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DELL’ISTORIA
DI
VERONA
LIBRO PRIMO
La oscurissima e ben sovente imperscrutabile origine delle più antiche città prezioso rende e singolare ogni piccol lume che negli accreditati volumi de’ Latini Scrittori o de’ Greci intorno a così rimote notizie ci sia rimaso. Per quelle del nostro contorno l’unico raggio è da Plinio, principe de’ Geografi Latini; niun altro avendosi che per quanto appartiene all’istoria partitamente e con fondamento di soda autorità n’abbia favellato. Attribuisce egli adunque l’origine di Mantova a’ Toschi, di Brescia a’ Galli Cenomani, di Trento a’ Reti, di Vicenza a’ Veneti, e di Verona agli Euganei ed a’ Reti (1.3, c. 19: Rethorum et Eugancorum Verona). Vano sarebbe lo sperarne miglior traccia altrove; poichè all’autorità di Plinio si unisce quella di Catone Censorio, oracolo delle prische età, che nacque ben dugento vent’anni avanti la venuta del Salvatore, e che in due de’ sette libri Delle Origini, più volte lodate e citate da Cicerone, avea ricercato appunto, come riferisce Cornelio Nepote (in Cat.), donde ogni città d’Italia avesse avuto principio: opera che fu singolarmente commendata dall’insigne storico Dionigi d’Alicarnasso, il quale per le antichità Italiane da Catone sopra tutti altri si pregiò di trarre le cognizioni migliori. In esso pescò Plinio altresì più che in altri, talchè dove di queste nostre parti ragiona, in due pagine ben sei volte nominatamente lo cita. Ma tra gli Autori de’ quali per così fatte notizie nel terzo libro si era valso, nomina egli ancora Cornelio Nepote tra’ primi, il qual parimente per gli studj d’antichità e d’istoria ebbe pochi uguali. Veggasi però se autorità trovar si possa, sia per ragion di tempo, sia di dottrina, da contraporre in tal materia a quella di Catone, e di Nepote e di Plinio; e tanto più ove dell’istoria di Verona si tratti, mentre sappiamo come due di questi primarj lumi delle Latine lettere furono appunto di questo paese nativi. Sopra inconcusso fondamento posando adunque, agli Euganei ed a’ Reti doversi riferire la città nostra, non si vuol lasciar d’avvertire, come sembra però, aver Plinio in tal luogo voluto indicar quelle origini particolari di ciascuna città, delle quali continuata tradizione era rimasa, e delle quali l’ingradimento loro avea forse preso cominciamento; non già quella primitiva ed oscura che secondo il consenso di gravissimi Scrittori a molte delle più antiche città d’Italia fu comune, cioè dagli Etrusci primi, che noi però nel Ragionamento sopra di essi già publicato abbiam chiamati Itali primitivi. Mostrammo in esso assai probabile che costoro da quelle genti procedessero, le quali stettero un tempo nel Canaan; e tal complesso di congetture ci venne fatto di por quivi insieme per convalidar tal sentenza; e fondate su tanta uniformità d’instituti, di costumi, di governo, di lingua, e di nomi d’uomini e di città, che insigni Letterati dotte Dissertazioni in favore e per conferma di tal pensiero si son mossi a scrivere. L’antico grido che fossero venuti di Lidia, nacque da equivoco, per essersi nell’antichissime età confusi talvolta e usati promiscuamente i nomi di Lidia e d’Asia, come da Erodoto (l. 4 e 10) si può raccogliere, ove dice che Asio fu Re di Lidia, e che alla terza parte del mondo diè il nome; e dagli Scoliasti d’Apollonio Rodio, ove dicono (ad lib. 1) che la Lidia si chiamava prima Asia; e da Seneca, che scrisse (ad Helu. c. 6) arrogarsi l’Asia l’origine de’ Toschi; e da Sesto Ruffo, che chiamo la Lidia sede antica de’ Regni, dove chiaramente apparisce che Lidia egli chiamò l’Asia: non competendo ciò certamente alla Lidia particolar regione, come non competeva a’ suoi abitanti l’essere stati i primi a coniar monete, nè l’essere stati i primi a far barche e ad entrar in mare, che da Erodoto e da Isidoro a’ Lidii si attribuì; ma ben competeva a’ Fenicii, e agli altri Cananei. Perciò Dionigi Alicarnasseo trovando che con gli abitanti della region particolare detta poi Lidia non aveano i Toscani relazione alcuna nè per lingua nè per instituti, giudicò falsa la fama dell’esser venuti di Lidia gli Etrusci. Or questa gente in progresso di tempo, ma però assai prima che Roma, secondo il comun grido, si edificasse, occupò l’Italia da un capo all’altro, cioè dall’Alpi allo stretto di Sicilia, di che i nomi dell’uno e l’altro de’ nostri mari, e Dionisio, Livio, Plutarco, Servio ed altri Scrittori fanno testimonianza. Come tra costoro niente men che tra’ Greci fiorissero le bell’arti, e come da essi più che da’ Greci prendesser poscia i Romani gl’instituti loro e la disciplina, abbiam brevemente esposto in detto Ragionamento, e dalle Antichità Etrusche stampate di fresco a Firenze ampiamente si può raccogliere. Quelli che vennero di qua dall’Apennino, occuparono tutta la pianura tra ’l mare e i monti, e tutto il lungo tratto di qua dal Po, come da Livio singolarmente s’impara; e si divisero in dodici tribù o Republiche, come di là dall’Apennino e di là dal Tevere ancora avean fatto. Non essendo improbabile che altrettante città edificassero, non è mancato chi abbia voluto indovinare quali fossero. Tomaso Dempstero ne’ suoi libri dell’Etruria (l. 4, c. 9 e 107) per una di esse assegnò Sarmione nella penisola del nostro lago di Garda: ma i suoi motivi per verità son rìdevoli. Che una di quelle dodici principali fosse Verona, come il Panvinio suppose (Antich. Ver. pag. 14), non si può con sicurezza affermare, benchè il sito lo persuada per più ragioni: ma è bensì tanto più verisimile che tal sito inosservato da costoro non rimanesse, e che a moltiplicare in esso le abitazioni, e per conseguenza a dar principio a questa città, non lasciassero di por mano: poichè il giro e il ripiegar dell’Adige, che braccia il giusto spazio d’una città da tre parti, veniva a costituire un luogo molto agevole ad esser reso sicuro dagl’insulti, e quasi natural fortezza; e il trovarsi appunto ove finalmente ha termine da questa parte il lunghissimo giogo de’ monti, fa participar questo sito e de’ comodi, e dell’ampiezza del piano, e della delizia e del benefizio de’ colli. Egli è noto come i superiori luoghi frequentati furono avanti degl’inferiori, poichè ne’ primi tempi le pianure lontane da’ monti venivano ad esser dall’acque e da’ fiumi non ancor regolati, nè per umana industria contenuti, occupate facilmente e coperte. Concorre a far creder tenuto da quella prima gente questo tratto, l’essersi disotterrato anche nel paese nostro qualche monumento Etrusco, e di quell’antichissime e ignote lettere inciso: parimente l’antica e comune opinione, la qual ben traspira in Catullo, ove per la fama in que’ tempi che di Lidia venuti fossero i Toschi, chiama Lidio il nostro lago, come per l’istessa ragione Lidio da Virgilio (Lidiae lacus undae) e da Stazio si chiamò il Tevere, e Lidia da Rutilio Numaziano si chiamò la Toscana. Aggiungasi che pochi anni sono due iscrizioni si sono scavate, l’una a S. Ambrogio, l’altra poco lontano da Fumane, le quali ci hanno scoperto un nome all’antica Geografia prima ignoto, e ci hanno insegnato come i popoli di quella parte del nostro distretto che or diciamo Valpulicella, si chiamarono a tempo de’ Romani Arusnates (v. Ins. I); nella qual voce par di riconoscere vestigio Etrusco, sapendosi che Aruns fu nome in quella nazione molto usitato (Liv. l. 1); così essendosi detto il fratello di Lucumone e l’un de1 Tarquinii, e narrando Plutarco (in Camil.) che così chiamossi quel Tosco il qual condusse i Galli per vendetta in Italia, quando passarono a Chiusi. Sembra ancora che fosse costume spezialmente Etrusco l’aver Dei locali, cioè particolari e strani, non solamente in ogni gente, ma in ogni luogo: alquanti però ne recita Tertulliano (in Apolog.) affatto ignoti fuor di quel popolo, da cui