Questo testo è completo. |
◄ | Parte prima - Libro terzo | Parte prima - Libro quinto | ► |
DELL’ISTORIA
DI
VERONA
LIBRO QUARTO
Pochi anni corsero dalla vittoria Cimbrica alla guerra Soziale, detta anche Italica e Marsica. Essendosi da questa fatto strada a' Veronesi, come a tutte le città dentro l’Alpi, per crescer di condizione nella gerarchia, per dir così, dell’Imperio, e di tal guerra e di sì fatte varie condizioni presso i Romani necessario è alcuna cosa accennare. Ammirabile ed unica fin da principio fu l’idea Romana, perchè nel vincere e soggiogare gli avversarj popoli, senza lasciarsi portare da piacer di vendetta o da spirito d’ambizione, null’altro ebbero in mente che di considerare il benefizio che la Republica potea ritrarre, e il crescer di forze, e la sicurezza che conseguir potea dal fargli di nemici amici, e d’estranei congiunti. Principiò Romolo, secondo avverte Dionigi (lib. 2) a far Romani anche i presi in guerra, e ad ammettere in consorzio le città vinte. De1 Volsci, degli Equi e d’altri notò Cicerone (Off. lib. 1) com’erano stali ricevuti in Roma e tra cittadini; e de’ Sabini disse Servio, fu decretato si facesse di essi e de’ Romani un sol popolo (ad Aen. 7); altri ammisero alla Republica in varj modi, e parteciparono ad altri quando più quando meno le Romane prerogative e i diritti. In primo luogo adunque comunicarono a que’ popoli da lor vinti, che bisogno n’ebbero o che così bramarono, le leggi al privato essere di ciascheduno spettanti; talchè intorno allo stato degli uomini, alla patria podestà, a’ matrimonj, a’ testamenti, alle successioni, al dominio nelle facoltà, alle eredità ed a’ contratti, fosse l’istesso il gius degli uni e degli altri. E perchè alcuni le proprie aveano, e più dell’istessa cittadinanza Romana le aveano care, come da un passo di Cicerone (pro Balb.) singolarmente apparisce, a cotesti di viversi con esse liberamente si permetteva. Alcuni paesi furono esenti dalle imposte: d’alcun popolo o città furono aggregati gli uomini al grado di cittadini Romani, ma senza gius di suffragio: anche il suffragio fu conceduto ad altri, ma dipendente dalla volontà de’ Consoli, e quasi per grazia, non per legge. Città vi furono e popoli che l’ottennero assolutamente, e con podestà d’intervenire a’ Comizj e dar volo: finalmente anche della capacità de’supremi onori, che vuol dire di tutto l'esser Romano, a più genti fu fatto dono. Ricordava però Terenzio Varrone (ap. Liv. lib. 33) a’ popoli della Campagna, come i Romani aveano già lor concedute le proprie leggi e la colleganza, e a gran parte di essi la cittadinanza ancora; e rappresentava Valerio Levino agli Etoli, come uso Romano era di talmente trattare i Sozii, che alcuni n’avean ricevuti nel proprio corpo, e ad altri tal condizione avean data, che amavan più d’esser Sozii che cittadini (lib. 26: ut Socii esse quam cives mallent). Si de’ avvertire che molte volte le città, piccole o grandi che si fossero, non seguivano lo stato delle regioni loro o delle provincie, ma proprio grado aveano e distinto. Alcune portavan nome di confederate o di libere, ch’erano di condizione poco diversa. V’erano i Municipj, che godeano, qual più, qual meno, il benefizio della cittadinanza Romana, ritenendo le proprie leggi; e ν’eran le Colonie, che viveano con le leggi Romane, e di condizione erano Romana o Latina, secondo che cittadini Romani o Latini fossero stati in esse condotti.
Siccome però questi varj stati non meno per meriti particolari de’ popoli, che secondo il luogo e la prossimità de’ paesi si andarono propagando; così le più generali denominazioni ne sorsero di gius Italico, di gius Latino e di cittadinanza Romana; ciascuna delle quali condizioni più parti o sia gradi ebbe. I popoli che si estendevano dal Lazio al fiume Esi, e scacciati i Senoni fino al Rubicone, godevano generalmente del gius Italico; non di quello solamente ch’ebbe poi tal nome, e consisteva in esenzione da testatico e da campatico, ma di quello ch’era annesso all’esser d’Italia, e consisteva principalmente in non aver Preside alcuno. Fulvio Flacco nel suo Consolato, o perche stimasse atto di giustizia l’avanzar di grado chi tanto contribuiva e col danaro e con la gente alla grandezza di Roma, o perchè avesse in animo d’acquistar voti per le leggi Agrarie che insieme con Caio Gracco meditava, propose di fargli tutti cittadini Romani (Ap. Civ. lib. 1): ma ucciso l’uno e l’altro ne’ tumulti perciò seguiti, trent’anni appresso Livio Druso tribuno della plebe, uomo di rettissime intenzioni, promise agl’Italiani di nuovamente promuover tal legge; ma prima di poterlo fare restò assassinato miseramente: per lo che irritati i popoli, e invaghiti della promessa Republica, si sollevarono, e ne seguì quella orribil guerra che in poco più di tre anni due Consoli, e se crediamo a Patercolo (l. 2), trecento mila Italiani che avean prese l’armi in varie parti, rapì e distrusse. Bolliva essa fieramente ancora, quando con legge detta Giulia dal console Lucio Giulio Cesare, che nell’anno 664 la promulgò, fu comunicata la cittadinanza Romana a tutti que’ popoli che in tanta procella si erano mantenuti fedeli a Roma; con che tutto il Lazio e buona parte dell’Etruria la conseguì: e dalla parte di là arrivò tale indulto fino ad Eraclea sul golfo di Taranto, come da un passo di Cicerone per Balbo si può ritrarre. Nè terminò tal guerra, che seguita l’aggressione di Cinna, e principiati già i moti di Mario e Silla (App. Civ. lib. 1), tutti i paesi che secondo l’ordine del politico si diceano Italia, della cittadinanza onorati furono dal Senato, a riserva de’ Lucani e de’ Sanniti, cui fu differita, per essere stati gli