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DELL’ISTORIA
DI
VERONA
LIBRO QUINTO
Ancorchè negli Scrittori, i quali delle più bramate notizie ci sono talvolta sì parchi, non ne abbiam pruova, forza di congetture induce fiero a fermamente credere che a Verona colonia militare mandasse Augusto. Secondo l’antico istituto si conducean le colonie ne’ paesi con l’arme acquistati; ma cominciate le turbolenze, indi le guerre civili, nelle quali tace il retto e ’l giusto, e de’ primi costumi ogni traccia si smarrisce, nuovo metodo di colonie si prese; perchè coloro che tiranneggiar voleano, nulla potendo fare senza avere a lor divozione i soldati, per impegnargli a lor favore, introdussero di mandargli, terminato il tempo della milizia, o vero condotta alcun’impresa a fine, in qualche parte d’Italia in colonia; nulla curando di rapire a chi gli possedeva una parte de’ lor terreni, per distribuirgli a’ soldati lor benemeriti. Ecco, dicea però quel pastore cacciato da’ suoi ben coltivati campi, ecco, dove la discordia trasse i miseri cittadini (Virg. Egl. I)· Fu il primo Silla, seguitò Cesare, indi i Triumviri unitamente, e Marc’Antonio per proprio nome, e sopra tutti Augusto. La voce veramente era di voler chi mandava in colonia pagare i terreni e le case ai padroni; ma questo per lo più non si eseguì, mancando il denaro; però Bruto dopo ucciso Cesare, parlando al popolo e a que’ soldati cui Cesare avea promessa colonia, rimproverava l’ingiuria di Silla e di lui, che senza pagare i terreni n’aveano a modo di ladroni scacciati i posseditori (App. Civ. lib. 2); promettendo anch’egli di dar loro terre, ma col danaro acquistate. Di queste colonie militari, che fur moltissime, poco lume si ha in quai città condotte fossero; ma che Verona non fosse dimenticata, la serie delle cose dimostra. Cesare si contenne per lo più nell’Italia interiore. Dieciotto colonie furon promesse a’ soldati da’ Triumviri nell’anno di Roma 712 (App. Civ. lib. 4, init.), in città per edifizj commendate, e per fertile territorio, delle quali la più prossima a questa parte par fosse Rimini. Ma nell’eseguir la promessa, gran tumulti poi sorsero; poichè quelle città non sopra esse solamente, ma sopra l’Italia tutta voleano che tale aggravio e tale assegnazion di terreno a’ soldati si ripartisse; e voleano altresì che si contasse il prezzo delle case e de’ campi. Ottennero l’intento quanto alla prima richiesta, il che si può ricavare dal lamento che si udì dopo de’ parziali d’Antonio; cioè che all’esercito d’Ottaviano non le 18 città solamente, ma l’Italia tutta si assegnava (App. lib. 5: ἀναστήσων τὴν Ἰταλίαν). Facil cosa però è che Verona in tempo de’ Triumviri cominciasse a soffrir colonia, s’è vero ciò che ha Donato nella Vita di Virgilio, che dopo la vittoria ne’ campi Filippici fosse distribuito il terreno de’ Traspadani. È credibile che incominciasse Ottaviano da quelle città che furono avverse al suo partito nelle guerre civili: tale a detto di Servio fu Cremona; però chiamata misera da Virgilio (ad Egl. 1 et 9) dove deplora la propria disgrazia, perchè non essendo bastati i terreni di quella, fu presa anche una parte del prossimo Mantovano, e distribuita. Ma rimaso poi solo nel governo della Republica, narra Svetonio (Aug. c. 46) che con vent’otto colonie popolò l’Italia. Dice egli stesso nel marmo Ancirano d’aver condotto in colonie intorno a cento venti mila uomini (Grut. pag. 231: in colonias hominum circiter 120mil.). Nell’istessa iscrizione, benchè imperfetta, traluce la gran quantità di denaro ch’egli sborsò per li terreni e case date ai soldati; in che si dà vanto d’essere stato primo, e solo tra tutti quelli che avean condotte colonie di soldati in Italia, o in provincie (ibid. primus et solus omnium qui deduxerunt colonias militum in Italia aut in Provinciis). Però quasi indubitato è che nissuna città delle rinomate e più considerabili in Italia sarà rimasta esente in così gran moltitudine che allogar si dovea. Verona è anzi da credere che di più d’una colonia aggravata fosse, che di niuna; essendo tal replicazione anche in altre città avvenuta, come di Bologna leggiamo in Dione (lib. 50), che colonia militare vi condusse Antonio? poi Ottavian di nuovo. Della Venezia certamente ne mandò Augusto fino all’estrema parte, facendo menzion Svetonio (Aug. c. 25) di colonie confinanti con l’Illirico, per presidiar le quali, e assicurarle da gl’Illirici che le infestavano, si valse, contra l’uso, di soldati libertini. Di Pola nell’Istria il nome che riporto di Pietà Giulia, e i due tempj che in parte ancor sussistono, dedicati alla Dea Roma e ad Augusto mostrano che fin là si stesero le di lui colonie. Non avrà dunque certamente tralasciata Verona. In nobile e sontuosa iscrizione, che tuttor si