< Uomini e paraventi
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Ryūtei Tanehiko - Uomini e paraventi (1821)
Traduzione dal giapponese di Antelmo Severini (1872)
Capitolo XVI
Capitolo XV Capitolo XVII

Capitolo XVI.




Quando vi fu sicurezza che nessuno potesse vedere, l’armadio si schiuse, e dopo un lungo sospiro: «Comaz!» — «Sachicci!» — «Qua!» — furono le sole parole.

Si presero per mano, e tenendo la stessa via, per la quale Sachicci era poc’anzi penetrato nascostamente, si calarono all’argine del fiume, e lungo questo affrettavano il passo.

A un tratto s’ode una voce che canta:


Della vita mortal che mai t’avanza?
            Tenebra e nulla più.
Corre l’uomo alla morte: una sembianza
            Vorresti averne tu?
Fingi al guardo una via che da un deserto
            In un deserto muor:
Via buja, angusta, che dal passo incerto
            Ti smunge ogni vigor.

Sogno è di sogno, miserabil cosa
            La vita! e vuoi saper
Quant’ella sia? Mentre ad un ciel di rosa
            Del giorno messagger,
Già si diffuse o suon di squilla o canto,
            L’eco stessa che muor
Del suon di questa vita appena è quanto
            A udir ti resta ancor.


Venivano tali canti dalla casa di Zuruzava presso al Ponte ai Susini, dove ogni mese a veglia si rappresentava un melodramma. Quand’ecco due persone, che al pari dei nostri amanti andavano insieme, uscirono dall’ombra dell’argine. Sachicci vedendosele venire incontro, «qua,» disse, «Comaz, piuttosto che allontanarci fuggendo, ho pensato che sia meglio nasconderci qui vicino e lasciar passare costoro, che certo devono andare in traccia di noi. — Vedi infatti, erano, come io supponeva, le lanterne di casa Utacava1 quelle che ci sono passate davanti. Sono andati correndo a casa Fanazachi, e ne han fatto uscire Tofei ed Ofana per condurli in traccia di noi. Ora entriamo là dentro finchè ne sono assenti i padroni di casa, e così potremo almeno morire in pace.»

Detto questo, fece rimaner Comaz appiattata dov’era, e si avvicinò solo a spiare la casa. «Ojosci, Ojosci,» disse quasi subito; «questa sera non sei ancora a letto a quest’ora?»

«Stasera,» rispose la fanciulla con tutta serietà, «io me ne stava tanto bene a sentire il melodramma in casa del mio maestro di musica, quando sul più bello son venuti a riprendermi, dicendo che la mia cugina Comaz era fuggita. Il babbo e la mamma son corsi ad inseguirla, e così con tutta la mia voglia di ritornare al melodramma, eccomi qua a far la guardia a casa. Benedetta cugina! poteva aspettare che fosse finita la veglia, e domattina fuggire.»

«Dici bene,» rispose Sachicci; «ma io posso trattenermi qui un buon poco; e tu, se vuoi, ritornatene pure a veglia.»

«Non mi par vero! A ben rivederla, dunque; faccia buona guardia.»

Come Sachicci l’ebbe veduta entrare di corsa nella casa vicina, presa per mano Comaz, la condusse nella stanza più interna, e tirato a sè un paravento, che per caso si trovava là entro, lo spiegò innanzi la porta per non essere disturbato dei canti della casa contigua. Ma facendosi strada la voce attraverso le sottili pareti, di nuovo s’udirono questi versi:

Ancor che le nubi stendessero un velo
   Di foschi vapori sul fiume del cielo,2

Specchiarvisi amava dell’Orsa un stella,
   E un astro fu preso da luce sì bella.
Ma fredda, ma vasta l’eterea fiumana
   Tenea da quell’astro la stella lontana.
Allora al soccorso le gru fatte pronte,
   Disè, per gli amanti, formarono un ponte,
E l’astro e la stella, mercè dei pietosi
   Benefici augelli, divennero sposi.
Se il ponte che ha nome dal dolce susino
   Egual ci apprestava beato destino,
Io pur de’ miei giorni te l’astro direi,
   Io pur di tua vita la stella sarei.


«Questi,» diceva Sachicci, «sono i celebri versi di Ofaz Tocubeje; questo è il paravento, formato con le scene, dov’è rappresentata la fuga dei due amanti; e fino il luogo, dove noi ci troviamo, è il Ponte ai Susini. Rammento ora le parole che io dissi un giorno, burlandomi di quegli sciocchi che per amore giungono fino a darsi la morte.»3

E qui il melodramma riprese:

Prima a questo, a quel dipoi!
     Fino jer, fin oggi, un vano
Cicalío sul prossimano
     Alternato abbiamo noi.
Quando il sol farà ritorno,
     Noi così n’andrem fra quelle
Scipitissime novelle,
     Che si levano col giorno.

«Per quali strane congiunture» proseguì Sachicci «doveva anch’io ritrovarmi a voler la fine de’ miei giorni!»

Udite queste parole, Comaz rispose piangendo: «Qualunque sia la misteriosa opera di quel destino che ci perseguita anche prima del nascere, io sarei un’empia e un’ingrata se pensassi che voi, di nulla colpevole, solo perchè avete stretto vincoli d’amore con uno strano essere, qual io mi sono, doveste accompagnarmi per le buje vie dell’inferno.»

Il discorso di Comaz fu interrotto da nuovi canti del melodramma:

       Medita quanto sai,
Sospira a senno tuo dal cor profondo,
       Ma far tu non potrai
A tuo modo in un tempo e a mo’ del mondo.