ultimi a depor l’armi (Gell. lib. 4, c. 4). Secondo l’uso anche qui si andò per gradi: si diede prima la cittadinanza senza voto; si concedette poi questo ancora nel Consolato di Papirio Carbone, poichè degl’Italici debbon senza dubbio intendersi quelle parole dell’Epitome Liviana (80 e 84), che fu dato il suffragio a’ nuovi cittadini; e a questo secondo non debbon riferirsi quelle di Cicerone nell’ottava Filippica, che del suffragio de’ nuovi cittadini contesero Ottavio e Cinna: perciò Silla poco dopo, per avergli favorevoli, si strinse con patto speciale di non rivocar mai la cittadinanza, nè il gius di suffragio poco avanti lor conceduto (Epit. 86). La participazione della Republica a’ popoli fino al Rubicone fece strada per l’istesso grado prima a’ situati fra il Rubicone e il Po, dipoi anche a quelli di qua dal Po e fino all’Alpi. Strabone (lib. 5: τοῖς Ἰταλιώταις τὴν ἰσοπολιτείαν): da che i Romani participarono agl’Itali la cittadinanza, fu preso di comunicare l’istesso onore anche a’ Galli cisalpini ed a’ Veneti, e di chiamargli tutti Italiani e Romani. Ma prima ci fu conferito il gius Latino. Credibil cosa è che nel portar fino al Rubicone la cittadinanza, si estendesse fino al Po il gius del Lazio: quinci è che poco dopo dell’istesso onorati fummo anche noi Traspadani, come chiamavano i Romani quelli ch’erano di qua dal Po. Il modo con cui questa condizione ci venne conferita, fu con esser molte di queste dichiarate Colonie Latine, e ciò per opera di Pompeo Strabone padre di Pompeo Magno, mentr’era in queste parti Proconsole, dopo essere stato Console nel 665. Essendo questi morto per fulmine due anni dopo, e durante ancora il suo Proconsolato, ne risulta che tal grado si conseguisse da noi nel fin della guerra Soziale. Asconio Pediano, cui siam debitori di questa bella notizia, insegna, come Pompeo eresse le città traspadane in Colonie, non col mandarvi abitanti nuovi, ma rimanendo i vecchi, col dar loro il gius del Lazio (in Pisonian. sed veteribus incolis manentibus, jus dedit Latii). Questo è ciò che a proposito d’alcuni popoli di Spagna chiama Dione (lib. 43: ἀποίκοις τῶν Ῥωμαίων νομίζεσθαι) esser considerati o qualificati Coloni Romani. Non si fece adunque come anticamente ne’ paesi conquistati era in uso, ma in modo che senza dimezzare i suoi terreni a veruno, queste città n’ebbero l’onore e l’utile, ma non l’aggravio o ’l danno; venendo solamente, come in proposito delle Colonie disse Patercolo, amplificato il nome Romano con la comunicazione del gius (lib. I: auctum Romanorum nomen communione juris). Spiega l’istesso Asconio in che principalmente consistesse la condizion Latina delle città, dicendo che chiunque in quelle sostenuti avesse i primi ufizj, conseguiva la cittadinanza Romana: ufizj in genere dice Appiano ancora (Civ. lib. I); Strabone (lib. 4) specifica Edilità e Questura. Or quali fossero precisamente le città che diventarono allora Colonie Latine, nè Autore, nè monumento abbiamo, da cui ricavar si possa: ma che una di esse fosse Verona, si ha per buona sorte dall’autor del Panegirico a Costantino (cap. 8: ut quam coloniam Gn. Pompejus aliquando deduxerat, ec.); il quale parlando dell’assedio sostenuto da’ Veronesi, incidentemente ricorda, come questa città era già sttla da Pompeo Strabono fatta Colonia. Intorno dunque all'anno di Roma 666 Colonia Latina diventò Verona.
Non molto si stette, ottenuto il gius del Lazio, a conseguire anche la cittadinanza Romana, e con voto. I popoli rispetto a Roma cispadani appare che già l’avessero nel 690, dicendo Cicerone in lettera di tal anno scritta, che parea potesse molto ne’ suffragi la Gallia (ad Attic. lib. I, ep, I ). Quindi è che le Colonie nostre traspadane trattarono ben tosto di fare istanza anch’esse per l’istesso grado, come si raccoglie da Svetonio (Caes. c. 8): e però nacque il dissidio, di cui fa menzion Dione (lib. 37), fra i due Censori, sentendo l’uno che dovesse darsi loro la Republica, e l’altro no. E credibile che ciò dovesse ancora trattarsi in que’ Comizj de’ Traspadani, de’ quali scrisse Celio a Cicerone (Fam. lib. 8, ep. I) essersi sparsa voce nel 703. Ma in somma alla nostra città e ad altre di qua dal Po questo nobil dono fu anche impreziosito dalla gran mano di chi cel porse, perchè fu quella di Cesare nell’anno 705, essendo stata questa una delle sue prime disposizioni giunto a Roma con l’esercito, nel prender possesso del supremo arbitrio delle cose. Dione (lib. 41: ὑπὲρ τὸν Ἠριδανὸν οἰκοῦσι τὴν πολιτείαν ec.): a’ Galli che son dentro l’Alpi, ed abitano oltra il Po, conferì la cittadinanza, come quello che era stato lor Preside: ma non questo veramente ne fu il motivo, che per tal conto l’avrebbe data anche a’ galli transalpini: ma bensì e per la convenienza dove si trattava di popoli di qua dall’Alpi. e per la scambievole particolar benevolenza che fu sempre tra Cesare e Traspadani. Si era egli, fin nel primo inalzare a maggior cose i pensieri, portato in queste città (Svet. Caes. cap. 8), animandole per suoi fini ad insistere nel dimandar la cittadinanza. Scrisse Tullio (Fam. lib. 16, ep. 11) a Tirone, occupato già Rimini da Cesare, ch’egli avea nimiche e contrarie la transalpina Gallia e la cisalpina, trattine solamente i Traspadani. Nella susseguita guerra civile azion disperata si vede d’una nave d’Opitergini, città della Venezia, transpadani ausiliarj di Cesare, come il Compendio Liviano (Epit. 110) gli appella. Se si dee credere a Labieno, che fu del contrario partito, i soldati co’ quali ei vinse la gran battaglia contra Pompeo, furono delle Colonie traspadane la maggior parte (ap. Caes. lib. 3: pleraeque sunt ex Coloniis transpadanis).