erano venerati. Apparisce quest’instituto nell’istessa parte del nostro territorio poc’anzi mentovata: poichè abbiamo in una delle suddette iscrizioni la Dea Udisna (v. Ins. II), ed abbiamo in altra pur dagl’istessi colli venuta il Dio Cuslano (v. Ins. III); nè l’un nè l’altro de’ quali da’ Romani o in verun’altra parte si sa che conosciuto fosse; e i quali nomi nè Latini sono, nè Greci, nè di settentrional linguaggio. Non mancherebbe qualche investigazione su questi nomi; ma son cose tanto arbitrarie ed incerte, che non è d’alcun danno il lasciarle. Dicasi il medesimo del nome Ihamna (v. Ins. IV) che abbiamo in lapida trovata nell’alta cima del colle di S. Giorgio, e che pur viene dall’istesso Ottavio Capitone, il quale alla Dea Udisna o simulacro o cappella eresse negli Arusnati. Anche il Dio Cuslano dall’istessa famiglia fu venerato, la quale nel diventar Romani questi paesi, nomi Romani avrà poi assunti. Col nome Ihamna si vede quello di Sqnna1, impronunziabile, perchè non avrà il lapidario con lettere Latine saputo esprimere il suono orientale e straniero. Le antiche iscrizioni che avverrà di citar più volte, e che saranno la maggior parte o non più stampate, o non più riferite con verità ed esattezza, potrà chi legge, vederle a piè dell’ultimo libro per ordine, non essendosi voluto andar con esse rompendo il ragionamento. Delle pietre medesime le più si custodiscono nel nuovo e publico Museo. Non è dunque da credere ch’escluda Plinio (l. 3, c. 16) quella primitiva origine, quand’attribuisce Verona agli Euganei ed a’ Reti; ma che questi nomi adduca, come ritenuti dalla tradizione dopo la mischianza di queste genti, e dopo l’ampliamento per esse a Verona avvenuto; il che non credendosi a Mantova occorso, delle città meramente Toscane quella sola diss’egli esser rimasa a suo tempo. Tal essere il suo sentimento può dedursi dal dir lui che gli antichi sbocchi del Po nella Venezia erano stati lavorati da’ Toschi. Ora degli Euganei scrive Tito Livio (lib. 1), come occupando essi quel tratto di paese ch’è fra ’l seno Adriatico e l’Alpi, ne furono scacciati dagli Heneti, venuti sotto Antenore di Paflagonia, dopo aver perduto a Troia il lor Re. Consta certamente che si ritiraron gli Euganei ne’ monti, e in essi rimasero, come si può raccoglier da Plinio, il quale tra le genti Alpine gli nomina, e spezialmente nelle valli Bresciane. Il dir Plinio altresì (l. 3, c. 20) che fu degli Euganei Verona, mostra che qui ancora una parte di loro si ricoverò, come in luogo non lontano da’ monti, e per benefizio del fiume facile, come accennammo, ad esser difeso. Se Hypsithilla di Catullo era originaria di qui, potrebbe credersi d’Euganea discendenza, essendo nome Greco vezzeggiativo, fatto da Hypsiclea, siccome di Bathycles è diminutivo Bathyllus: significava il primo nome alta gloria, il secondo profonda. Anche il nome del nostro fiume può parer Greco, e credersi venuto dall’esser rapido e sregolato (ἄθεσις ἀθεσία).
Non dissimile fu il motivo che fece di nuovo ampliar Verona dai Reti. Regnando in Roma Tarquinio Prisco, i Galli a tanta moltitudine venuti, che per nodrirgli non bastavano più i lor paesi, cominciarono a valicar l’Alpi. Condotti da Belloveso in gran numero, scacciarono gli antichi abitanti da buona parte della più fertil pianura, e nel paese che si chiamava anche per l'innanzi degl’Insubri, edificaron Milano: tanto si ha da Tito Livio (lib. 5). Poco dopo, seguendo l'istessa traccia, scese novamente dall’Alpi una truppa di Galli Cenomani (Liv. Cenomanorum manus), la quale col favore ed aiuto dell’istesso Belloveso più innanzi trapassando, quel tratto occupò in cui, come Plinio insegna (lib. 3, c. 19: Cremona, Brixia Cenomanorum agro) Cremona e Brescia poi sorsero. Gli Etrusci profughi presero, come gli Euganei, la via de’monti; e perchè in tal ritirata ebbero Reto per duce, la denominazione di Reti ne riportarono (Pl. c. 20: duce Retho). Costoro fabricaron Trento, e molto ampiamente nel tener dell’Alpi poi si diffusero; ma il primo luogo in cui parte di loro per la fortezza del sito cercasse asilo, impariam da Plinio che fu Verona, dove la cognazione de’ più antichi abitatori è credibile gli facesse ricevere di buon grado.
Ora necessario è ragionar de’ Veneti, nome più fortunato di tutti gli altri. In vano per una mera confacenza di vocabolo fu chi gli sospettò derivati dalla Gallia Belgica, e da’ lidi dell’Oceano, per lo che in due maniere se ne parlava, come dice Strabone (lib. 5: διττός ἐστι λόγος); mentre di tale espedizione in tutta l’antichità menzione non si trova alcuna; a si ha da Livio, come stettero su l’Adriatico, quando tutto dominavano i Toschi, per conseguenza avanti ogn’irruzione de’ Galli. Il Geografo (Str. l. 13) della venuta degli Heneti nella Venezia, e presso Adria con Antenore fa menzione altrove. Ch’erano di Troiana origine, scrisse Catone, con che forse dir volle Asiatica (Pl. l. 3, c. 19). Insegna Polibio (l. 2: γλώττῃ,δ´ ἀλλοίᾳ χρώμενοι) ch’ebbero lingua da quella de’ Galli diversa. Il nome d’Heneti è Greco, e viene a dir lodevoli: la pronunzia latina gli fece passare in Veneti, mutazione che in più altre voci è avvenuta (Così da Ἑστία, ἑσπέρα, ἵς, ἤρ, ἐσθὴς, οἶνος, si fece Vesta, vespera, vis, ver, vestis, vinum). Il luogo per altro donde si spiccassero, e il tempo non sono del tutto in chiaro, benchè la più comune sentenza sia quella di Cornelio Nepote riferito da Solino, che venissero di Paflagonia (Sol. c. 45, Orat. de Ilio). Dion Crisostomo disse che prima dell’arrivo d’Antenore erano già in queste parti (Ἐν μάχῃ τῇ κατά Ἀσσυρίους, ec.). Eustazio sopra Dionigi Periegete prima dell’altre opinioni porta quella di Arriano, che venissero in Europa i Veneti per essere stati vinti e cacciati dagli Assirj, e che prendessero ad abitare presso il Po. Sembrami di riconoscer talvolta che il nome d’Euganei da pochi ricordato, e che significa allegri ovvero illustri, fosse sopranome o agli Etrusci o a’ Veneti dato, vuol intendersi a quella parte di essi che al seno Adriatico dimorò. Presso molti antichi Scrittori Euganeo e Veneto osservasi valer lo stesso. Ma parlando il medesimo Livio (lib. 5: excepto Venetorum angulo, ec.) degli Etrusci, dice che di qua dal Po tutto occuparono, eccettuato l’ angolo de’ Veneti che abitavano intorno a quel seno di mare: ma essendo che i Veneti più città o fabricarono o tennero, ed avendo egli detto prima che arrivando scacciaron gli Euganei dal paese ch’è tra l’Alpi e il mare, come potea poi confinargli in sì piccol sito? Potrebbe qui dirsi ancora, che alcun monumento Etrusco si è scavalo qualche volta non molto lungi dalle marine acque, e che Adria esser città Etrusca, ed aver dato all’Adriatico il nome, insegno Plinio (l. 3, c. 16) con più verosimiglianza d’Aurelio Vittore (Vict. in Epit.), il quale dall’Adria del Piceno, e con più verosimiglianza d’Eustazio (in Dion.), il quale denominato da un uomo suppose il Golfo: con che parrebbe, quell’angolo ancora essere stato una volta da Toschi occupato, i quali acquistaron poi forse il Greco sopranome d’Euganei. Ma che che sia di ciò, bastici due punti esser certissimi intorno a’ Veneti; l’uno, che fu antichissima gente, come anche Polibio (lib. 2: πάνυ παλαιόν) chiamolla; l’altro, che alquante città edificò o tenne, come si legge in Plinio (lib. 3, c. 19), tra le quali Padova e Vicenza. L’ordine delle cose susseguito poi ben fa conoscere conm’anche in Verona costoro, o con nome di Veneti, o con nome di Euganei, si annidassero: onde possiam conchiudere col sentimento del nostro celebre Panvinio (Ant. Ver. lib. 1, c. 9) tanto essere in Plinio l’assegnar per autori di Verona Euganei e Reti, quanto se Veneti avesse detto ed Etrusci. Così l’origine di Mantova per autorità di Servio, e da Toschi venne, e da’ Veneti (ad Æn. X: et a Tuscis venit, et a Venetis).