vede, questa città vien detta COLONIA AVGVSTA, titolo per cui altri ha creduto che ne fosse Augusto l’autore (v. Ins. XXXVIII). Replicatamente adunque acquistò gius di colonia Verona, onde andarono errati que’ dotti che la credettero municipio. Se ne persuase il Reinesio per una nostra lapida, ora nel publico Museo dedicata, e che si può vedere nel Trattato degli Anfiteatri ( lib. 1, c. 14: honoribus omnibus in Municipio functus), in cui si dice di Lucio Giustino, che avea sostenuti in questo municipio tutti gli onori. Se ne persuase il Cluverio (pag. 117), perchè di certo suo municipe parlò Catullo. Fatale fu per verità questa voce nel generar dispute e confusioni; e non solamente tra i moderni, ma perfin negli antichi. Asconio Pediano, a cagion d’esempio, si maraviglia che Cicerone (in Pison.) chiami Municipio Piacenza, mentre fu colonia, in che non c’era maraviglia alcuna.
Dicea Gellio (lib. 16 c. 13) Municipio e Municipe esser parole trite e proferite da tutti ma da pochi intese: dov’egli ancora pero mal crede, dicesse il falso, chi chiamava quei di colonia municipi. Dall’uso vario delle parole la metà delle questioni ebbe origine: sopra tutto frequentissima cosa è l’usare i medesimi vocaboli ora in senso stretto e proprio, ed ora in largo e comune. Fu tra questi Municipio e Municipe presso Latini; poichè ora significo quelle città che aveano una certa e prefinita condizione e grado, cioè che godeano della cittadinanza Romana, senza aver ricevuto nè uomini Romani nè leggi; ed ora si disse di tutte le città ch’eran sotto Romani, e non eran Roma. Quando negli Autori e nelle Leggi trattasi della condizion diversa delle città, e quando si trova, per cagion d’esempio, Municipium in alcune medaglie di Spagna, s’intende nel senso particolare. Quando nell’istesse leggi si tratta de’ municipali Magistrati, o Gesti, o Statuti, s’intende delle città tutte dall’Impero comprese. Quando disse Cicerone nella Sestiana, niun Municipio d’Italia, niuna Colonia, niuna Prefettura, allora parlò nel senso stretto e proprio: quando dice a Bruto (Fam. lib'. 13, ep. 12) che Peto era principale del Municipio Lucchese, intende nel senso generale, poichè Lucca era colonia più di cent’anni avanti. In una epistola medesima (ep. 10) si può osservare variamente usata tal voce; perchè parlando della sua patria Arpino, dice esser lui solito assistere con ogni attenzione a’ suoi Municipi, dove non altro significa che patriotti: aggiunge poi, aver quell’anno fatto fare Edile suo figliuolo per regolare il municipio, niun altro Magistrato in quel municipio crear solendosi; dove s’indica municipio essere stato Arpino, e non colonia, nè prefettura, il che sappiamo anche da Livio (l. 10 e 38). Altre volte usa egli il termine di Municipali per gente di città, dicendo, molto parlasi da uomini Municipali, molto da rusticani (Att. lib. 8, 21; lib. 9, 18). Una volta nell’Orazion per Roscio usa anche il termine di Municipio per villaggi o luoghi territoriali che godean della cittadinanza, e dove abitavano cittadini Romani, affermando che a’ padri di famiglia deMunicipj Rusticani gratissimo era vedere i figliuoli applicati all’agricoltura. Ma insistendo nel proposito nostro, quando dice Plinio ( lib. 33. c. 3 ) emularsi ne Municipj la sontuosità di Roma, va inteso generalmente dell’altre città; quando distingue le città della Spagna in Confederate, Stipendiarie, Municipj e Colonie, va inteso nel primitivo e proprio modo. Quando racconta Svetonio (Aug. c. 13 e 101) avere Augusto distribuiti i Veterani pe’ campi municipali, intende universalmente; quando nomina i Decurioni de’ Municipj e delle Colonie, parla nel senso specifico. Cesare nel primo libro della Guerra Civile per città in genere usò tal parola più volte, e forse non senza sbaglio intese un di que’ passi illustre Scrittore (Cens. Pis. Diss. 1, c. 3), quasi l’ordine per gran premura spedito da Cesare a’ Duumviri de’ Municipj tutti di cercar navi, non fosse caduto anche su le colonie. In questo senso fece menzione Plinio il giovane del Municipio Padovano, e in questo senso municipali dissero, Arena Giuvenale, Vita Marziale, e S. Agostino Gesti, cioè Atti. Però Ulpiano (D. lib. 50, t. 1, lib. 1): Municipi diciamo ora abusivamente i cittadini d’ogni città, vuol intendersi dell’Imperio. In questo modo strano parer non dovea che le colonie ancora venisser dette municipj; nè era però da pensare che le stesse città fossero insieme alle volte colonia e municipio, nè da credere che municipio fosse Verona per esser talvolta con tal vocabolo dinotata, nè per l’altro di municipe, che null’altro volea dir che paesano, onde Giovenale in riguardo a un Egizio chiamò pesci municipi quei del Nilo. In tutta la Venezia municipio strettamente preso non troviam che fosse.