Che la cittadinanza di Verona e dell’altre città fosse con voto, ne fa fede indubitata l’assegnazione lor fatta della Tribù che ci apparisce nelle antiche lapide. Il fondo dell’autorità Romana consisteva nella convocazion generale di tutto il popolo, ch’avea il nome di Comizj. Questa facea leggi, eleggea cariche, decretava guerra, e giudicava i delitti contra lo Stato. Or siccome il popolo di Roma e del suo distretto fu prima diviso da Romolo in tre parti, dette però tribù; così nella generale adunanza in altrettante per minor confusione si distribuiva. Cresciuto il popolo, andò altresì crescendo il numero delle tribù, talchè nell’anno 513 arrivarono a trentacinque, o da famiglie denominate, o da luoghi. In altrettante parti, e quasi compagnie, si distingueva il popolo ne’ Comizj: chiunque conseguiva la cittadinanza con suffragio, ad una di queste veniva ascritto, e così quando alcuna città era assunta a tal grado, acciocchè i cittadini di essa trovandosi in Roma, non vagamente, ma nella tribù assegnata si riducessero per dar voto. Il maggior numero de’ voti in ciascheduna tribù componea l’assenso o ’l dissenso di quella, o restava decretato ciò che a maggior numero di tribù fosse piaciuto. Quinci è, che quando con la legge Giulia restò conferita alla maggior parte d’Italia la cittadinanza, considerando che la grandissima quantità de’ nuovi cittadini distribuita nelle vecchie tribù avrebbe prevalso ai vecchi, si formarono di essi tribù nuove al dir d’Appiano (Civ. lib. 1); e secondo Patercolo (lib. 2) si misero tutti in otto delle vecchie: con che se ben erano in maggior numero, non poteano però formare che pochi voli, tanto maggiore essendo il numero dell’altre tribù. Di che accortisi i nuovi cittadini, altre turbolenze insorsero, e però dopo alcun tempo furono indifferentemente distribuiti anch’essi per le tribù tutte. A qual di esse le città fossero ascritte, unicamente s’impara dall’antiche iscrizioni; poichè uso essendo che ne’ publici monumenti chi era cittadino Romano professasse per onore tal grado, con dichiarare la sua tribù, veggiam nelle lapide come Aquileia, per cagion d’esempio, fu della Velina, Concordia della Claudia, Altino della Scapzia, Padova della Fabia, Este della Romilia, Vicenza della Menenia, Trento della Papiria, Mantova della Sabatina, e Verona della Pobilia, o Popilia, o Publilia, o Publicia, o Poblicia, dalla famosa gente, che in tutti questi modi si trova scritto. Osservando noi che d’ordinario alle città d’ogni regione tribù diverse assegnaronsi, incliniamo a crederlo politico artifizio, affinchè non potessero mai unendosi prevalere e formare il voto d’una tribù. Molte ricerche potrebbero qui intraprendersi: per qual ragione veggasi nelle lapide altri dell’istessa condizione professar la tribù, ed altri no: fino a che tempo il nome e l’uso delle tribù sussistesse: se il gius d’intervenir ne’ Comizj fosse di tutti gli uomini, o d’un per casa solamente: se si accomunasse anche alle terre e villaggi, participandone i territoriali delle città: se potessero le città aggregate conferire la loro cittadinanza, poichè con ciò venivano a conferire anche la Romana: ma queste e più altre investigazioni, che non caddero ancora nell’animo a’ dotti, troppo dall’Istoria nostra ci devierebbero.
Nell’uso continuato di ammettere alla Republica spicca la differenza dell’instituto Romano dal Greco; imperocchè gli Ateniesi ancora ammisero da principio in comunanza coloro che nell’Attica ripararono da varie parti, talchè per la gran moltitudine fu lor forza di mandar nell’Ionia Colonie, come si ha da Tucidide: ma avverte lo Scoliaste in quell’Istorico, che così non fecero poi più in avvenire. Però Dionigi Alicarnasseo lodò in questo assai più la liberalità de’ Romani, che la parsimonia de’ Greci. In fatti quinci fu che gli Ateniesi non signoreggiaron mai che una piccola parte di Grecia, dove i Romani l’Italia tutta, e dopo l’Italia tant’altro mondo. Lodando Cicerone i Padovani dell’aver contra Antonio somministrato ai duci Romani denaro, soldati ed armi, dice di essi e degli altri lor prossimi, non esser maraviglia che fosser fedeli, dopo che si era lor participata la Republica, quando tali erano stati anche per l’avanti (Phil 12: minime mirum est, communicata cum his Republica fideles esse, ec.). Di quanto benefizio riuscisse a Roma l’aver vincolati in tal modo questi paesi nostri, l’Imperador Claudio presso Tacito fece con queste parole gran tempo dopo testimonianza in Senato: quando furono ricevuti a cittadinanza i Traspadani, allora fu stabile la quiete interna, ed allora contra gli esterni, fiorimmo (Ann. lib. 11: Tunc, ec., floruimus, cum Transpadani in Civitatem recepti). La fece altresì Cicerone per tutta la Gallia cisalpina, quando confessò esser essa il fior d’Italia, e dell’Imperio del popolo Romano l’ornamento e il sostegno. (Phil. 3: ille flos Italiae, illud firmamentum Imperii populi Romani, illud ornamentum, ec.). E da ciò veramente ben si raccoglie che l’idea di Roma d’ampliar se stessa con la comunicazion di se stessa, fu il maggior segreto che la politica inventasse mai. Ecco in virtù di questo quella Gallia, che per tante età fu il terrore e il pericolo del popolo Romano, divenuta l’ornamento suo ed il sostegno. Ben però disse altrove l’istesso Tullio (pro Balb.): quello che principalmente fondò l’Imperio nostro, e il nome del popolo Romano amplificò, fu senza dubbio alcuno l’avere il fondator primo di questa città, Romolo, insegnato nell’accordo co’ Sabini, doversi questa città accrescere anche col riceverci dentro i nemici: per la cui autorità ed esempio non si è intermesso mai da’ nostri Maggiori di comunicare e di donar la cittadinanza. Altri in oggi per la mutazion delle idee si crederebbe che ne fossero venuti a perdere i Romani nativi col darsi a tanti il lor grado; quando all’incontro tornava tutto questo in esaltazion loro: mentre la sedia dal Romano Imperio fu sempre Roma, il nome del dominio sempre Romano, il fondo della Republica sempre i Romani naturali; onde tanto era farsi molti compagni , e per conseguenza interessar molti nella difesa e nella gloria della Romana Republica, quanto un moltiplicar gl’istrumenti di lor grandezza.
Che se con tutto ciò corruppesi poi anche quel governo, e cadde finalmente l’Imperio a terra, non così bella e sana idea, nè il savio ed ammirabile instituto ne furono in colpa, ma bensì il modo che nell’eseguirlo si tenne. Conciosiachè ottimo fosse bensì l’aggregare alla cittadinanza le città in corpo, non essendovi altro modo di vincolar tutti, ma non già lodevole, l’ammetter per questo tutti gli uomini di quelle città ai Comizj, vale a dire in Consiglio a Roma. Una moltitudine infinita e indeterminata , che veniva a raddoppiare il difetto pur troppo per se nocivo del popolar governo, non potea non produrre gli sconcerti che poi produsse, e non accelerar quella corruzione per cui degenerò in Principato. Però Cesare, che dai replicati esempi di questo errore n’avea imparato gli effetti, con la mente a’ suoi fini si adoprò fin da principio per l’aggregazione, de’ Traspadani. Non fu veduto in que’ tempi come si potesse senza minima alterazion del sistema far godere a tutti una sufficiente parte dell’onore e del grado. Non fu considerato, che ammettendo ne’ Comizj, a proporzione della grandezza e del merito d’ogni città o regione ascritta, solamente uno o due e non più di quattro soggetti, da quelle stesse città o regioni solennemente eletti, non potea da una parte generar novità alcuna il piccol numero, perchè paragonato a quel de’ Romani non si rendea sensibile; e dall’altra il general concorso delle città e de’ paesi nella creazion di coloro che dovessero goder tanta dignità, e rappresentare in Roma le lor veci, bastava per tener paghi i popoli, e perchè si credesser tenuti a dar volontieri quando occorresse le sostanze tutte ed il sangue per conservar la patria comune e la comune Republica. Non pensarono i Romani ancora gli altri benefizj che conseguiti ne sarebbero; d’avere in Roma il fior degli uomini saggi dell’Italia tutta; d’averci stabilmente tante onorate famiglie di più, e d’eccitar le città in tal modo a gareggiar tra loro nelle più ardue occasioni. Che avrebber eglin detto que’ famosi saggi del mondo civile, se avessero veduto l’ordine di comporre una Republica generale, tenuto a moderni tempi da’ Sguizzeri e dagli Olandesi? e se n’avesser veduto gli effetti, di far tosto che piccol tratto equivaglia a un Regno? E che avrebber detto osservando il modo con che nell’Inghilterra senza confusione alcuna la nazion tutta, e fino ogni borgo si rende interessato nelle publiche deliberazioni? Se i Romani prendeano a proporzione alcun simil metodo, nè si sarebbe mai corrotto il governo loro, nè dalle barbare nazioni abbattuti sarebbero mai stati, nè oppressi.