Deesi rintracciar ora con quale di queste due genti Verona si computasse, e nell’antichissimo costume di collegarsi i popoli d’un contorno, e di costituire unitamente Republica, in quale avessero parte i Veronesi. Filippo Cluverio, insigne descrittor dell’Italia antica, tenne che Verona fosse già nella Rezia compresa, e per conseguenza che fosse co’ Reti congiunta. Non è da farsi punto beffe di quest’opinione, per cui militano ragioni non disprezzabili: che una parte del nostro territorio per Rezia si computasse, vedremo altrove. Con tutto ciò, che la città non fece co’ Reti, è indubitato, mentre nulla ebbero a far con Verona i Romani, quando in tempo d’Augusto aggredita fu la Rezia, e in tempo di Tiberio presso i monti di Trento sconfitta. All’incontro con la prossima Venezia aver da immemorabil tempo fatto corpo Verona, tutte le memorie e tutte le congetture dimostrano. Però quando i Romani la Venezia ottennero, Verona ottennero ancora. Molto desiderabil sarebbe adunque per la Storia nostra di poter dare de’ Veneti, e del governo e delle cose loro ne’ più antichi tempi, contezza: ma non c’è stato così cortese il tempo, di lasciarcene arrivar memorie, o Scrittori. Leggesi in Polibio (lib. 2) che molto n’avean parlato i Poeti tragici, e che gran cose n’aveano dette: da che possiamo arguire come famosa gente era cotesta, e nelle prische età grandemente considerata. Erodoto, il qual ne fece menzione per occasion di certo costume che avea comune co’ Babilonesi intorno al maritar le fanciulle, par che la stimasse popolo Illirico (lib. 1: Ἰλλυριῶν Ἐνετούς). Trovasi come gli antichi Veneti grandemente si dilettavano di tener razze di cavalli, onde veniva addotto questo contrasegno per giudicargli discesi dagli Heneti di Paflagonia, ne’ quali simil cura indicò Omero (Il. Β.). Famosi eran però in ogni parte i lor poledri, talché Dionigi tiranno di Sicilia, che tanto si compiacque de’ giuochi equestri e del corso delle quadrighe, dalla Venezia gli traeva, e per tutta la Grecia ne durò gran tempo il pregio e la stima (Strab. lib. 5). Ch’erano eccellenti, disse anche Esichio, e gli chiamò portanticorona (στεφανοφόρους) tra gli altri. L’amor de’ cavalli, e insieme l’Asiatica o Greca origine par si riconoscano altresì dagli onori che i Veneti aveano in uso di fare a Diomede, cui sagrificavano un destrier bianco, e dal racconto delle brave giumente marcate d’un lupo, che non lasciavano uscir del paese. Tutte queste notizie ritraggonsi da Strabone (lib. 5), il qual però replicatamente aggiunse che a suo tempo questo studio era del tutto mancato tra’ Veneti: ma che si rimettesse ben tosto, fa ch’io sospetti, l’osservar denominata poi Veneta in Roma una delle quattro fazioni del Circo. D’un bravo auriga della fazion Veneta iscrizione abbiamo disotterrata a Roma poco tempo fa (v. Ins. V). So che si denominarono dal colore, e che Venetus significava color di mare: ma questo significato non fu naturale a tal voce, nè le fu dato da’ Scrittori della prima età; onde pare potersi credere che dall’abito e dagli ornamenti di tal colore, usati nelle corse del Circo dagli aurighi e da’ cavalli Veneti, fosse trasportato il nome al color medesimo. Comunque fosse, continua a’ nostri giorni in queste parti con molto onore e con molto frutto l'istessa cura. Ma qual città fosse nella Venezia in quell’oscure ed inaccessibili età la principale, possibile non è di rilevare in alcun modo. Ove il Poeta nominò Ocno, che dal Mincio e dal Benaco andò con armata in favor d’Enea, disse che Mantova era capo di dodici popoli in tre genti divisi (lib. 10: ipsa caput populis); il che parrebbe doversi intendere degli Etrusci di qua dall’Apennino: ma Servio intese forse de’ Veneti, poichè da questo luogo par ch'ei prendesse motivo d’asserire che tutta la Venezia ad Enea diede aiuto (ad Æn. 7: omnis Venetia Æneae praestat auxilium). Comunque sia però, tutto questo finse Virgilio in grazia della patria sua. Fanucio Campano, autore di opera non divulgata, un passo ha replicatamente addotto, ed approvato dal Dempstero (tom. I, p. 112; tom. 2, p. 193), in cui si asserisce, gli Euganei essere stato nobilissimo popolo originato dagli Etrusci, e che di essi Metropoli fu Verona. Ma per verità nè gli Autori che quivi si citano, dicon tal cosa, nè fondamento saprei pensare per comprovar tal prerogativa. Forse non una sola, ma più città principali ebbero i Veneti, come dodici abbiam veduto che n’ebber gli Etrusci: e se pure in una vollero costituire quasi il centro della lor Republica e delle assemblee loro, non Verona, ch’era all’estremità, ma più tosto Padova par da credere avessero eletta, ch’era nel mezzo del lor paese, e però a tutte le parti più comoda.
Con quanto si è fin qui detto, le origini di questa città sembrano sviluppate in modo, e sopra autorità incontrastabile fondamentate sì stabilmente, che soverchio dovesse credersi il far più di questo argomento parole. Ma errori già da gran tempo invalsi hanno talmente travolti gli animi e occupate le fantasie, che in mille libri non Etrusca o Retica, nè Euganea o Veneta, ma Cenomana si prèdica e si asserisce Verona, ed a’ Cenomani francamente tutto il paese si assegna. Nostro peso adunque sarà lo sgombrar pienamente sì fatto inganno, e più cose non poco all’istoria ed all’erudizione importanti con tal occasione mettere in chiaro. Prima scorta di quanto siam per dire sarà il più lodato fra gli Storici; quegli di cui non si troverà forse il più saggio, nè il più veridico; che fu il primario fonte di Tito Livio, e che non solamente con lo studio, ma con lunghissimi viaggi assicurar si volle, per quanto fu possibile, di quanto scrisse. Ognuno intende già di Polibio, il quale ove dà conto di queste parti d’Italia, dopo aver narrato come tennero tutta la pianura gli Etrusci, e come commerziando con essi i Galli per la vicinanza, adocchiata la bellezza del paese, gli assalirono d’improviso con grand’esercito, e dai paesi circostanti al Po gli scacciarono, adunque, dice, ne’ primi piani dalla parte orientale del Po si posero i Lebecii; dopo questi gl’Insubri, ch’è il popolo più grande tra i Gallici; di là da questi appresso il fiume i Cenomani; ma i paesi che conseguono fino al mare Adriatico furon occupati da un’altra antichissima gente chiamata Veneti (lib. 2: παρὰ τὰν ποταμὰν Κενομάνοι). Qual più chiara pruova che non si allontanassero dagl’Insubri nè dal Po i Cenomani? ma come anche da Plinio fu scritto, di quel tratto s’impossessassero, ove Cremona e Brescia poi furono? Di quella si fecero autori molto tempo dopo i Romani; ma che questa edificata vi fosse da’ Galli 2, il nome Brix palesa, allungato poi nel latinizzarsi; veggendosi in Cesare e in altri Scrittori come il terminare in rix era famigliare a’ nomi Gallici. Qual pruova parimente fu più manifesta, che Verona insieme con tutti gli altri luoghi infino al mare dell’antica Venezia fosse? Mantova altresì fu Etrusca e Veneta, come Verona, nè mai Cenomana: però nella Venezia posta la disse Servio (ad Æn. lib. 10), e Veneta la chiamò Sidonio Apollinare (l. 9, ep. 15), e Veneto fu detto Virgilio da colui presso Macrobio (l. 5, c. 2). I Cenomani nè pure tutto il Bresciano occuparono, mentre tanta parte di quell’insigne territorio si formò poi dalle valli, nelle quali essi non poser piede. Insegnano Strabone (lib. 4) e Plinio (l. 3, c. 20) che que’ popoli montani parte Euganei erano d’origine, e parte Reti: e così forza è che fosse, mentre ne’ monti si ridussero e si fecero forti gl’Itali antichi dalle pianure scacciati. Quindi è, che quando i Romani sottomisero i Cenomani, non toccarono punto le prossime parti montuose, ch’erano d’altro popolo e d’altro corpo, e rimasero però nel primiero stato, e solamente dugent’anni dopo assalite furono e conquistate. Or come dunque saranno arrivati fino a Verona i Cenomani, mentre nè pure nelle contigue e floride valli, e in tutto il distretto ch’ora è Bresciano, si stesero? E come può essere che tenessero Verona ed altre città, mentre Galli Bresciani gli chiama Livio (lib. 21: Brixianorum Gallorum)? Accorda Plinio perfettamente, ove par che faccia intendere quel de’ Cenomani non esser già stato un Imperio, come ora c’è chi lo chiama, ma un territorio (lib. 3, c. 19: Cenomanorum agro).