Non mancherà chi si maravigli dell’aver noi molte parole spese per dimostrar che Verona non fu municipio, stante il tenersi che i municipj fossero di condizion migliore delle colonie. Ma effetto sarà questo della fatale impression comune di doversi cercare e sostenere non la verità delle cose, ma quel che paja esser più favorevole e vantaggioso. Noi all’incontro se scoperta avessimo stipendiarla la patria nostra, o prefettura, ch’erano l’infime condizioni, l’istesso studio avremmo posto in mostrarla tale, che pur ora in farla conoscer colonia e non municipio. E’ da osservar per altro, come quasi tutte le gran ’città colonie furono, e non municipj, talchè un certo uso venne d’intender per municipio città piccola: in tal senso pare dal contesto che l’usasse fra gli altri Tacito (Hist. l. 3), ove disse di Vicenza, piccole forze avea il Municipio:e per meno che città l' usò Salviano (Gub. Dei lib. 5) ove disse: non solamente le città, ma i Municipj ed i Vici. È da osservare ancora, come se ben migliore appariva certamente la condizion di municipio, che di colonia, perchè la colonia lasciava i proprj riti e le proprie leggi per soggettarsi alle Romane, dove il municipio si rimanea con le proprie; in troppo maggior numero con tutto ciò eran coloro i quali coloni volean essere anzi che municipi; talché molti ancora dall’antico gius di municipio chiedeano d’esser trasferiti a quel di colonia, di che tanto si maraviglia l'Imperadore Adriano. Ne rende Gellio (l. 16, c. 13) la ragione, affermando che la condizion di colonia, benché più subordinata e men libera, appariva però più desiderabile per la maestà del popolo Romano, di cui le Colonie pareano quasi piccoli simulacri e sembianze, (quasi effigies parvae). Pozzuolo, che a tempi di Cicerone (de leg. Agr.) godea piena libertà, e usava le sue leggi, ottenne come grazia da Nerone il gius e il nome di Colonia Augusta. Nè per questo è da dire che le città d’Italia divenute colonie non fosser più libere, come parve a un gran Letterato, avendo già noi veduto sopra in che consistesse veramente la libertà. Ma bellissimo documento da ciò si presenta dell’effetto che facea negli animi la participazione della Republica. Ogni uomo in quel tempo non una sola, ma due patrie avea; la città ove era nato, e Roma ov’era ricevuto e aggregato. Però dicea Spurio Cassio (ap. Dion. Hal. l. 18) de’ Latini, che dopo essere stata lor conceduta la cittadinanza, chiamavano Roma lor patria: e disse Cicerone ove delle Leggi, che Catone due patrie ebbe, Tusculo e Roma; e che tutti gli altri di città ammessa ed aggregata parimente le aveano, una per natura, l’altra per cittadinanza (de Leg. lib. 2: omnibus Municipibus duas censeo esse patrias, unam naturae, alternam civitatis). Ma delle due ecco che amavano gli uomini assai più la seconda che la prima, assai più l’acquistata che la naturale; poichè generalmente eran pronti a rinunziare i proprj statuti, e a dismettere i propri costumi per trasformarsi del tutto in Romani. Traspira continuamente negli Scrittori antichi, di varie parti dell’Imperio nativi, sì fatta impressione; perchè tu gli osserverai sempre parlar di Roma, e della Republica, come di lor patria e come di propria cosa; e chiamare i Romani antichi, gli annali di Roma, le guerre, le leggi; leggi nostre, nostri annali, nostre guerre, avi nostri. Nè dobbiam punto maravigliarci che Tesser ammessi in Roma agli onori tramutasse gli uomini in Romani più che nativi, e gli facesse non aver più altro in cuore, cd antepor di gran lunga alla particolar patria la comune, nella grandezza della quale anche il ben della particolare e la felicità consisteva. Tal sentimento era sì naturale, che non potrebbe in ogni tempo dall’istesso motivo non riprodursi l'istesso; perchè l’uomo segue il suo utile per natura; e poichè in grado assai maggiore collocava ognuno la seconda patria che la prima, così naturalmente maggior affetto e maggior interesse concepiva ognuno per la seconda che per la prima. Uomo Romano chiamò se stesso replicatamente anche S. Paolo nato in Tarso, perchè contra l’ingiuria de’ flagelli giovava l’esser Romano, e non giovava l’esser di Tarso (Act. XVI, 37; XXII. 25).