Nel tratto di tempo che al presente consideriamo, la Cisalpina fu in condizion di provincia. Così la chiama Cicerone (Phil. l. 3) più volte, e specialmente ove loda il consenso de’ Municipj e delle Colonie della provincia Gallia nel difender la maestà del Senato e l’autorità del popolo Romano. Fa egli ancora menzione (Fam. lib. 2, 17) d’Alarii traspadani; e nella cavalleria Romana par che Legionaria indicasse Romani cittadini, e Alaria soldati provinciali (Livio. lib. 40: alarii equites postquam Romanorum, ec.). Varj Presidi però si veggono, che come ordinaria provincia ad amministrarla vennero di tempo in tempo. Or come ciò? dopo aver veduto che fino alla guerra Cimbrica, da Italia fu sempre trattata, e non da provincia? non pochi di questi nodi nella Romana Storia incontra, chi le cose a dentro riguarda, non solamente non disciolti, ma per verità nè pure avvertiti finora. L’ambiguo talvolta e tronco favellare degli Scrittori, le contrarietà che in essi rinvengonsi, e la perdita miserabile di tanti libri di Dione e di Tito Livio, ci lasciano di troppe cose all’oscuro. Forse ne’ torbidi delle prime rivoluzioni e delle discordie civili, tra le novità avvenute nel governo, una fu di ridurre in provincia la Cisalpina? certo è che occupandola i più potenti, forze venivano ad avere in Italia da tenere in soggezione l’istessa Roma. Forse si fece a ciò strada col pretesto di leggeri motivi che inducessero a decretarla come straordinaria provincia? Altro sospetto a noi però si desta, che non lascerem di proporre. Ebbero in uso i Romani di considerare come paese di nuova conquista quello di cui si fosse impossessata straniera gente e nimica, e da cui cacciata a forza l’avessero. L’abbiam veduto ove si parlò della fondazion della Colonia Aquileiese; poichè fu considerato allora quel terreno come di ragion de’ Galli, benchè per l’avanti fosse de’ Romani, per essersi una partita di Galli annidata quivi, che ne fu da essi scacciata. Per l’istessa ragione potea tenersi per nuova conquista e per paese di condizion transalpina la Gallia nostra, dopo che impossessati se n’erano i Cimbri. Forte argomento abbiamo in Appiano per convalidare tal congettura; imperciocchè non molto dopo la vittoria di Mario, Apuleio Saturnino legge portò contrastata prima, ma confermata poi, che si distribuisse tutto il terreno occupato nella Cisalpina da’ Cimbri; e che avendonegli Mario poco avanti scacciati, quella terra, come non più de’ Galli, si trasferisse, a’ Romani (Bel. Civ. lib. 1: τῆν γῆν ὡς οὐκέτι Γαλατῶν εἰς Ῥωμαίους περιεσπάκει). Fors’anco si era trovato fra Galli cisalpini chi avea secondato i Cimbri, come già con Annibaie si congiunsero.
Ora per quanto sarà possibile di trovarne conto confrontando insieme principalmente Plutarco, Appiano, Dione, Cesare, Cicerone, Sallustio e Svetonio, andremo accennando i personaggi da’ quali queste nostre parti, nel tempo ch’ebbero condizion di Provincia, fur rette. Furon tutti de’ più famosi, e in qualità di Proconsoli. Pompeo Strabone, di cui parlammo poc’anzi, par che motivo di guerra avesse, forse dalla parte d’Istria, poichè quando nell’anno 699 fu richiamato a Roma per difenderla ne’ tumulti civili, si trovava con esercito al mare Adriatico (App. Civ. lib. 1). A Strabone par che succedesse Metello Pio, il quale comandò truppe nella guerra Soziale, e cominciati i moti di Mario e Cinna, sfuggi di tornare a Roma; e benchè terminato il suo tempo, si trattenne in Liguria per veder l’esito delle cose: ma nel 670, venuto Silla in Italia, andò a congiungersi con esso, ritenendo ancora la dignità di Proconsolo. La nostra Gallia però da Ravenna all’Alpi si diede in quella guerra a Metello, e fu del partito di Silla; il qual poi parendogli che lentamente Metello operasse, volle mandarvi a comandar Pompeo ancor giovane; il che questi non accettò per non fare ingiuria a chi era in provincia; ma ci venne poi, desiderandolo Metello stesso, e congiuntamente con lui operando. Morto Silla, Emilio Lepido console si sforzò di succedere in quella spezie di tirannide; ed essendogli toccata in sorte la Gallia transalpina, occupò con l’armi comandate per lui da Bruto suo Legato [padre dell’uccisor di Cesare] la Cisalpina. Per cacciarne Bruto, che la riteneva, e ricuperar la provincia, fu Pompeo dal Senato, il quale impadronitosi facilmente di molto paese, ebbe assai che fare a Modana, dove avea posto il campo Bruto, il qual solamente con fraude fu da Pompeo ingannato ed ucciso. Nel 680 toccò questa provincia al console Lucullo; di che non contento per non aver materia di cose grandi, trovò modo di passare a quella di Cilicia, e per conseguenza a comandar nella guerra contra Mitridate. Poco prima della congiura di Calilina nomina Sallustio Caio Murena, che presiedeva qui come Legato del Console. Nel 691 essendo toccata a Cicerone allora console la Macedonia, egli la cesse al collega Antonio, e si prese la nostra Gallia; ma non volendo poi abbandonare Roma per la congiura da lui scoperta di Calilina, mandò, quasi Legato, in questa sua provincia, assai sollecitata dagli emissarj di Calilina stesso, Metello Celere, che in quel pericolo era stato mandato come Pretore nel Piceno con autorità di far esercito. L’anno 695, correndo grido di guerra da’ Galli transalpini, alcuni popoli de’ quali erano in armi per occupare quella parte di Gallia ch’era Romana, decretò il Senato che i Consoli sortissero fra se le due Gallie: ma furono ambedue di Cesare; perchè il popolo guadagnato da lui co’ doni e con gli spettacoli, gli decretò per provincia la Cisalpina, e insieme l’Illirico con tre legioni per cinqu’anni; e il Senato ci aggiunse anche la Transalpina più da lui desiderata con un’altra legione. Nel prim’anno delle famose guerre da lui fatte co’ Galli e co’ Germani, per ingrossar la sua armata, passò celeremente nella Cisalpina, e ci levò due legioni, e due altre ne levò l’anno appresso. Se crediamo a Plutarco, una legione anche gli mandò Pompeo nella Gallia circompadana arrolata. L’esser questa allora in figura di provincia, non pregiudicava ai diritti che dava a molte città l’esser di Colonia. Avanti che spirasse il cinquennio del comando di Cesare, gli fu per opera di Crasso e di Pompeo, che insieme con lui formavano allora un triumvirato arbitro della Republica, prorogata l’istessa provincia per altri cinqu’anni. Per far continuare tal comando a Cesare, concorse anche Cicerone, avendo però recitata l’Orazione delle Provincie Consolari, in cui dissuade dal decretare nè l’una nè l’altra Gallia a chiunque sia, con rimuover Cesare che vi facea sì bell’imprese, e che avea bisogno di maggior tempo per condurle a fine. L’ultim’anno del suo comando racconta Irzio, che svernò nel Belgio, e a buona stagione passò di qua dall’Alpi per raccomandare a’ Municipj e alle Colonie della provincia il suo Questore, che dimandava il sacerdozio, e dovea esser ballottato ne’ Comizj; ma inteso, prima d’arrivare, che l’avea già conseguito, volle non per tanto proseguire in tutte le città di tal grado, non meno per ringraziarle, che per raccomandarsi a motivo de’ Comizj del seguente anno, spargendo i suoi avversarj che per deprimer lui fossero stati fatti consoli Lentulo e Marcello. Fu Cesare da tutte queste nostre città ricevuto con incredibili onori, ornandosi le strade e le porte, incontrandolo il popol tutto, e sagrificadosi in ogni luogo. Afferma Irzio che le regioni tutte della Gallia Togata in quest’occasione egli scorse, rendendosi poi con mirabil celerilà oltra monti all’esercito, con aver prima lasciato qui Tito Labieno suo Legato, cioè luogotenente, perchè invigilasse alle cose sue.