«Veramente il costume del mondo,» osservò qui Sachicci, «da diverse morti volontarie si vede essere il fatto di rinunziare alla vita per mancanza di quel danaro che, a ragione, fu chiamato il grande omicida. Ora dunque, a recedere dal nostro divisamento, basterebbe il considerare che il vostro riscatto è compiuto. Io poteva altresì disporre di cento riô, ma in grazia di quei carissimi cani io me ne son servito come di arme offensiva. Questo fu che mi diede la spinta per venir nel proposito di morire. Animale salace, il cane ha sull’uomo potenza di fascino, e lo induce a smarrirsi nelle vie dell’amore. I vostri parenti, non di meno, tengono qui, come vedete, questa scatola in forma di cane; e in memoria dei benefizi che dicono aver ricevuto da voi, l’hanno in tanta venerazione, che gli accendono il lumicino, come dinanzi ad una devota immagine. Ma, brutte bestie, l’avete dunque proprio con me, voi altri cani, che mi vi siete avventati abbajando come furie! Giacchè non posso vendicarmi altrimenti, anche a costo di farmi del male, voglio sfogare la mia stizza a furia di pugni su questo simulacro di cane.»

In così dire, menando colpi sull’innocente scatola, e rovesciandola, vide uscirne e ruzzolare per terra un involto di cento riô.

«Guarda, guarda! Questo, lo riconosco benissimo, è l’involto di danaro caduto di tasca a me. E come mai sarà penetrato qua dentro? — Comunque sia, ora la vostra promessa di matrimonio non è davvero tal frangente che debba condurci al suicidio, quasi non vi fosse partito da prendere, altro che una subita morte. — Orsù, fatemi sentire che cosa vi ha scritto in proposito vostra madre.»

«Ahimè! questa lettera non farà che ripetere quel che ha detto Riusche: — Non si mette in brandelli una scritta di matrimonio stipulata fra militari. — Era mio proponimento di lasciar questa lettera così com’è sul mio cuore, e leggerla nell’altro mondo: ma là il gastigo, a cui probabilmente io sarò condannata, sarà la caligine dei miei peccati che mi farà eterno velo agli occhi, e per sempre mi toglierà di vedere questi amati caratteri. Leggiamoli dunque, e sia questo l’ultimo addio che ricevo dal mondo e dai miei.»

Ruppe il sigillo, e con ciò le parve di avere spezzato il vincolo di natura e d’amore che lega figli e parenti. «Vedete,» aggiunse, «ecco i molluschi e le alghe,4 ecco i più cordiali augúri di prosperità per un lungo avvenire. Povera madre! quanto poco immaginava, che questo invece sarebbe il saluto della partenza per i regni d’inferno! Osservate quanto mi scrive a lungo per effetto di tenerezza, essa che ha sempre avuta la più grande avversione per le lettere lunghe, perchè diceva che a scriver troppo le montava il sangue al capo e le dava le vertigini. Ecco le sue parole: «Possa il tuo viaggio esser tanto felice, quanto è grande l’ansietà, con la quale noi t’aspettiamo. Tutta la famiglia avrà presto da celebrare il sessantesimo anniversario della nascita di tuo padre. Dopo questo, ci prepareremo alla festa delle Lanterne,5 e quanta non sarà la nostra consolazione quel giorno, facendo la commemorazione dei morti, poterci a vicenda congratulare di essere tutti in vita!» — Oh no! per la festa delle Lanterne sarò anch’io nel numero delle anime novelle. La tazza, a cui dovevano quel giorno libare in comune i genitori e la figlia, sarà convertita in un’offerta di rugiada scossa dal calici del narciso. Dio mio! qual tormento a pensare quanto sarà il cordoglio de’ miei, quando io nell’ombra del sepolcro riceverò quest’offerta.»

E qui di nuovo leggeva: — «Addio, cara figlia; che giorni felici si preparano a tutti noi!» — «Giorni felici in verità!... Povero padre, povera madre mia!»

Sachicci, vedendo che Comaz prorompeva in un pianto più dirotto e angoscioso, prese in mano la lettera, e continuò a leggere: — «Voglio dirtene qualche cosa di più. Quando tu eri bambina di tre anni, fu fatta una promessa di matrimonio fra te e il figlio del signor Mizuma Ughenda, che ha nome Scimanosche. Questi da lunghissimo tempo caduto in disgrazia del suo signore, ed espulso, oggi finalmente è stato da lui perdonato: ed ora si fanno le più accurate indagini per iscoprire il luogo di sua dimora. Non appena Scimanosche sarà di ritorno, celebreremo questi felici sponsali.» —

Terminato di leggere, Sachicci piegò il capo da un lato in atto di chi cerca qualche cosa nella memoria: «Comaz, voi siete figlia di Cazmura Teidafu! Quando formavate parte della famiglia del principe Abosci Tamontarô, fino all’età di cinque o sei anni, non vi chiamavate voi Ojèn?»

«Senza dubbio,» rispose Comaz; «ma queste cose, come le sapete voi così bene?»






  1. Sul trasparente delle lanterne è scritto a grandi caratteri il nome del proprietario.
  2. La via Lattea.
  3. Veggasi a pag. 93.
  4. Queste alghe e questi molluschi secchi (Haliotis tuberculata) si avvolgono in un foglio colorato, e si attaccano a tutti i doni che i Giapponesi hanno l’uso di farsi in occasione di anniversari e in altre simili congiunture.
  5. Si celebra negli ultimi tre giorni della prima quindicina di agosto.


Note

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