Abbiam veduto poco fa da Gellio, come le colonie, il che poi fecero anche l’altre città dell’Imperio, si rendeano piccole immagini di Roma, mentre cercavano di uniformarsi ad essa quanto era possibile, e di servare l’istesso civil sistema e gli ufizj. Sopra i Magistrati municipali molto però e dottamente si è scritto. Gli recitò tutti, ricavandogli dalle iscrizioni, il Panvinio (lib. 2, c. 12) nelle Antichità Veronesi; trattò di essi nelle Augustane il Velsero; un libro ne scrisse il Pancirolo, e v’impiegò una bella Dissertazione il Cardinal Noris. Soverchio però sarebbe l’andar parlando di tutti, e troppo lungi ci condurrebbe il ricercar più a dentro molte particolarità non ancor discusse: tanto più, che con tutta la conformità in genere, molte cose però nelle diverse città eran diverse, e diverso era il numero e il nome degli ufizj: reggasi sopra tutto la legge delle Cariche e degli Onori (D. l. 50, t. 4). In alcune città a coloro ch’eran nella prima dignità, si diè fin nome di Dittatori, in altre di Consoli e in altre di Pretori. Noi però accenneremo solamente que’ Magistrati della città nostra, de’ quali sicuro monumento ci sia rimaso: e non saran molti, poichè delle nostre lapide, per la ragione che apparirà altrove, poche hanno sfuggito l’eccidio. Diremo adunque in primo luogo, come ogni città, piccola o grande che si fosse, chiamava la sua comunità Republica. Ristauratore della Republica Veronese (v. Ins. X) si dice in un marmo Falerio Trofimo, il quale per benefizio della patria dovea essersi molto adoprato. Diremo in secondo luogo, che siccome a Roma la principal divisione era in Senato e Popolo, così nelle città in Decurioni e Plebe: apparisce ciò in molti monumenti, e ne può servir d’esempio uno venuto di Dalmazia nel nostro Museo, scolpito essendo in esso che a certo personaggio una Colonia fece onore, contribuendo il denaro Decuriones et Pleps (v. Ins. XI): benchè scomparisca la Plebe nel Grutero (846), che fa Lepiefs, onde quasi nome di città fu riportato Lepiefs nell’Indice geografico dello Scaligero, e poco felicemente pensò il Reinesio doversi emendare in Lebactes. In qualche città si disse ancora Ordine e Popolo (v. Ins. XL), come in una lapida si può vedere, che abbiam posta in serie. Sopra i Decurioni posava la somma del governo, e la principal cura delle cose publiche. Veggasi di essi il Pancirolo a lungo: aveano insegne e ornamenti particolari, il che si deduce dall’iscrizion di Trofimo poco avanti rammentata, che mostra come colui non era Decurione, ma per suoi benemeriti con la Republica Veronese gli erano stati conceduti gli Ornamenti Decurionali. Publio Hostilio Terlino Decurion Veronese abbiam nel Museo tra gli altri, il quale col sentimento Epicureo chiuse il titolo sepolcrale (v. Gr. 419, 6). Secondo ciò che dai dotti finora è stato scritto, converrebbe credere che ne’ municipj e nelle colonie affatto aristocratico fosse il governo, poiché de’ soli Decurioni si parla, ch’erano le persone più scelte c più facoltose; ma questo non sarebbe stato un conformarsi a Roma, che l’avea democratico, e si esprime in molte lapide il concorso della Plebe. Di vecchia tradizione, come appar dalle carte, è qui il nome di Campo Marzo attribuito ad ampio e piano sito fuor di città, toltane poi dentro una parte.
Sarebbe stato questo il luogo de’ nostri Comizj, cioè del pien Consiglio, o sia della convocazion generale, così chiamato a imitazion di Roma, dove anticamente altro parimente non fu che un grandissimo prato fuor del recinto?