Uso di Cesare nel tempo del suo Presidato fu di guerreggiar l’estate oltra l’Alpi, e nella rigida stagione passar di qua, e in queste regioni svernare. Motivo di ciò unico, se udiamo lui, era di tenervi, secondo l’obligo de’ Presidi, i giudiziali Conventi, e invigilare a questa parte della sua provincia: nell’anno 700 passò anche nell’Illirico, e represse le scorrerie di gente confinante, e vi tenne parimente i Conventi (Bell. Gall. lib. 1, 5 e 6). Ma se udiamo gli altri, non la cura della provincia solamente e di tener ragione, ma assai più la premura delle cose sue e d’incamminare i suoi disegni lo traeva in Italia. Dione (lib. 40): avendo mandate le truppe ne’ quartieri, egli passò in Italia; in apparenza per avervi cura della Gallia, in sostanza per assister da presso a quanto si facea in Roma. In fatti svernando in Lucca, che dalla parte del Tirreno era l’ultima città della sua provincia, [prima dell’Italia essendo Pisa, come su l’Adriatico l’ultima della Gallia era Ravenna, prima dell’Italia Rimini] venne a visitarlo da Roma infinita moltitudine di gente1, e fra gli altri non meno di dugento Senatori, e tanti Pretori e Proconsoli che alla sua porta si videro cento venti fasci, e ci vennero anche Crasso e Pompeo. De’ Conventi tenuti da lui nella Cisalpina quattro volte ei fa menzione, e si rammentano una volta anche da Svetonio. Uso era de’ Romani che i Presidi deputassero alcune città delle maggiori, e situate in luoghi a tutti i popoli della lor provincia più comodi, per tenervi solennemente ragione, portandovisi essi, e quivi ragunando i giudici subordinati. Curioso punto però sarebbe il poter rintracciare quali fossero nella Venezia nostra le città destinate a’ supremi tribunali, ed elette per queste giudiziali ragunanze; ma di questo niun cenno si ha in tutti gli antichi monumenti: e non è maraviglia, perchè breve fu e tumultuante il tempo in cui trattata venne questa parte da provincia, e tenuti furono però in essa i Conventi. Quindi è che Plinio insegnò bensì quali erano le città a ciò deputate in altre provincie, ma non accennò d’alcuna che in queste parti fosse già stata a ciò destinata.
Facilissimo si crederà all’incontro da molti l’additarle tutte per la comune opinione fin da’ tempi del Panvinio introdotta (v. Ant. Ver. lib. 2, c. 21) che de’ giudizii que’ luoghi fossero sedi ch’ebbero il nome di Fori. Ma abbiasi per indubitato, grave sbaglio esser questo, perchè le terre chiamate Fori non furon luoghi di ragione, ma di mercato, e presero più il nome da chi avea loro tal indulto ottenuto o concesso. Altro era forum agere in una città, il che faceasi nelle città di Convento, ed altro era dare a un luogo il nome di Forum. Di tante città che vediamo in Plinio destinate a’ Conventi, niuna mai ebbe il nome di Foro. Ebbero questo nome più luoghi dell’Italia antica, anzi del Lazio stesso, come Foro d'Appio dove certamente nè Convento fu mai, nè provincia. Se cotesti Fori fossero stati luoghi di ragione, sarebbero stati gran città, perchè a ciò le maggiori si deputavano, come può riscontrarsi da tutte quelle che a ciò servirono; e se tali state non fossero, ne sarebbero per lo concorso divenute; talchè Giuseppe Scaligero (ad Eus. Chron.) ebbe opinione, Metropoli delle provincie Romane non altre doversi credere, che le città deputate a’ Conventi giudiciali. Ma all’incontro i luoghi che portaron nome di Fori, benchè alcuni d’essi diventassero poi nobili città, furon da prima villaggi o borghi. Il Foro di Flaminio nell’Itinerario è detto Vico. Il Foro de’ Galli messo dalla Tavola Peutingeriana, e reso noto per la rotta d’Antonio descritta a Cicerone da Galba (Fam. lib. 10, ep. 30), è chiamato Vico in quella stessa lettera; ed Appiano di esso (Civ. lib. 3): il villaggio si chiama Foro de’ Galli. Il Foro di Cornelio, abbiamo nelle Vite d’Agnello Ravennate (in Petr. Sen. 28) che fu ridotto in città da’ Longobardi. Da Tolomeo vien messo ne’ Cenomani il Foro de’ Giutunti; luogo sì tenue, che non se ne può render conto: altrettanto è da dire del Foro d’Allieno, donde il Cluverio mal dedusse Ferrara. Nel Padovano è sul Bacchiglione Frassanéo: se così veramente dee scriversi, questo luogo fu in antico Fraxinetum; ma se dovesse dirsi Frallanéo, com’altri afferma in vecchie carte vedersi scritto, questo era il Forum Alieni; riconoscendosi dal luogo di Tacito (Hist. lib. 3) ove tal Foro si nomina, com’era poco discosto da Padova, e sopra un fiume dove poca gente avea buttato ponte. Noi siam soliti d’udir con disgusto chi mette in burla generalmente l’etimologia, perchè in materia di Geografia antica troppe cose ci pare aver da essa imparate. Chi negherà non venire il nome di Forlì da Forum Livii, e quel di Fossombrone da Forum Sempronii, e non essersi fatto quel di Friuli da Forum Julii? Un altro Foro abbiam pero pur ora scoperto nel Veronese; perchè il villaggio della nostra montagna inferiore, volgarmente detto Frizelane, o Frezelana, vecchi rotoli insegnano che si chiamava in Latino Forum Juliani: ecco però quell’istesso mangiamento della seconda lettera, che si vede consueto in questa voce all’antico dialetto della Venezia. Del Forum Julii, che dopo la caduta d’Aquileia diventò città principale di quel tratto, e diede il nome di Friuli al paese piano de’ Carni, distintamente si prédica che fu il luogo della giudicatura nella Venezia (v. Mon. Vet. Ant. p. 325). Ma di questo appunto Paolo Diacono, il quale ne fu nativo, fa indubitata testimonianza che fu luogo di mercatura, affermando che così fu detto, perché ivi Giulio Cesare avea stabilito Foro di negoziazione (lib. 2, c. 14: quod Jul. Caes. negotiationis Forum ibi statuerat). Pompeo Festo di questa voce così ragiona: Foro primieramente si dice un luogo di traffico, come sarebbe Foro Flaminio, o Foro Giulio, detti dal nome di coloro che gli costituivano, solendosi ciò fare anche ne’ privati luoghi, e nelle vie e ne’ campi. Le Fiere in fatti uso era di farle ne’ territorj e nelle private tenute. L’autorità di farle si concedeva prima da’ Consoli, onde a’ Consoli la chiese l’istesso Imperador Claudio, quando volle aver gius di mercato nelle sue private campagne (Svet. c. 12: jus nundinarum). A tempo di Traiano si concedeva dal Senato: il che si può raccogliere da quell’epistola di Plinio, ove parla d’una lite ch’ebbero i Vicentini, per avere i Legati loro contradetto all’istanza di chi supplicava il Senato, per la licenza di far mercato ne’ suoi campi; il che dovea forse alla città di Vicenza riuscir di pregiudizio (lib. 5, ep. 4: in agris suis nundinas, ec. ). Col proceder del tempo tal facoltà si concesse poi da chi era con comando ne’ paesi, e però il Foro sopramentovato nel Veronese, è credibile riportasse il nome da quell’Aurelio Giuliano di cui parleremo a suo tempo.