Strano parrà tutto questo a chi dell’ampio dominio e delle molte città de’ Cenomani per tanti libri va impresso: ma per fermo tengasi, tutti coloro che così hanno scritto o creduto, sopra le espedizioni di que’ tempi e sopra la più remota antichità poca considerazione aver fatta. Quanti gran nomi si ristettero già in poco sito! Per testimonio dell’Alicarnasseo (lib. 1), Enea e i Troiani in un colle ottenuto dagli Aborigini si allogarono per quaranta stadii di terreno all’intorno: fu un tratto di settecento iugeri, cioè campi, per autorità di Catone citato da Servio. In quanto spazio erano Marsi, Vestini, Marrucini, Peligni, Equi, Sabini, Gabii, Arunci, Osci, Volsci, quasi tutti nell’Istoria rinomati per guerre? Li più di questi o ebbero una sola città, o veramente niuna, essendo Comunanze da più terre o borghi composte. De’ Romani quanto parlano le Storie ne’ primi tre secoli? e pure correa già il quarto, ch’aspra guerra aveano ancora co’ Vej, la cui città era a venti miglia da Roma, come presso Livio (lib. 5) rimproverava Appio Claudio. Ma parliam de’ Galli. Otto genti Galliche annovera Polibio, allogate nell’istesso tempo in quel piano ch’ora è Lombardia e parte di Piemonte; e pure n’era occupata una porzione da’ Liguri, e dichiara lo Storico (lib. 2) come quelle otto erano le principali, onde più altre minori ve n’erano: veggasi da ciò se ninna di esse occupar potea gran paese. Osserviamo la maggior di tutte, cioè gl’Insubri (Pol. ὀ μέγιστον αὐτῶν). Como appare che non fu di essi, poiché Marcello degl’Insubri e de’ Comaschi trionfò come di due genti (Liv. l. 33); Bergamo insegna Plinio che fu degli Orobii; Novara fu da Catone detta de’ Liguri, da Plinio de’ Vertacomari; Ticino da genti Ligustiche fu edificato secondo Plinio, e che da esse fosse tenuto, conferma Livio (lib. 5); la Storia Miscella (lib. 4) l’attribuisce a’ Boj: ecco però com’altra città non ebbero gl’Insubri che Milano da loro edificato. Or come dunque i soli Cenomani dovean distinguersi talmente da tutti gli altri Galli con occupar più città e tanto paese, quando ad essi appunto ciò competea molto meno, perchè non vennero in molta turba, non essendo passato in Italia il popol tutto, ma conservato sempre il nome e la nazion loro oltra l’Alpi? Venne una partita, come da Tito Livio (lib. 5: Cenomanorum manus) s’impara, cui sortì d’annidarsi col favore di Belloveso e degl’Insubri. Nè bisogna immaginarsi che venissero quelle genti allora a cercar dominio, ma pane, che lor mancava per la moltitudine ne’ lor paesi, cioè terreno da coltivar per nodrirsi, contente però, quando n’aveano a sufficienza occupato. Insegna Strabone (lib. 5), li tre più considerabili tra’ popoli Gallici cisalpini essere stati Insubri, Boj e Senoni: a tempo suo le genti considerabili in tutta questa parte d’Italia erano Veneti, Insubri e Liguri. De’ Cenomani infatti, come di piccol popolo, dopo il dominio Romano si sperse e si smarrì anche il nome. Tacito, che tanto parla del lor paese nella guerra di Vitellio, tal nome non usò mai. Non così quel degl’Insubri, che continuò sempre, nominando la region loro Appiano (Liv. l. 5) in tempo de’ Triumviri, Tacito (Ann. lib. 11) in tempo di Claudio, e dell’avo di Didio Giuliano dicendo Sparziano ch’era Insubro Milanese.
Che Brescia e Verona da nazioni diverse tenute già fossero, e quella da Galli, questa da Veneti, altra grandissima pruova ne dà tuttora il linguaggio dell’una e l’altra, e la somma diversità di pronunzia e di troncamenti, e le contrarietà d’accenti e di suoni, e il ritenere i Bresciani ancora non so qual Gallicismo, uniformandosi co’ dialetti di Bergamo e d’altri Lombardi: dove i Veronesi hanno la favella ed il suono istesso di Vicenza e di Padova, che n’è sì alieno. Questo per verità è un testimonio sensibile e ancor presente; certa cosa essendo che i nostri odierni dialetti non altronde si formarono, che dal diverso modo di pronunziare negli antichi tempi, e di parlar popolarmente il Latino; la qual diversità non altronde nasceva, che dal genio delle varie lingue che avanti la Latina correvano, vestigio delle quali restò pur sempre, ed è quasi indelebile. Però disse Livio (lib. 37) che Marsiglia colonia de’ Focesi ne riteneva ancora dopo tanti secoli l’accento nella favella, e che i Reti Alpini, trasformati a suo tempo interamente per l’orridezza dei luoghi, ne ritenevano però ancora nella lingua il suono (lib. 5: nequid ex antiquo praeter sonum linguae, ec.). Osservò anche Platone (de Legg. lib. 4: γένος ὁμόφωνον) come le colonie son gente unilingue. Come potrebbe dunque essere avvenuto che se fosse Verona colonia de’ Galli, niun vestigio ritenesse de’ dialetti e de’ suoni a’ discendenti da Galli rimasi, ma alla favella della parte di qua verso il mare, qual era di lingua certamente diversa, poichè lo dice espressamente Polibio (lib. 2) fosse in tutto uniforme? Indizio di tal diversità traspira anche dai nomi rimastici nelle lapide; perchè trovansi nelle Bresciane Vescassoni, Endubronis, Biveioni, Madiconis, Bersimes, e altri tali, che sembrano ricordare non so che di Gallico, e nei marmi di qua non s’incontrano. Pochi anni sono due lapide si scavarono in Peschiera con nomi gentilizii non più veduti, che sembrano aver dello straniero nell’origine; Publio Virucate, Massimo, e Marco Conceneto Marcellino (v. Ins. VI e VII): ma benchè il luogo guardi i Cenomani, per esser nel distretto nostro, lontani dal potersi creder Gallici son que’ nomi. Coloro che soglion maravigliarsi, come venendo da Firenze, e trapassato appena l’Apennino, dialetti trovinsi così stranamente differenti, e dopo tanto intervallo favella s’oda a Verona tanto men tronca e men dalla Toscana diversa, ne avranno forse nella ricerca di queste origini la ragion prima e radicale. Addurrem noi un altro indizio ancora della diversità di queste nazioni, e del limite di esse? l’addurremo; ma con espressa protesta, che niun pregiudizio s’intenda inferir con questo alla gloria degli studj e dell’arti, di cui Brescia e l’altre Galliche città possono con ragione vantarsi, niente influendo ai posteriori tempi la prima e rimotissima origine. Adottata da queste nostre regioni per virtù del dominio o sia del consorzio Romano la lingua Latina, a tempo di Vespasiano sei Scrittori contava già Verona, de’ quali vive ancora la memoria e la fama: Brescia niuno n’ebbe sino alla fine del quarto secolo Cristiano. Presso al termine de’ Veronesi, e verso il tener de’ Bresciani fiorirono Catullo e Virgilio, che nato sul Mantovano al confin Veronese mostreremo ove degli Scrittori: sembra però di riconoscere che in altra gente si andasse, passando dal Veronese al Bresciano. Se due sole città de’ Veneti noi prendiamo a considerare, Verona e Padova, nel giro di poche età più Scrittori ebbero eccellenti e primarii. Insegna Polibio (lib. 2: οὔτ´ ἐπιστήμης ἄλλης, οὔτε τέχνης, ec.) come i Galli, quando passarono in Italia, nè di scienza nè d’arte alcuna cognizione aveano, fuor dell’agricoltura e della guerra3 . Vedesi poco dopo nell’istesso Autore, come nè pur sapeano dar la tempera alle spade; per lo che come gli uomini erano da temer solamente nel primo impeto, così le spade non servivano che al primo colpo. Notò Servio proprietà degli antichi Galli essere stata l’ingegno tardo, come degli Africani la finzione, e de’ Greci la leggerezza (ad Æn. 6: Afros versipelles, Graecos leves, Gallos pigrioris videmus ingenii).