Erano ancora nelle città cavalieri come a Roma, cioè persone che aveano il cavallo dal Publico, e che per facoltà eran mezzane tra Curiali, o sia Senatori, e popolari. Di tal ordine era tra noi Lucio Giustino mentovato poc’anzi; e però del suo publico cavallo, come distintivo della sua condizione, si fa menzion nella lapida; e poiché dicesi che avea sostenute in questa città le dignità tutte, non si davano queste adunque solamente a’ Decurioni.
Non può negarsi però che l’importanza del governo in essi non consistesse, onde disse poi Giustiniano (Nov. 38) che gli antichi ordinatori dell’Impero Romano avean giudicato d’unire insieme in ogni città i nobilmente nati, e di essi comporre a ciascheduna il Senato suo, da cui le publiche cose amministrar si dovessero. Appar sovente nel fine delle Iscrizioni che il decreto dei Decurioni si richiedeva anche per porre in publico qualche memoria e per l'assegnazion del luogo. Scrisse Paolo giu- risconsulto, che il Duumvirato e gli altri primi onori non si davano che a’ Decurioni (D. de Decur. lib. 7).
La suprema carica nella maggior parte delle città fu appunto il Duumvirato1, il che si riconosce da molti passi di Storici e di Scrittori, dove si vede come chi alcuna cosa volea dalle città, a’ Duumviri facea capo. Diversi erano i Duumviri Quinquennali, come in una iscrizion di Brescia singolarmente si vede (Grut. 447; I0). In alcune città questa era la prima dignità, come nella lamina Canusina, riferita dal Fabretti (pag. 598), si può conoscere, e più da un passo d’Apuleio (lib. 10), che al Quinquennal Magistrato attribuisce lo splendor dei Fasci. Di questi niun c’è rimaso ne’ monumenti nostri. Pare che dopo questi fosse in maggior grado il Magistrato supremo di giudicatura, che consisteva in altri due, detti Duumviri per giudicare (Juri dicundo), ovvero in quattro. Il Panvinio (Ant. Ver. p. 53 e 86) portò opinione che nelle città maggiori e più popolate quattro giudici si costituissero, nelle minori due. Che regolarmente e per lo più così veramente fosse, ragionevol cosa è il credere. In fatti nella Venezia in Aquileia giudicavano Quartumviri, come dalle lapide raccolse il Torre (de Col. For. p. 349): in Padova parimente, conservandosi anche al dì d’oggi il monumento d’Asconio Sardo, ch’era quivi in tale ufizio (Grut. 366, 4). In Vicenza furono Duumviri, e così in Brescia, dove Duumviro juri dicundo fu Acuzio Primo (Grut. 344, 12); e nelle Valli altresì, quali come corpo separato, avanti d’essere attribuite a Brescia, faceano i suoi, e più d’una lapida n’è rimasa (Mem. Bresc. p. 156). Buona cosa che non venisse questa differenza avvertita, poiché per altro li più di quelli che ne’ passati tempi dieder fuori le iscrizioni delle lor patrie, Quartumviri per giudicare ci mettean tutti innanzi. In Verona questo Magistato fu più fortunato degli altri in rimanerne memoria. Sopra la porta d’antico edilizio, di cui si parlerà altrove, e che senza dubbio fu il Foro della ragione, vedesi ancora inciso a bellissime lettere il nome di Tiberio Flavio Norica Quartumviro per giudicare (v. Grut. 387, I). Dietro tal porta altra se ne conserva in parte più antica della sudetta, nella quale vedeansi a tempi del Saraina scolpiti i nudi nomi di P. Valerio, Q. Cecilio, Q. Servilio, P. Cornelio, quali senza dubbio saranno stati i Quartumviri di quel tempo: e dal vedergli senza cognome si può dedurre quanto d’antico; avendo osservato il Fabretti (pag. 240), come tal fu l’uso in tempo della Republica. A onore d’altro Quartumviro, il quale dalla tribù Pobilia si palesa de’ nostri, cioè di Marco Gavio Squillano (v. Insc. XII, ora nel Museo), fu da’ ministri del suo tribunale affissa tavola di metallo, che si conserva ancora, e fu già qui nel Museo di Cesare Nirchesola, ove la vide il Pignorio: la gente Gavia era in Verona frequentissima. D’Arrio Cestronio c’è rimaso il nome in fronte a grand’arca di pietra (v. Ins. XIII), il quale non solamente di quella dignità si fregia, ma d’altra ancora ne’ marmi municipali assai più rara, cioè di Questor dell’Erario. Le città possedeano fondi e capitali, e riscoteano imposte e gabelle; avean però cassa publica, quale anche in più lapide d’altre città si trova nominata Erario. Leggi si han ne’ Digesti (lib. 50, tit. I), nelle quali tra gli ufizj di chi reggea le città, si annovera la cura del denaro publico, l’impor gravezze, l’affittar le rendite, l’assistere a’ publici lavori, e l’assegnar tutori a’ pupilli.