Venute finalmente le cose a termine, che Cesare incamminandosi armato verso Roma, passò il limite della sua provincia, cioè il Rubicone, offerse dopo questo per condizion di pace che gli fosse lasciata solamente la Gallia cisalpina e l’Illirico con due legioni, finchè chiedesse il secondo Consolato (Plut. in Caes.). Scrive Cicerone (Fam. lib. 16, ep. 11), aver lui anche offerto di dimettere la Cisalpina, cedendola a Considio Noniano, cui era toccata nelle annue sorti. Ma rimaso poi arbitro d’Italia per la ritirata degli emoli, fece Prefetto di Roma Emilio Lepido, raccomandando l’Italia a Marc’Antonio, e la nostra Gallia a Licinio Grasso (App. Civ. lib. 2). Vinto Pompeo, e tornato a Roma dopo la guerra in Egitto, prima di partire per quella d’Africa, impose alla Cisalpina Marco Bruto, quello che insieme con Cassio fu poi capo della congiura contro di lui (Fam. lib. 6, ep. 6). Ucciso Cesare, e sottraendosi molti al tumulto ed a’ pericoli della città, quelli ch’erano stati già destinati in provincie dall’istesso Cesare, vi si portarono (App. Civ. lib. 3); fra quali Decimo Bruto, un de’ principali tra congiurati, venne nella Gallia all’Italia prossima, che allora era quanto dir nella Cisalpina, tre legioni sotto di se avendo. Venuto nella provincia, condusse l’armata contra alcuni popoli Alpini per compiacere a’ soldati che desideravano far qualche cosa: così scrisse egli a Cicerone (Fam. l. 11, ep. 4 e 19). Gli scriss’altra volta da Vercelli, raccomandandogli i Vicentini, singolari cultori dei Bruti, perchè non fosse lor fatto pregiudizio in Senato per certa causa che aveano a motivo de’ servi nati in casa, forse co’ gabellieri. Il doversi far questa causa a Roma e in Senato, mostra continuato il primiero instituto nelle liti delle città, che già imparammo da Polibio, e fa veder che i Proconsoli, quali in questo tempo per comandar legioni in Italia, presedevano alla Cisalpina, poco tenean ragione, e lasciavano continuare l’antiche usanze.
Passato in Italia Ottaviano, che fu poi sopranominato Augusto, e cominciati i moti di que’ primarj cittadini che aspiravano succedere a Cesare nella potenza e nell’arbitrio suprema delle cose, Marc’Antonio s’invaghì di presedere alla nostra provincia, togliendola a Decimo Bruto, e la Macedonia a lui assegnata rinunziando (App. lib. 3). Il Senato scrisse a Bruto di tenersi forte nella provincia, e di resistere ad Antonio, e lodò i Modanesi, nella città de’ quali, quasi di frontiera, Bruto si era posto, del mostrarsi disposti a resistere costantemente (Dio. lib. 45 ). Ma standosi per propor leggi di permutar le provincie, e di dar successore a Bruto, si trovò fin d’allora chi sentì doversi uscir d’impaccio, con abolir questa da tutti voluta, liberandola dall’esser sottoposta a’ Presidi, e tornandola alla condizion d’Italia (Epit. Liv. 117). Ma il popolo ne’ Comizi secondò la brama d’Antonio, favorito anche da Ottaviano, cui spiaceva di veder Decimo Bruto, un degli uccisori del padre suo, con esercito in provincia così florida e di tanta conseguenza. Fu adunque decretata la Cisalpina ad Antonio, il qual perciò prometteva poi a’ soldati di condurgli nell’a lui assegnata Gallia felice, cioè · abbondante e ricca (App. l. 3: εὐδαίμονα). Mosse però Antonio verso questa parte l’esercito; e fu ricevuto da più città; ma Bruto gettatosi con le sue schiere in Modana ben fornita di vettovaglie, si preparò a sostener l’assedio, che ben tosto per Antonio fu stretto. A questo mandò Legati il Senato con ordine di desistere e di ritirarsi dentro il Rubicone, sotto pena d’esser dichiarato nimico della patria; il che non avendo avuto effetto, cominciava Bruto a penuriar di viveri, quando Irzio console insieme con Ottaviano marchiò con esercito, ed occupò Bologna lasciata senza presidio (Dio. lib. 46). I combattimenti e le cose poi seguite posson vedersi ordinatamente in Appiano. Abbandonò finalmente l’assedio Antonio, e passando l’Alpi uscì di questa provincia, che afferma Cicerone (Phil. 10) gli era nimicissima, benchè ne’ Traspadani si confidasse. Con tutto ciò Asinio Pollione, essendo con sette legioni nella Venezia [onde disse Donato (Vit. Virg.) impropriamente che la traspadana Provincia ei reggesse], la ritenne assai tempo in podestà d’Antonio, e illustri azioni fece presso Altino, e ad altre città di questa regione, come Patercolo (lib. 2) afferma. Fu in tal tempo ch’ei beneficò Virgilio, facendogli rendere le possessioni nella division de’ terreni, fatta da’ Triumviri a’ soldati, lui tolte: eran queste situate presso al Mincio, dove cominciano a mancar le colline, com’egli esprime nell’Egloga nona (qua se subducere colles incipiunt); che vuol dire sul margine del confin Veronese. L’ultimo che avesse arbitrio nella Gallia cisalpina, fu Marc’Antonio (Dio. lib. 46), cui restò assegnata, insieme con la maggior parte della Transalpina, nel congresso de’ Triumviri, e nelle lor convenzioni, essendo passata poco dopo alla condizion d’Italia. Non è da tralasciare che si nomina nel Cronico Eusebiano un Marco Callidio insigne oratore del partito di Cesare, il qual mentre reggea la Togata Gallia, morì in Piacenza.