Ma se nulla fosse tutto il complesso d’autorità e di fatti, con cui abbiam posto questo punto in tanta chiarezza, non se ne potrebbe con tutto ciò dubitare per nissun modo, poichè per rara sorte abbiam nell’Istoria il preciso termine ed il confine che nell’antiche età separava i Cenomani da’ Veronesi. Così bella particolarità ci è rimasa espressamente in Polibio; e non cadde certamente tal passo sotto gli occhi di coloro che della region de’ Cenomani parlarono sì erroneamente, imperciocchè da esso ogni dubbietà si sgombra, ed ogni sofisticheria si recide. Vi s’impara adunque, come confin de’ Cenomani dalla parte del Veronese era quel fiume che scendendo dalla Val Sabia va a metter capo nell’Olio, e in volgar Bresciano si nomina Chiès, per lo che da’ Greci e da’ Latini è da credere fosse detto Clesio, benchè in tutte le stampe si legga Clusio, avendo il volgare fatto Chiesio da Clesius, come chiaro da clarus. Di Flaminio e Furio Consoli nel 531 di Roma, scrive quel grand’Autore, per esattezza e fedeltà incomparabile e quasi contemporaneo, come nella guerra co’ Galli, levato il campo dal Po presso al luogo ove sbocca l’Adda, dopo aver girato, e condotta qua e là per più giorni l’armata, finalmente passando il fiume Clesio, vennero nel paese de’ Cenomani, e da’ luoghi vicini a’ monti si portarono di nuovo negl’Insubri (lib. 2: διέλθοντες τὸν Κλούσιον ποταμὸν ἦλθον εἰς τὴν τῶν Κενομάνων χώραν). Si entrava dunque ne’ Cenomani passando il Chiesio, fiume che scorre a dieci miglia da Brescia; e com’ampio ha il letto, così era assai più ricco d’acque, avanti che per benefizio di quel paese ne venisse derivato il Naviglio. Chiunque dopo autorità così venerabile e così precisa volesse disputare in contrario ancora, pare a noi non meriterebbe nè osservazion nè risposta. Non dobbiamo lasciar d’aggiugnere una bella conferma di questo fatto, ed un infallibil riscontro che n’abbiam tuttora dinanzi agli occhi. La più certa e quasi unica scorta per rintracciare l’antica estensione dei territorj, noi troviamo essere l’osservazion delle Diocesi; posciachè la civil giurisdizione a perpetue mutazioni fu sottoposta, o per guerre fra popoli e fra Principi, o per contratti, o per varj accidenti: ma non così l’Ecclesiastiche, quali persistean sempre, e con tutte le variazioni della podestà secolare religiosamente si mantenevano; ond’è che veggiam sì spesso diversi essere i confini della giurisdizion de’ Vescovi e della temporale. Or la Diocesi Veronese arriva appunto anco al bel giorno d’oggi perfino al Chiesio. Notisi inoltre come anche nel civile le due nobili castella di Desenzano e Lonato, che sono i maggior luoghi tra ’l Chiesio e ’l Mincio, furono di giurisdizion Veronese fino agli ultimi prossimi secoli, come con autentici documenti si farà vedere a suo luogo. Ecco però dimostrato evidentemente che dal Chiesio si separavano il Veronese e ’l Bresciano, e che de’ Cenomani era il Bresciano, ma non il Veronese, mentre non si entrava nel paese loro, se non col valicar detto fiume. Non vi è dunque cosa in tutta l’antichità più manifesta dell’essersi contenuti i Cenomani in quella pianura ch’è tra i monti e ’l Po, e tra ’l Chiesio e l’Adda.
Non poca difficoltà ho osservato svegliarsi in molti, nel sentire i Cenomani ristretti in un territorio solo, per raccogliersi dall’Istoria che Republica erano molto forte, e da non temer facilmente insulti, e che ad ogni occasione alcun numero di soldati avea tosto in armi. Ma questo nasce dalle idee moderne, secondo le quali bisogna misurar le forze d’uno Stato dall’estensione: perchè mancata l’arte d’interessar tutti, con che ogni piccolo Stato diventa grande, non si acquista forza che con vastità di dominio, e con profusione di quanto è in esso. Non può negarsi che dove in quegli antichi governi non fossero stati con qualche sorte di comunanza e di participazione vincolati tutti i cuori, non solamente in così angusta condizione, ma avrebber potuto anche con assai più ricchezza esser poveri, e con assai maggiori forze esser deboli. Non può negarsi che dove il frutto de’ pericoli e la capacità del beneficio non si fosse conosciuta comune, ma determinata al maggior luogo, perpetuo rischio sarebbe rimaso dalla maggior forza, e in grandissimo numero d’uomini non si sarebber trovati soldati, e in urgente occasione si sarebbe convenuto cercar mercenarii di fuori, con disperdimento infinito, tardi, freddi, poco utili e mal affetti. Ma poichè allora considerava ognuno come affar proprio tutto ciò che avveniva allo Stato, in qualunque caso tanti eran tosto i soldati, quanti eran gli uomini: ed essendo dapertutto ugual la premura, in tutti i borghi, de’ quali solean comporsi le Republiche de’ Galli, ognun prendea l’armi. In questo modo facil cosa a ciascheduna era il mettere tosto in armi un corpo di gente considerabil per numero, ma molto più per valore; correndo tra que’ soldati e i moderni generalmente quella differenza che suol correre tra chi opera per interesse proprio, e chi per altrui. Così tra Germani abbiam da Tacito (de Mor. Ger.), come nelle terre tutte ciascheduno che dal Publico fosse giudicato non inetto all’armi, arrivato a giusta età, le assumeva solennemente. Nè si creda che così i Barbari solamente. Non sappiam noi che a Dario, a Serse e a tutta l’Asia fecero fronte, anzi fiaccaron le corna Republiche Greche di piccol tratto e d’angusti confini? Ne scemerà la maraviglia, s’altri prenderà ad esaminare il sistema loro. Atene avea in poco giro quantità di città minori, o più tosto di terre: da queste, chiamate Popoli (Δῆμοι), non meno che dalla stessa Atene si traevano con la dovuta proporzione coloro che componean le tredici Tribù, da ciascheduna delle quali si contribuiva un numero di soggetti di tempo in tempo al governo. Tanto si raccoglie da molti e gravi Scrittori Greci, de’ nomi de’ quali non accade ora far pompa. Quindi è che nelle antiche lapide Ateniesi veggiam professarsi il popolo, come nelle Romane la Tribù si appone. Nascea da questo, che non chi era nato in essa solamente, ma stimando ugualmente ognuno sua patria Atene, giunti all’età di dieciott’anni si legavano col militar giuramento, la di cui formula si ha in Polluce (lib. 8, c. 9), ed avean tutti egualmente a cuore la sua gloria e la sua difesa. Qual maraviglia però s’anche i Cenomani, non meno degli altri Galli, in poco differente sistema corpi fossero così forti e così terribili, benché piccol tratto di paese occupassero?
Ora egli è forza di far conoscere l’insussistenza di que’ molivi per cui l’error s’introdusse di creder Verona Cenomana. Primo fonte di tanto inganno fu il leggersi in un elegia di Catullo, dopo nominata Brescia, questo distico:
Flavus quam molli percurrit flumine Mello,
Brixia Veronae mater amata meae.
Ma questo distico nel libretto intitolato Dell’antica condizion di Verona fu già mostrato da noi adulterino ed intruso. Grave scandalo è paruto questo a molti: ma e’ si converrà pur loro soffrirlo in pace, perchè le ragioni son troppo manifeste, e fattasi poi diligenza ne’ manoscritti, quali, ne’ venti giorni in cui quel libretto fu steso, non permise il tempo di ricercare, due se ne son già trovati, che que’ due versi non hanno. Convien prima di tutto sgombrar l’orrore che genera in molti il sentir cacciare a brutto onore due interi versi. Questo non dee recar maraviglia alcuna in un poeta che c’è arrivato così lacero e così mal concio, e nel quale alquanti altri interi versi sappiam di certo, e si confessa da tutti, che moderni Eruditi si fecero lecito d’inserire, benchè come di Catullo tuttavia si leggano. Corrotti esemplari di questo poeta nomina Gellio (lib. 7, c. 20 ) fin ne’ tempi antichi. Alcuni de’ componimenti che nelle stampe abbiamo e ne’ codici, sono enigmi ridicoli. L’ultima strofa dell’ode presa da Saffo va affatto fuor di proposito, e niente ha che far col Greco conservatoci da Longino; onde o fu aggiunta essa ancora, benchè con molta eleganza, da qualche moderno, o apparteneva ad altr’ode, o manca molto in mezzo. Vien lodato il Pontano dal Sannazaro, perchè avesse supplito Catullo sì bene, che quel gran poeta dovesse anteporre a proprj i versi di lui (lib. I: Mallet et hos numeros quam meminisse suos). Nell’istessa elegia, di cui si tratta, il duodecimo verso è già conosciuto per intruso da tutti, e per fabricato dall’ingegno de’ correttori, come disse Giuseppe Scaligero4, onde tanto variamente vien letto; perchè dunque dovrà parer sì strano ch’or si scuopra l’istesso in due altri? Anzi per essere quell’elegia così imbrogliata e scomposta e lacera, alcuni copiatori la tralasciaron del tutto: non apparisce però nè punto nè poco ne’ tre Catulli Vaticani, che sembrano i migliori, e un de’ quali fu di Fulvio Orsino. Decisione di questo punto non ci può dare nissun de’ Mss. finora noti, perchè son tutti di poca età, e i più vecchi non paiono oltrepassar di molto la metà del decimoquinto secolo. Furon però fatti disperdere que’ primi esemplari, da’ quali in quel tempo fu trascritto e moltiplicato Catullo. Tra’ primi che s’accingessero a emendar quest’autore, fu il Calfurnio letterato Bresciano di molta vaglia, che un’edizion ne fece in Vicenza l’anno 14815; ma era già molto vecchio, e potea molto prima averci posto mano. Dice Gerolamo Avanzo nelle Emendazioni stampate l’anno 1494, che avanti i racconciamenti del Calfurnio non si potea senza nausea prendere in mano Catullo.