Celebre sopra tutte è stata resa la memoria di Quinto Minicio Macro, Veronese, come la tribù Pobilia dimostra, il quale fu Quartumviro di Verona (v. Ins. XIV); e perchè sarà forse stato dell’una e dell’altra cittadino, fu Questore in Verona ed in Brescia. Mirabil travedimento fece già da gran tempo divulgar cotesta lapida con due tribù, quasi costui nell' istesso tempo e a quella di Verona e a quella di Brescia ascritto fosse: quinci stabilir canone falsissimo che ciò avvenisse nelle adozioni, quasi potessero gli adottati dar volo e nella nativa e nell’acquistata: in oltre immaginarsi poi gratuitamente che Macro Bresciano fosse piuttosto, che Veronese; e per compimento di maraviglia arguirne che Brescia, come capitale dei Cenomani, avesse preminenza sopra le circonvicine città, e mandasse loro i Magistrati. Ma la pietra, che tuttora nella piazza di Brescia perfettamente si conserva, altra tribù noti ha che la Pobilia de’ Veronesi; nè con due tribù si è veduto, nè si vedrà mai verun nome in sincera lapida; poiché si potea bensì per più casi passare dall’una all’altra, come Augusto fece, ma non mai nell’istesso tempo averne o professarne due: che se due n’avessero professate gli adottati, non una ed altra, ma infinite lapide vedremmo con due tribù, mentre infiniti son gli adottati che in esse abbiamo, e nulla fu più frequente nè più comune fra’ Romani delle adozioni con incredibil danno delle città, e della società civile, e delle famiglie ne’ moderni tempi dismesse. Quanto alla congettura dedottane, per aver creduto Macro Bresciano, che Brescia mandasse a Verona i Magistrati; siccome Veronese fu Macro sicuramente, ed ebbe qui suprema dignità, e in Verona nominata prima fu Questore, ed il fu anche in Brescia; così voleasi da molti ritorcer la congettura, e dedurne che a Brescia si mandassero i Magistrati da Verona; il che si renderebbe mollo più verisimile dal sapersi che Verona in que’ tempi era tanto maggior città, come vedremo fra poco. Ma siccome dee tenersi per fermo, che chi propose l’accennato pensiero il facesse per mero scherzo e per esercizio erudito; così da ciò proporre dissuade noi la gravità dell’Istoria. Niente sarebbe più contrario, nè più lontano dall’ordine e dal sistema de' tempi Romani, che il pensare ch’una città avesse giurisdizion sopra un' altra, e ch’una colonia mandasse all’altra i Magistrati. Noi abbiam veduto, come nelle città nè pur si mandavano i Magistrati da Roma, e come ognuna, piccola o grande che si fosse, se gli faceva ugualmente da se. Avvenne qualche volta in tempo degl’Imperadori, ch’una città venisse sottoposta a un’altra, ma per gravissima pena e castigo, e non in Italia, ma in Oriente. Settimio Severo per vendicarsi d’Antiochia, che avea seguitate le parti di Pescennio, la sottopose a Laodicea, e per vendicarsi di Bisanzio la sottopose a Perintio: ma nell’istesso tempo le privò del Bagno, del Teatro, e d’ogni altro ornamento proprio delle città, e come scrive Erodiano (lib. 3, c. 6: Κωμηδουλεύειν, ec.), venne a metterle in condizion servile, e a renderle villaggi. Ma in figura di villaggio non fu mai Brescia dopo i tempi Romani, nè Verona, o altra in queste parti. Qualunque piccola città prossima fosse a una grande, e si amministrava ugualmente da’ proprj cittadini, ed era di tribù diversa, e si chiamava parimente Republica: onde come trovasi, a cagion d’esempio, la Republica de’ Milanesi nelle lapide, così si trova la Republica de’ Comaschi e la Republica de’ Bergamaschi. Nella città di Vicenza nobil memoria fu anticamente dedicata, e si conserva ancora, in onore di Gordian Pio, che si dice eretta dalla Republica, e s’intende la Vicentina, con Decreto de’ Decurioni, e per liberalità delle Matidie; avendo alcune cittadine di tal gente fatta in quel tempo la spesa (v. Ins. LXIX). Credè lo Spanemio ( Pr. Num. diss. IX, p. 7) che il nome di Republica si usasse solamente dalle città libere e da’ Municipj: nel numero delle città libere posson tutte quelle d’Italia comprendersi; ma nel nome di Municipio prese anch’egli l’errore poco avanti sgombrato, e per quello di Republica non fece avvertenza ai molti luoghi di quegl’istessi Giurisconsulti ch’ei