vi saranno cerimonie. — Signora Fanajo, avrei ancora qualche cosa da dirvi: se permettete, dunque, si potrebbe fare la strada insieme fino al vostro albergo.»

Con questo alzandosi, Fanajo e Riusche si allontanarono lentamente.



  1. Nome che deve differire da Scima-no-ucci, come Partenope da Napoli, o Felsina da Bologna. V. la nota a pag. 30.
  2. In giapponese pino si dice maz, e il nome Co-màz, come s’è già detto, significa piccolo pino. — Il giapponese si presta ai bisticci più del francese.
  3. Nel testo, nuovi giuochi di parole e di metafore fra cintura, edera avvitticchiata, pino (maz) e Co-màz.


Note

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