Nell’anno, secondo il computo di Varrone, 713, passato Ottaviano a Roma, dopo la vittoria unitamente con Antonio riportata sopra Cassio e Bruto, a sua istanza legge fu promulgata, in virtù della quale la Gallia cisalpina fu fatta libera. Così parla Appiano (Civ. lib. 5: Κελτικὴν τὴν ἐντὸς Ἀλπεῶν ἐδόκει Καίσαρος ὀξιοῦντος αὐτόνομον ἀφιέναι) [benchè poco propriamente il termine usi d’autonoma] per significare che fu dichiarata Italia, cioè trasferita alla condizione Italica. Aggiugne che tale era già stata anche la volontà di Cesare. Qual fosse il primo effetto della libertà, spiegammo sopra, e conferma il medesimo Storico (Civ. lib. 3: τὸ ἔθνος ὅλως ἐλευθεροῦν ἡγημονίας), ove l’istesso sentimento esprimendo, narra che dopo la morte di Cesare v’era chi giudicava doversi la nostra Gallia liberare affatto da’ Presidi. Però si lagnava poi quel parzial d’Antonio, che la Gallia a lui prima assegnata si fosse fatta libera in danno suo. La ragione di questa nuova legge chiaramente si addita da Dione, ove parla del prepararsi alla guerra che poco dopo fece Ottaviano con tra Lucio Antonio fratello di Marco, e contra Fulvia moglie di esso Marc’Antonio. Dice quivi ch’egli e i suoi partigiani non solamente da Roma, e da quelle parti d’Italia ch’erano in lor podestà, raccolsero danaro, valendosi ancora delle sacre offerte e doni ch’eran ne’ tempj; ina che denaro e gente lor venne anche dalla Gallia Togata, la quale poco aωanti era stata trasferita alla condizion d’Italia, affinchè nissuno col pretesto d’esser quivi Preside potesse tenere armata dentro l’Alpi (lib. 48: ἐντὸς τῆς Ἰταλίας νόμον ὥστε, ec.). I Presidi delle provincie comandavano anche nel militare, e truppe avean per lo più; o fosse per tenere a freno i confinanti, come nella Cisalpina facea mestiere per le genti Alpine; o per tumulti o per guerre. Di troppo conseguenza essendo però ch’altri avesse a sua disposizione esercito di qua dall’Alpi, ed ingiusto essendo ancora che sì grande e bella parte d’Italia avesse condizion diversa dal rimanente, volle Cesare e decretò Augusto che ritornasse tutta al suo primo stato, e fosse libera ed esente da’ Presidi, come avanti la guerra Cimbrica era già stata. Alla condizione Italica tornò dunque allora anche Verona per benefizio d’Augusto.
Questa variazion di nome e questo alternar di Gallia e d’Italia oscurità ed equivoci ha più volte prodotti; perchè l’stesso paese nell’istesso tempo or si afferma Italia, or si nega; or si dice Gallia, ora no; or se ne parla come fosse Italia vera, ed ora come Italia impropria. Cornelio Nepote, nato nel Veronese, Italiano si chiama da Catullo, e Gallo da Ausonio. Ma nel periodo, anzi nel verso medesimo ambedue i nomi frammischiano gli Scrittori. Scrive Plutarco (τὴν ἄλλην Ἰταλίαν) nella Vita di Cesare, che il Rubicone separava dalla Gallia, ch’è sotto l’Alpi, l’altra Italia, o sia il rimanente dell’Italia. Strabone (lib. 5: ἡ λοιπὴ δ´ Ἱταλία, ec. ) parimente descritti i confini della Gallia dentro l’Alpi, passa al resto dell’Italia. Dione (lib.῏῏ 37: τὴν νῦν Ἰταλίαν) nomina quella ch’or si chiama Italia, quasi prima non fosse; e dice essersi data ad Antonio la Gallia, perchè, rimanessε in Italia(lib. 46). Cesare narra (lib. 1: in Galliam ulteriorem) d’esser venuto in Italia, e prese seco tre legioni, che svernarono presso Aquileia, esser tornato nella Gallia oltremontana. Riferisce Livio (lib. 33) essersi giudicato l’anno 559 che bastassero per la provincia Gallia due legioni; e segue, che toccò a Valerio la provincia Italia, intendendo del paese medesimo. Nel 567 quattro provincie racconta ancora che si cavarono a sorte tra i Pretori; due fuor d’Italia, Sicilia e Sardegna, due, in Italia, Taranto e la Gallia (lib. 35: duas in Italia, Tarentum et Galliam), cioè, come abbiam già spiegato, gli affari e le guerre che alla città di Taranto e in questi nostri paesi bollivano. Or con tutto questo scambiamento e confusione, ed uso promiscuo di nomi, facil cosa è con un’avvertenza sola di guardarsi da ogni equivoco e di fuggir errore. Basta distinguere l’Italia naturale e geografica dall’Italia legale e politica. La naturale fu sempre
. . . . . . . . . . . . . . . . il bel paese
Ch’Apennin parte, e ’l mar circonda e l’Alpe;
e però Italia ed Italia propria furon sempre anco queste parti. Lasciando quell’oscure età, quando vien creduto non si dicesse Italia se non il piccolo ed estremo tratto che fu poi de’ Bruzii, o almeno non più in qua che fra Taranto e Pesto; da più antichi e più saggi Scrittori del tempo istorico si descrive l’Italia quale or l’abbiamo. Il vecchio Catone nelle Origini delle Città d’Italia, anche di quelle della Venezia avea ragionato. Polibio (lib. 2, p.102) circoscrive l’Italia tra i mari Tirreno, Jonio, come chiamavano il Golfo inferiore, e Adriatico; e tra l’Alpi che si stendono dalla Provenza all’Illirico. Così Dionigi Alicarnasseo (lib. 1), così Strabone. Aver la natura munita l’Italia con l’Alpi, disse Tullio (de prov. Consul.): la lunghezza dell’Italia stendersi dall’Alpi al mar di Sicilia, scrisse Livio (lib. 1). Siccome però era Italia la parte di là, benchè si chiamasse Grecia, così era Italia la parte di qua, benchè si chiamasse Gallia: nè patisce tal verità opposizione alcuna, e s’imbrogliò alquanto Appiano (in Annibal.), nè ben comprese quando asserì non potersi dire propriamente Italia, se non quella ch’è di là dall’Apennino, e chiamarsi Italia Gallica parte del paese di qua ch’è sul mare Jonio, ed esser questo fatto Italia dopo, come allora era Italia l’Etruria: poco distinse e assai confuse i termini Romani quel per