cita, spezialmente nell’ultimo libro de’ Digesti. Callistrato tra gli altri cosi definì l’Onor Municipale generalmente: Amministrazione della Republica per via di qualche dignità (l. 14, D. ad Munic.). È manifesto adunque che niuna superiorità può dedursi di Verona sopra Brescia, perchè un Veronese fosse in Brescia Questore, nè sopra l’istessa Brescia della Valcamonica, perchè Placidio Casdiano della Tribù Quirina, Duumviro nella Republica de’ Camunni, vi fosse Prefetto dei Giudicii, come lapida Bresciana insegna (Mem. Bresc, p. 249); nè di Verona parimente sopra Vicenza, perchè altro Veronese, cioè Gavio Squillano poco avanti nominato, fosse Curator de’ Vicentini, come nell’iscrizion si vede (v. Ins. XII); nè di Trento sopra Brescia e Mantova, perchè Valerio Mariano della Tribù Papiria fosse Decurione in Trento ed in Brescia, e Curatore della Republica de’ Mantovani (Grut. 479, 6). Curatore, come insegna Arcadio giurisconsulto, (D. lib. 50, t. 3, l. 18), era il destinato alla cura del patrimonio publico. E bensì credibile che costoro di tutte le città, ove ufizio esercitarono, godessero la cittadinanza.
Edili e più altri ufizj furon parimente nelle colonie, de’ quali monumento non ci è rimaso. Si concedevano in esse ancora gli ornamenti consolari, di che presso noi smarrita lapida facea menzione; ma effigiati conservano due altre i consolari fasci. Legge del Codice Teodosiano fa fede (de Decur. I. 174) ch’ anche ne’ susseguiti tempi alzassero i Duumviri per tutto il distretto della propria città la potestà de’ Fasci. Indicavasi da questi autorità anche nel criminale; e fino a un certo segno l’aveano in fatti le città tutte. I Publici, che si trovan talvolta nelle lapide e negli Autori, erano servi delle Comunità, e potean esser ministri. Littori nomina Cicerone (Agar. 2) in Capua, e in Filippi di Macedonia S. Luca negli Atti (XVI, 35). Che i Magistrati delle città facessero imprigionare, apparisce nella passione di S. Claudio e compagni, dicendosi in Ega al Proconsole di Cilicia: eccoti i Cristiani che i Curiali di questa città hanno potuto far prendere. Tra i mali portamenti d’Albino Procurator di Giudea, nota Gioseffo (Bell. lib. 2, c. 13), come per denaro liberò quelli che per latrocinj o altri misfatti dai Decurioni delle città o da’ Presidi anteriori erano stati posti in prigione. In oltre non doversi negare a’ Magistrati municipali anche l’autorità d’un piccol castigo, secondo l’antico istituto decise Ulpiano (D. lib. 2, t. 1, l. 12). S. Paolo e Sila condotti in Filippi avanti coloro che amministravano la città, si fanno da questi subito spogliare e pubicamente battere (Act. XVI, 19, 22, 35). D’un Manlio flagellato a Siena per ordine de’ Magistrati parla Tacito (Hist. lib. 4). Questo è ciò che i Legisti chiamavano Imperio misto, cioè unito e mischiato con la giurisdizione, che consiste, nel giudicare. Ma notabil particolarità aggiungeremo. Le città libere avevano anche il gius dell’ultimo supplizio, cioè di condannare a morte e di far eseguir la condanna, il che all’altre città per detto del Giurisconsulto non era lecito nè pur co’ servi (l. 12 de Jurisd.). Questo era l’altro costitutivo della libertà, qual però accennammo nel terzo libro non esser per anco stata messa in chiaro. Narra Tacito ( Ann. lib. 2 ) che Pisone odio nodriva contra gli Ateniesi, i quali eran privilegiati di libertà, perchè gli avean negato di far grazia a certo Teofilo falsario, sentenziato dal lor tribunale dell’Areopago. Racconta Dione (lib. 60) che l’Imperador Claudio privò di libertà i Rodiotti, perchè coll’ignominioso e servil supplizio della croce avean fatto morire alcuni cittadini Romani. Le città d’Italia siccome godean tutte la condizion delle libere in non esser soggette a Preside alcuno, così è da credere la godessero anche nell’altra parte del gius del gladio. Vuol però intendersi, eccettuando i delitti publici di tradimento, congiura, veneficio e assassinio, perchè di questi in Italia fin da’ tempi di Polibio i Magistrati delle città non giudicavano (lib. 6: πρόδοσιας. ec.); e poichè Presidi di sorte alcuna non v’erano, insegna il medesimo Storico che n’andava la cognizione al Senato Romano.