Ma consideriam brevemente il tenor dei versi. Come potea il dotto Catullo dar qui per indubitata e trita la fondazion di Verona da’ Cenomani, che ripugnava espressamente a Polibio, a Catone, a Cornelio Nepote, e a quella universal tradizione che possiam riconoscere in Plinio? Come potea contradire a se stesso sì espressamente, dove chiamando Lidio il nostro lago, sta per l’origine Etrusca? come potea così saggio poeta metter due versi che ci stanno a pigione e fuor d’ogni proposito? Non sono essi una continuazione del concetto ne’ precedenti espresso, o una di quelle parentesi che tutto giorno cadono ne’ discorsi, come sono gli esempi che per coonestargli vengono addotti, ma interrompono il favellare con cose che niuna legatura hanno col soggetto, nè col ragionamento che si fa: il che tanto più disdice in un dialogo, dove non vi è la libertà in ciò degli altri componimenti, ma si convien rispondere a proposito dell’istanza dal compagno fatta. Parla qui l’uscio d’un’impudica donna, e narrando le di lei sceleraggini, dee dir così: or non sol questo professa Brescia di sapere, e d’avere osservato dall’alto del suo colle; ma racconta ancora gli adulterj con Postumio e Cornelio da costei comessi. Ma secondo che ci vien ora fatto leggere in Catullo, l’uscio parla in questo modo: or non sol questo professa Brescia di sapere, e d’aver osservato dall’alto del suo colle; per la qual Brescia scorre il giallo Melone con placido corso, Brescia ch’è amata madre della mia Verona; ma racconta ancora gli adulterj con Postumio e Cornelio da costei commessi. Giudichi ogni lettor discreto, se inserimento possa vedersi più importunamente situato. Ma se la porta che parla, era in Brescia, secondo che mostra sicuramente il contesto, come potea dire della mia Verona? Questa sola osservazione mette il fatto abbastanza in chiaro. Che se altri la volesse in Verona, come dunque sa qual acqua passi per Brescia, e in qual modo vi scorra, e con qual colore? Che sapesse le faccende della sua padrona, va bene; ma il saper le particolarità minute e locali d’altre città, che non si sanno se non da chi vi fu, senza improprietà grande non le si poteva attribuire. Potrebbe aggiugnersi ancora, che chiunque abbia delicato orecchio, e vi faccia singolare avvertenza, conoscerà non aver suono, nè aria Catulliana que’ versi: il modo e la distanza di quella ripetizione la rendono troppo diversa dalle leggiadrissime di Catullo6; poco acconciamente si congiunge il passar del Melone coll’esser madre di Verona; poca grazia hanno quelle parole, mater amata Veronae; poco propriamente e poco latinamente ancora dicesi, flumen molle; il qual parlare non credo si trovi in Autore antico, e tanto meno d’un torrente. Il fiume Arari, di lento corso, fu detto lenis da Cesare, segnis da Plinio, ma da niuno mollis. Plinio usò una volta molle in modo che non si vede in altri, cioè sostantivamente per molle di pane, come i Veronesi usano ancora per ciò che i Toscani dicon midolla (lib. 13, c. 12: molli fermentati panis: non mollia); ma non per questo disse egli mai molle il corso d’un’acqua. Or che più? lo stesso nome dell’acqua è moderno ed erroneamente posto. Il fiume che scorre a un miglio da Brescia, fu detto Mela e non Mello da Virgilio, e da’ suoi scoliasti Servio e Filargiro. Il nome poi del piccol rivo che passa per Brescia, e del quale parla il distico, fu Cartia7, come mostrammo già con lo Statuto di Brescia, e con più carte del 1100 e anteriori, da noi vedute in originale. Prima del 1400 il nome di Mello non si vede. Dopo intruso quel verso in Catullo, si cominciò a dire Cartiam, alias Melonem, come parla il Capriolo del torrente 8; e per adattar quel nome alla Mela, che scorre fuori, fu chi volle emendare il percurrit in praecurrit, come fa il dottissimo Cellario ancora, quasi praecurrit potesse mai avere il significato di praefluit e di praeterfliut; ma tutto per verità vanamente, essendo già accordato anche per l’indizio del color dell’acqua, che dee intendersi non di quella che praefluit, ma di quella che passa per la città, il cui nome in Latino fu sempre Cartia, e in volgare Garza, com’è tuttora. Ridicolo in verità è però quel distico per tutti i conti; e pendiamo ora a non crederlo nè del Calfurnio, nè d’altro Bresciano, ma di persona che poca notizia avesse dell’acque di Brescia, e de’ nomi loro. Finalmente molto è notabile l’essersi già osservati due testi a penna senza quel distico: l’uno in Padova nella Biblioteca Capitolare, che non l’ha in nissun modo; l’altro in Verona, cioè il 329, del Museo Saibante, che par venuto da buon originale, e che l’ha solamente aggiunto sotto d’altro inchiostro e per altra mano. Ognun vede valer più in questo caso un codice che non abbia, di cento che abbiano, perchè non si tratta d’una o due parole che potessero credersi sfuggite involontariamente a’ copisti, ma di due interi versi. Dover vuole che si renda qui giustizia al nostro dotto Avversario in tal controversia, poichè da lui è venuta la prima notizia di detti codici, quella candidezza avendo in ciò fatto conoscere, che da’ veri Letterati non va mai disgiunta. Nè punto è nuovo ch’altri per uno o per altro fine si sia preso gusto di cacciar qualche verso ne’ Poeti: il segnar gli spurii fu però appunto inspezion principale degli antichissimi Critici; onde essendo stata in Cicerone rimessa una controversia simile sopra alcuni versi, io, diss’egli, quasi antico Critico giudicar debbo, se sien del Poeta, o vero mal inseriti (Fam. l. 9, ep. 10: Ego tamquam Criticus antiquus judicaturus sum utrum sint τοῦ ποιητοῦ an παρεμβεβλημένοι). Per fine, poichè si pugnava al presente con un verso di Catullo per mostrar Verona de’ Cenomani, come si pugnò già con un verso d’Omero per provar Salamina dell’Attica, leggiadra cosa è come l’istesso appunto sia ora in questo caso avvenuto, ch’allora avvenne; cioè che tal verso per intruso e falso siasi finalmente scoperto. Strabone asserì (lib. 9) che non si ammettea quel verso da’ Critici [benchè pur anco si legga nel Poeta] per contener sentimento ripugnante alla verità, e per esser contrario ad altri luoghi d’Omero stesso: o Pisistrato o Solone se ne imputavano secondo lui; secondo Plutarco e Laerzio si attribuiva la fraude a Solone.