altro lodevolissimo Storico anche in alcun altro luogo. Ma vero bensì è, che avendo i Romani a quella parte d’Italia lor prossima, che prima s’incorporò al dominio, concedute alcune condizioni che non concedettero se non più tardi a quella ch’essi poi conquistarono soggiogando i Galli, cioè dal Rubicone in qua: ove si trattasse di legal condizione e di governo, la prima solamente chiamavano Italia, e in tal proposito non chiamarono Italia questa, se non dopo d’avere anche a questa ristesse condizioni e gl’istessi privilegi partecipati. Notammo già l’ uso Romano di considerar come Gallia ogni paese tenuto alcun tempo da’ Galli. Cosi fu detta Grecia, quella parte che venne occupata da’ Greci onde Greche città leggesi in Livio (lib. 35) erano in Italia Napoli, Reggio e Taranto, ed esser fiorita in Italia la Grecia, disse Cicerone (Tuscul. 4: cum floreret in Italia Graecia). Ma in somma quinci nacque il doppio nome e l’uso de’ vocaboli incerto e comune, che contra il dovere continuò non di rado anche dopo trasferite alla condizione Italica le regioni nostre, talchè nella Gallia disse Vibio Sequestro essere il Benaco del Veronese, e il Timavo ch’ è oltre Aquileia; e Gallia citeriore chiamò questa fin Simmaco (lib. 4, ep. 47)· Gallia però in tal senso è una parte d’ Italia, come l’ Etruria e il Piceno. Se crediamo alle stampe, fu anche detta una volta da Plinio (lib. 17, c. 2), Italia Cisalpina, ma dee leggersi Subalpina, come subalpina e circompadana Gallia fu della da Plutarco (in Caes.).
Fiorì in tempo di Cesare Caio Valerio Catullo, eccellente ingegno, e un de’ primi e supremi lumi della poesia. Nacque, secondo il Cronico di S. Girolamo, in Verona l’anno secondo dell’ Olimpiade 173, che dà il 666 di Roma. Forti ragioni ci sono di crederlo nato qualche anno dopo; rimanendo però sempre il più antico Scrittore che vantar possa la Venezia e la Cisalpina tutta, ed anteriori al quale de’ Latini fioriti anche in Roma e in tutto il mondo Romano tre soli o quattro ci sono rimasi. Dicesi da molti nato in Sarmione, ma senza nissun fondamento; sua fu bensì quella penisola del nostro lago, e in essa deliziosa villa ebbe di cui si stimano avanzi le reliquie di Romano edilizio che quivi ancor si veggono. Facoltoso e di molto onesta condizione convien dir fosse il padre suo, poichè tra esso e Cesare consuetudine correa d’ospitalità (Svet. Caes. 73: hospitioque patris sui sicut consueverat, ec. ). Il Poeta veniva ammesso in Roma alla tavola dell’istesso Cesare, come s’impara, ove dice Svetonio, che avendolo aspramente offeso con satirici versi, dopo averne questi ricevuta soddisfazione, lo invitò a cena l’istessa sera (satisfacientem eadem die adhibuit caenae). Andò Catullo con ufizio nella comitiva del Pretore in Bitinia. In Roma ebbe amicizia e pratica con illustri personaggi, e tra gli altri con Cicerone.
Ma, poichè questi è il primo Veronese di cui favellar si possa, ed è il più antico di cui memoria ci sia rimasa, non potrà da gran maraviglia non esser preso chi si farà a considerare quanto all’oscuro ci ritroviam dell’antichità rimota; mentre nè pur barlume e forse nè pure un nome ci rimane di tutti quegl’infiniti uomini che la città nostra abitarono avanti i Romani. I nomi nelle lingue antiche erano significativi, e però ci darebbero qualche traccia della lingua che qui si parlava, e questa dell’origine. Ma ecco che il primo Veronese di cui certa notizia si abbia, ci viene innanzi non solamente con prenome e nome gentilizio, ma ancora con cognome Romano; e non sol questi, ma quel Celio e quel Quinzio ch’ei chiamò fiore della Gioventù Veronese (Flos Veronensium sium juvenum); quell’Aufileno ch’ivi pur nomina; Cornelio Nepote, e più altri amici da lui mentovati, gran parte de’ quali non è dubitare non fossero suoi patriotti, nome Romano tutti portano. Con le lettere Latine comincian dunque le notizie nostre, tuttochè anche per l’innanzi da nazione che avea uso di scrittura e di monumenti queste parti fosser tenute. Si dispersero forse le memorie Etrusche per essersene smarrita l’intelligenza e ’l linguaggio? In fatti anche nell’Oriente, lasciando le sacre carte, cominciano le notizie con le Greche lettere, perchè dell’Egizia lingua non trapassò all’altre nazioni la vaghezza e lo studio. Ma come tanti nomi Romani veggiamo a tempo di Catullo in Verona, la quale solamente in quell’istessa età era stata fatta Colonia Latina? e ciò senza condurvi Romano alcuno, se ad Asconio abbiam fede? E come in questo Poeta nè pure un nome si riscontra della prima gente e dell’anterior lingua? Forse tanto era il credito e tanta la fama de’ Romani, ch’anche prima del lor dominio ne prendeano il linguaggio e i costumi? forse tanto era l’affetto che il participar di così gran Republica svegliava verso di loro, che rinegavan tosto i popoli le lingue proprie ed i proprj nomi, e si facean pregio di trasformarsi, e di diventare o parer Romani? Non è da tralasciar però, come assai prima di quel che dagli Scrittori si possa raccogliere, sembra di poter credere venisser Romani in questa città ad annidarsi: poichè secondo i computi più comuni nacque Catullo in quell’anno appunto quando fu fatta Colonia Verona. Or dicendosi lui Veronese, e Veronese essendo stato suo padre, il quale dava ospizio a Cesare, e certamente in Verona, o in Sarmione, dove secondo l’antico Itinerario era la Mansione o sia il riposo tra Verona e Brescia; molto probabil si rende abitasse già qui avanti il Proconsolato di Pompeo Strabone. Con tutte le fatiche e gli studj nostri quante mai sono anche in queste materie le cose che non sappiamo!