< Uomini e paraventi
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Ryūtei Tanehiko - Uomini e paraventi (1821)
Traduzione dal giapponese di Antelmo Severini (1872)
Capitolo XVII
Capitolo XVI

Capitolo XVII.




Mentre Comaz attonita fissava in volto Sachicci, a un tratto il paravento si mosse, e di dietro da quello si vide apparire Tofei, che dopo un gran sospiro esclamò:

«Alla buon’ora! è un pezzo che aspetto qui dietro! Dianzi mi è sembrato in distanza vedervi alle spalle sull’argine; e, ritornatomi subito, mi sono appiattato dietro questo paravento per osservare come andavan le cose. Qui ho scoperto che eravate venuti nella determinazione di darvi la morte, come unico espediente in questa difficoltà della promessa di matrimonio. Ma a questa vedremo di riparare in qualche altro modo.»

«Non vi date alcun pensiero di ciò,» rispose Sachicci, assumendo un’aria composta e dignitosa. «Per quanto sapessi anch’io che sono inviolabili le promesse fatte di comune accordo fra Samurai anche all’età dell’infanzia, tuttavia non ho mai creduto sul serio che la nostra fine sarebbe stata uguale a quella che si vede negli odierni melodrammi. E non di meno mi sono mostrate propenso a troncare i miei giorni, per avere un’ultima prova della sincerità di Comaz. Or dunque sappiate che quel giovane Scimanosche, di cui parla il patto nuziale, fortunatamente, son io. — Per una malaugurata disputa a proposito di un beccaccino, al quale io lanciai una freccia senza punta, incorsi nella collera del mio signore; ed esule fin da quel giorno, per non servire un secondo padrone, ho tenuta segreta la mia qualità d’uomo d’armi. In questo tempo, sebbene io mi sia dato ad una vita di leggerezze, non ho mai per un momento dimenticato i benefizi ricevuti dal mio principe, l’amorevolezza dei genitori, e il dolce pensiero del paese ove nacqui. Ma se non era questa lettera, chi sa mai quando mi sarebbe sembrato opportuno il momento di ritornare alla casa paterna! e frattanto avrei forse finito di corrompermi nelle mollezze della vita cittadinesca. A voi dunque io devo, o Comaz, se con questo affrettato ritorno mi vien fatto di serbare l’integrità del mio cuore.»

Tanta era la contentezza che infondevano queste parole nell’animo di Comaz, che a lei non pareva di toccar terra.

Anche Tofei tutto allegro prese a raccontare, che mentre in prima sera se ne stava sonnecchiando nella sua barca, in aspettazione di avventori, poco lontano da casa Utacava, un colpo improvviso venne a percuotere la sua lanterna, e la spense. Riscotendosi ed osservando, vide l’involto dei cento riô. Pieno di meraviglia al caso stranissimo, e memore così dell’antica storiella del cane che trovò il tesoro, come della susseguente avventura della scatola in forma di cane, corse a riporre in questa la bella somma trovata, perchè....

A questo punto il discorso di Tofei fu interrotto dall’arrivo di Riusche e di Ofana, che ritornavano stanchi dal lungo cercare. Ragguagliati dell’accaduto, e di nuovo fissata la partenza al giorno seguente, grande fu l’allegrezza di tutti; e i canti stessi del melodramma fecero sentire dalla casa vicina un festivo saluto:

     L’edera s’avviticchi e si dilati,
Senza mai disseccar, di tetto in tetto
Per anni interminati,
E d’un popolo in gioja, al ciel diletto,
Copra le sacre mura,
Casto simbol di fede imperitura.

Dopo l’arrivo degli avventurosi amanti alla casa paterna, genitori e figli, riabbracciandosi, non si potevano saziare di manifestarsi a vicenda la propria contentezza. Grande fu pure la soddisfazione del principe: e ne diede bella testimonianza concedendo larga dote agli sposi, restituendo Mizuma Scimanosche al suo stato, e disponendo che le nozze fossero celebrate con pompa.

Tofei ed Ofana succedettero al già Sachicci nel ben avviato negozio di riso.

E poichè tutti questi figli e parenti si mostrarono pii ed amorosi verso i genitori e i congiunti, ebbero numerosa discendenza di figli e nepoti. E sopra loro si accumularono benedizioni, prosperità ed allegrezze.

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