Altro motivo di creder Verona de’ Cenomani, fu il leggersi nelle stampe di Tito Livio (lib. 5: ubi nunc Brixia ac Verona urbes sunt) ch’essi ristettero e si allogarono ove a tempo di quell’Autore eran le città di Brescia e di Verona. Ma egli è certissimo che chiunque alle autorità sopraddotte vorrà por mente, e sopra le cose da noi finora esposte farà considerazione, vedrà più chiaro del mezzogiorno che in vece di Brixia ac Verona va letto Brixia ac Cremona. Non ci fu mai emendazion più infallibile, nè più manifesta9. Che Cremona nel tener de’ Cenomani fosse poi da’ Romani eretta, Polibio, Plinio, Livio stesso e tant’altri insegnano, ed è a tutti noto: or perchè dunque mai sarebbe stata da Livio taciuta? le avrebbe nominate tutte e tre. Ma c’insegna questo passo, come occuparono un tratto di paese, ove allora città non erano, e poi ne sorsero, non tre o molte, com’altri decanta, ma due: non occuparon dunque il sito di Verona, la qual già c’era, e nella quale però i lor nimici Reti si ricovrarono da essi fuggendo, e non occuparono se non quel di Cremona e di Brescia. La miglior via per accertar della lezion vera di qualche Autore, si è d’osservare i fonti dond’egli attinse: noi sappiam che Livio da nissun altro più che da Polibio prese e trascrisse: insegnò Polibio che i Cenomani si posero di là dal Chiesio e lungo il Po: come dunque avrà Livio assegnato loro il sito di Verona in vece di quel di Cremona? Altra via per iscoprire la lezion sana d’antico Scrittore si è quella di riscontrarlo co’ posteriori che da esso presero. Plinio per compilare il suo terzo libro, di Livio singolarmente si valse, recitandolo tra primi; afferma in questo libro (Plin. lib. 1, ove del terzo libro ex. auctoribus Turanio, Nepote, Livio, Catone, ec.) che nel tener de’ Cenomani erano Brescia e Cremona; è dunque patentissimo ch’egli non avea letto in Livio Brescia e Verona. Finalmente per assicurarsi del vero in sì fatti casi, bisogna esaminare il contesto e gli altri luoghi dell’Autore medesimo. Or se Livio avesse qui scritto Verona, avrebbe contradetto a se stesso, ove dichiara che i Cenomani avanti il dominio de’ Romani non avean che Vici, con Brescia che di essi era capo (lib. 32: Vicos Cenomanorum, Brixiamque, quae caput gentis erat); e si sarebbe contradetto in questo stesso periodo, poiché dice in esso, che dove si arrestarono i Cenomani, erano stati i Libui; parrebbe doversi legger Levi, gente Ligure: nè Libui, nè Levi stetterò in in questa parte mai, ma bensì di là e presso il Po. È dunque indubitato ch’error de’ trascrittori e non dell’Istorico è in questo luogo Verona; e chi volesse persistere in attribuirlo a lui, indiscretezza gli userebbe ch’ei non usò con altri, quando trovando numeri e somma inverisimile ne’ libri di Valerio Anziate, disse voler più tosto credere error nel copista, che bugia nell’Autore (lib. 38: malim equidem librarii mendum, quam mendacium Scriptoris). Coloro che vinti dalle ragioni, per impegno non pertanto ripugnar vogliono, millanteranno qui i manuscritti, e il non aver noi tratta quest’emendazione da nissun codice. Ma qual bisogno v’e mai di codici, dove tant’evidenza, risplenda? Non per autorità d’esemplari gli antichi Critici rigettavano quel verso d’Omero in proposito di Salamina, ma perchè contenea sentimento falso e ripugnante ad altri luoghi del Poeta medesimo. A mal partito sarebber le buone lettere, se non si potessero emendar mai gli Autori antichi, se non per manuscritti. Leggesi in tutte le stampe e ne’ testi a penna di Tolomeo, ch’era ne’ Cenomani Budrio, luogo cui Strabone e la Tavola Peutingeriana mettono a sei miglia da Ravenna. Non potrem noi senza manuscritti dir che va letto Bedriaco, ch’era su l’Olio e nel cuor de’ Cenomani? In tutte le stampe di Strabone tra le città Venete e in Greco e in Latino si legge Ordia, Epiterpo, Ucetia (lib. 5), e tra le genti Galliche si trovano Isombri e Sumbrii: non ci sarà lecito senza appoggio di manuscritti di emendare in Concordia, Opitergio, cioè Oderzo, Vicetia cioè Vicenza, ed Insubri? La Novella undecima di Giustiniano parla a lungo della città di Firmo, dove ognun sa che doveasi scriver Sirmio. In Aurelio Vittore, benchè dato fuori con tanto merito dal P. Scotto, leggesi che fu vinto Ottone Veronensi praelio: senz’altro ricercar codici, chi potrà negare doversi legger Cremonensi? poichè sappiam da Dione che quel fatto d’armi seguì presso Cremona, e sappiam da Tacito che seguì a Bedriaco, il qual luogo poco lungi essere stato da Cremona insegna Plutarco. Leggesi in Zosimo (lib. 5: καὶ ἐπὶ ταύτῃ κρεμώνᾳ) che Alarico marchiando in fretta a Roma con l’armata, parte d’Aquileia, e per indirizzarsi verso il Bolognese ed a Rimini, passa a Concordia, indi in Altino, e dopo Altino a Cremona. Che salto è cotesto? e qual via per Rimini? chi non vede doversi legger Verona? dove si passava l’Adige, indi il Po ad Ostiglia, prendendo sì alto per isfuggire le molte e grosse fiumane che sarebbe convenuto valicate tenendo più vicino al mare. Altre simili emendazioni accaderanno nel decorso di quest’Istoria, per le quali agio non abbiamo avuto di consultar manuscritti; ma son sì necessarie e patenti, che la ragione supera in esse ogni autorità. E qual maraviglia che scorresse un così fatto errore ne’ testi di Livio? Non sappiam noi dal Sigonio quanto deformi ei ne trovasse i manuscritti e le stampe, quando prese a emendarlo, singolarmente ne’ nomi delle città e de’ luoghi (v. Epist. nuncnp.)? Il periodo appunto, del qual si tratta, non sappiam noi che scorretto e guasto fu riconosciuto da tutti i Critici, e però in più maniere fu trasformato? Non sappiain noi ancora, che molti codici vi leggono Germanorum10 in vece di Cenomanorum? Ma qual errore videsi mai più facile, che tra Verona e Cremona, dove, se riguardiam l’uso del dettare, il suono è così uniforme e vicino; se quello del ricopiare, la diversità non è che di due lettere? oltre agli accennati luoghi di Zosimo e di Vittore, o in documenti o in moderni libri c’è occorso d’avvertire scambiato ben sei volte tra questi due nomi.
Passiam dunque a quell’autorità che in favor di quest’errore con alquanto più di verità sembra addursi, cioè di Tolomeo, il quale nella sua Geografia e Cremona e Verona mette tra Cenomani. Ma qual peso può aver mai qui Tolomeo, di cui avvertì l’Olstenio (ad Cluv. p. 17) uso esser solenne nella descrizion del mondo d’imbrogliare ogni cosa, e del quale ben si sa come di queste parti da lui tanto rimote confusissima notizia ebbe? Anche Bergamo e Mantova e perfin Trento pose ne’ Cenomani quell’Autore; ma chi potrà mai addurlo con riputazione, ove de’ Cenomani si tratti, dopo che Cluverio e Cellario, uomini da non rammentare in questa materia senza somma lode, e de’ quali può dirsi che all’antica Geografia sagrificassero la lor vita, hanno espressamente e concordemente insegnato ch’ei diede a’ Cenomani ciò ch’è degli Euganei, de’ Reti, de’ Levi e de’ Boj, e ch’ove tratta di questo parti confonde tutto (Cell. l. 2, c.9: Cenomanis tribuit quae sunt Euganeorum, Rhaetorum, ec.)? Scusabile in così vasto assunto fu forse uno Scrittore Egiziano di molti sbagli; ma scusabile non ci parrebbe chi volesse anteporre la sua autorità a quella di Plinio; ove dell’istoria e della situazion di Verona si tratti, siccome bizzarro converrebbe dire chi anteponesse quella di Plinio alla sua, ove d’Alessandria o di Pelusio fosse quistione. Noi per altro abbiam per certissimo che non di Tolomeo, ma de’ trascrittori, e de’ confusi e trasposti esemplari molti e molti sian degli errori che nella sua Geografia si veggono. Chi potrebbe attribuire a un tant’uomo tutte le pazzie che nell’istessa pagina, ove mette tra Cenomani Verona, si osservano? Vi si legge che il Po ha suo principio presso il lago di Como; che la Dora del Piemonte l’ha presso il lago Penino, e che piega verso quel di Garda. Dopo le foci del Po si pongono quelle dell’Atriano; col qual nuovo nome se s’intende il Tartaro che passava per Adria, mal vien dimenticato l’Adige, fiume tanto maggiore; e se s’intende l’Adige, erroneamente gli si dà tal denominazione. Si registran quivi tra le mediterranee de’ Carni Aquileia e Concordia, e de’ Veneti Altino ed Adria, città che quasi bagnavano il piè nel mare. Dopo Cenomani a occidente della Venezia si pongono i Becuni, inaudito nome, del quale non si è mai trovato riscontro alcuno: o Camuni si dovea scrivere, o Breuni, che restavano a occidente della Venezia; e tanto più se con fondamento è stato detto che nel sito ove ora è Cividale, fosse già Vannia, insieme con altri tre luoghi a cotesti Becuni da Tolomeo assegnata. Per Sarraca, che quivi susseguita, fu intesa la Sarca dal Cellario; ma quelli son nomi di terre, e non di fiumi: per gli altri due luoghi, seguendo il vestigio delle voci, volle il medesimo intender villaggi, che sarebbero a settentrione della Venezia, non verso sera. Bizzarro ancora fu il porre in uguaglianza con popoli, a ognun de’ quali più famose città si danno, questi Becuni, cui non si assegnano che quattro borghi. Ma in somma da così bella pagina è tratta l’autorità con cui si pretende di trasfigurar l’istoria tutta per quanto spetta alla dilatazion de’ Cenomani.
Non resta più che Giustino, Scrittore del secol basso, il quale ci lasciò un Compendio della voluminosa Istoria di Trogo, autore di Gallica origine, che del regno di Macedonia principalmente trattato avea, toccando però quasi a modo di Storia universale anche dell’altre genti. Noi abbiam poco fa accennate le prime invasioni de’ Galli. Leggesi in Tito Livio (lib. 5: recentissimi advenarum) come andaron susseguendo Salvii, Boj, Lingoni, e ultimi di tutti i Senoni, che si avanzarono lungo il mare fin presso Ancona, ed osaron poi di passar l’Apennino e d’assediar Chiusi, dugent’anni dopo, come insegna lo Storico, dalla calata degl’Insubri e de’ Cenomani. Quinci passaron costoro, comandati da Brenno (Liv. Brennus regulus Gallorum), anche ad assalire ed a prender Roma, fuorchè il campidoglio donde scacciati, fecero lega con Dionigi Re di Sicilia, ch’era allora con esercito nella Magna Grecia. Ora nel far menzione di quest’avvenimento, Giustino (lib. 20) tre versi aggiunse, che mischiano insieme i fatti di dugent’anni, e impastando insieme la prima calata de’ Galli, quella di Belloveso, l’altra di Elitovio e l’ultima di Brenno, attribuiscono a’ Senoni ciò che avean fatto gl’Insubri ed i Cenomani, e di più anche i Veneti e i Reti; poichè narrata la legazione a Dionigi di coloro che avean poco prima incendiata Roma, da que’ Galli (IIS autem Gallis) disse essere state edificate Milano, Como, Brescia, Bergamo, Verona, Trento e Vicenza. Fatale oltre ogni credere all’Istoria di queste nostre città fu quel passo; poichè essendo Giustino autor più degli altri alle mani ne’ bassi tempi, ed anche nel primo rinascere de’ buoni studj, ed essendo non so come entrato a tutti maravigliosamente in grazia il nome di Brenno, e Storici e Poeti non altro risonarono per dugent’anni. Ci fu chi perfin ne trasse Verona essersi avanti chiamata Brennona. Così di Brescia il primo de’ suoi Storici, cioè Giacopo Malvezzi, asserì che fu edificata da’ Galli Senoni e dal Re Brenno (Rer. Ital. tom. 14: Galli Senones Brixianam civitatem formaverunt, nam Rex Brennus, ec.). Per far creder costoro che tutt’altra strada tennero, venuti a queste parti, si accoppiò un errore in Livio, simile appunto al poc’anzi avvertito; poichè dov’egli senza dubbio scrisse che tennero i Senoni usque ad Aesim, le stampe anteriori alle emendazioni del Sigonio e del Panvinio portarono usque ad Athesim. Ora per salvar Giustino, si vorrebbe interpretare ch’ei parlasse quivi de’ Galli in genere, e non de’ Senoni, nè di Brenno; ma non così fu inteso mai, come l’opinione per tanto tempo invalsa ben dimostra, e non così suonano le sue parole (iis autem, ec.). Fors’egli, come facilmente a’ compendiatori avviene, nel voler ridurre in poche parole il discorso del suo Autore, senso e sembianza mutar gli fece. Fors’anche Trogo in favor della sua nazione avea cercato d’amplificare le fondazion de’ Galli. Ma comunque sia, qual considerazione meritar può mai un passo di falsità sì ripieno, e nel quale contra l’autorità degli Scrittori tutti, e contra il manifesto ordine delle cose, si attribuisce a’ Galli anche la fondazione di Trento? Non si troverà che i primi Galli passati in Italia si allogassero se non nelle pianure; sì perchè cercavan terreni ricchi di grano per la lor moltitudine, e sì perchè ne’ paesi montuosi faceansi forti i popoli da loro assaliti e scacciati. Non che a Trento però, dove si convien ire per lungo tratto tra le fauci e tra le angustie de’ monti, ma nè pure a Verona anche senz’altre pruove sarebbe da credere si portassero i Galli, per esser essa alle falde de’ monti, e per aver innanzi ampio tratto di paese aspro, incolto e sassoso. Tanto adunque plausibil fu questa asserzion di Giustino (lib. 32), quanto l’altra sua, che coloro i quali perseguitavano gli Argonauti venissero a fermarsi presso Aquileia, che solamente nel sesto secolo di Roma fu edificata11. Potrebbe per altro sospettarsi forse che Verona, Trento e Vicenza non fossero nel testo di Giustino anticamente, ma per note marginali vi siano poi state intruse; poichè dove Paolo Diacono ( lib. 2, c. 23) riferisce [e pare da Giustino] gli stessi fatti, edificate da’ Galli non altre dice che Milano, Ticino, Bergamo e Brescia. Nè dee tacersi come non mancarono in Italia anche nell’età meno illuminante acuti ingegni che il vero e ’l falso discerner sapessero. Tristano Calco, per cagion d’esempio, nel primo libro della sua Storia Milanese, e si rise delle finte Origini di Catone che pur allora eran date fuori, e dell’attribuire tante fondazioni a Brenno, contra ciò che si può imparar da Polibio e da Tito Livio: rese egli però le città a’ suoi veri autori, e tra queste Brescia a’ Cenomani, agli Euganei Verona.
Non lascerem per ultimo di ricordare, come non pochi anche furono cui Verona parve nome Gallico. È assai che a costoro nome Gallico non paresse anche Roma, che poco se n’allontana. Ma Cortona ebbe pure il nome dagli antichi Toscani, Ancona l’ebbe da’ Greci, Cremona l’ebbe da’ Romani: e acciocchè di quest’ultima non si dubiti, per asserirla anche il Cluverio di nome Celtico, veggasi espressamente in Polibio (lib. 3, c. 40), come quando i Romani collocarono contra i Galli le due Colonie, l’una di esse nominaron Piacenza, l’altra Cremona. Più città di tal desinenza furon nelle Spagne. Non occorre in ciò perder tempo; come nè pure in osservar gli sbagli nati dal venire il nome di Verona variamente scritto negli Autori Greci. Stefano, o il suo compendiatore registrò Veruno città d’Italia ne’ Norici (Οὐέρων· Βήρων· Βερόνη· Βηροῦνος·). Se intese di Verona, equivocò nel sito; se di Viruno città Norica al Dravo, non potea dirsi Italiana. Anche una Verona in Francia vien introdotta per alcuni da una legge di Valentiniano, al tempo della quale data di città d’Italia pare che non competa (Gotof. ad l. 9 de Veter.); ma sarà forse qualche stroppiamento di nome, come nell’istesso Codice di Remis più d’una volta si è fatto Romae. Così la Verona nominata da Paolo Diacono nell’Apennino è scorrezione in luogo di Vetona, cui la Tavola Peutingeriana mette tra Perugia e Todi: Vettonenses, Plinio (lib. 3, c. 14). Trapasseremo Vera, città della Media nominata da Strabone: il Vescovo Verronese in Africa, nominato tra Donatisti nella Collazion Cartaginese (Conc. Ven. t. 3, p. 229); ed altre sì fatte osservazioni, che per verità non servono a nulla: ed aggiungeremo solamente ancora, come motivo di sospettar Verona Gallica avrebbe bensì potuto prestare una lapida votiva al Dio Bergimo, che Fabretti e Torre dissero in Verona (Fabr. pag. 656: v. Ins. VIII); posciachè dal nome pare che tal Deità per venuta 111 Italia co’ Celti si manifesti. Berg o perg in lingua Germanica, che anche da ciò si può arguire non diversa dalla Celtica o Gallica, vuol dir monte; onde Pergamo o Bergamo, pel solito scambiamento di pronunzia, così forse fu detto per esser città montana: ma quella lapida stette sempre e sta pur ora nel castel di Brescia, dove da noi dopo lunghe ricerche fu rinvenuta. Tanto omai basti per mettere in chiaro le origini, e per fermar senza replica con le autorità incontrastabili di Polibio, di Livio e di Plinio, che racchiude anche quella di Catone e di Nepote, e insieme col sicuro complesso delle cose e riscontro de’ fatti, come Verona fu Etrusca e Veneta, e come i Cenomani a Verona non venner mai, ma di là dal Chiesio si tennero. Ci siamo alquanto diffusi su questo punto, sì per l’utilità generale di così falle ricerche, e sì perchè un’Istoria che vacilla nelle origini, è come una fabrica che pecca nel fondamento.
- ↑ Ma il Galler fu piuttosto sospettare di Gallicismo
- ↑ Mostrammo in qualche luogo che Galli e Germani era l‘istesso.
- ↑ V. Diodoro lib. 5, ove de’ Galli ne parla diversamente. — V. Baillet t. 1, p. 158, sopra tutti.
- ↑ Non vedo più questo passo in Scaligero.
- ↑ In quell’edizione c’è Calphurnii Carmen. Fu buon poeta.
- ↑ Chi ha più inteso: Athesis percurrit Veronam Flumine?
- ↑ Nell’Archivio di S. Giorgio in Braida, carta del 1364: a meridie Gartia. Altra del 1169: prope pontem Garzae.
- ↑ Hic quidem lene semper, flavus, non autem ille.
- ↑ Liv. Epit. lib. 20: Coloniae deductae in agro de Gallis capto, Placentia et Cremona; e non avrebbe chiamati i Cenomani Galli Bresciani.
- ↑ I Retici tutti.
- ↑ Paolo Diacono non ha Verona, nè Vicenza, nè Trento.