Uso fu anche tra’ Romani che l’arti e i mestieri si unissero in collegi e corpi, i quali poi creavano rettori e ministri, e quasi Republiche atti faceano e decreti. Ebbe principio tale istituto da Numa, il quale, come si legge in Plutarco, in otto Arti distribuì da prima il popolo di Roma. Molt’altre poi se n’aggiunsero, e a quella norma nelle città parimente più professioni formarono corpi e collegj. La dispersione delle nostre lapide poco o nulla ci lascia vedere in questo genere. D’un Maestro de’ Centonarii, che fors’erano rigattieri, parlava un’iscrizione che più non sussiste (Sar. p. 49): del Collegio de’ Fabri facean menzione due incondite iscrizioni perdute, delle quali, come fur date dal Saraina, si può far poco conto (Pan. p. 87). Ben d’un Collegio ci riman notizia, che molto raro è di vedere altrove, cioè di nocchieri e barcaruoli (Gr. 438, 5; 624, 7). Solcavano questi il nostro lago, ed avean residenza in Arilica, borgo ch’era nel sito ove al presente abbiam la Fortezza di Peschiera. Quivi allo piedestallo si è disotterrato non ha gran tempo, in cui si vede, come due Publii Virucate in memoria de’ lor genitori diedero al Collegio de’ padroni di barca dimoranti nel Vico Arelico, o Arilicio, un buon capitale di denaro (v. Ins. VII), perchè col ritratto e col frutto di esso facesser loro ogni anno l’anniversario, ponendo al sepolcro rose e cibi secondo l’antica consuetudine. De’ nocchieri Arelicesi, e d’un simil legato fa menzione altra lapida riportata nel Grutero (449, 6), ed un’altra ancora mancante del principio, ch’ora è nel Museo, e nella quale, oltre al lasciarsi all’istesso Collegio due volte più, cioè dodici mila sesterzj, perchè con la rendila di tal somma al disponente, alla moglie e al figliuolo ogni anno in perpetuo fosse fatto l’istesso ufizio (v. Ins. XV), Ponzia Giusta n’aggiunse per l’istesso motivo altri 500 in memoria d una sua liberta, perchè il monumento fosse tenuto netto e pulito.
Questi corpi si eleggean Patroni, cioè Protettori, e se gli eleggevano parimente le città e le comunità. Le città solean per lo più scegliere personaggi di conto e d’autorità a Roma. Insegna Appiano (Civ. lib. 2: ἅπασιν πόλεσιν ἔστι τίς ἐν Ῥώμῃ προστάτης) che di tutte le città v’era in Roma il Protettore, e Dionigi d’Alicarnasso (lib. 2), che ognuno se gli sceglieva a piacere tra’ cittadini Romani. Gran vincolo era cotesto in que’ tempi, e molti eran gli obligli reciprochi del patronato e della clientela. Di Verona un Patrono, o sia Protettore, ci diede il Saraina (p. 49 ), cioè Delfio Peregrino, ch’era stato Tribuno di legione, e Propretore della provincia Asia; ma il marmo si è ricercato indarno. Per supplir però alla mancanza delle nostre, abbiam poste nella serie tre iscrizioni non più divulgate d’altre parti, la prima delle quali, venuta nel nostro Museo dalla Dalmazia (v. Ins. XVI), fa vedere com’anche tra’ proprj cittadini prendean le colonie i Protettori, il che si conosce anche in altre. La seconda scoperta in Sestino terra dell’Umbria, in onore di chi era Protettor d’un Collegio, ed anche della città, fu dedicata dai Seviri Augustali, e dalla Plebe della città stessa. Fu eretta l’altra dal Collegio de’ Fabri di Tortona2 a chi era Patrono dei Collegj tutti e d’una Colonia, e fedelissimo Avvocato, il qual esercizio si adoperava spesso in favor de’ protetti; anzi da questo Patroni si dissero i Protettori.
Insieme con l’amministrazione e con gl’istituti civili portavano le colonie anche la religion Romana e le sacre dignità, quali si eleggeano per lo più da’ Decurioni, e si solean conferire a chi avesse già sostenuto i civili onori: Pontefici, Sacerdoti, Flamini, Auguri, Sodali. Anche di queste sono a noi molto scarse le lapide che ci rimangono. Abbiamo però più Flamini e più Flaminiche, non essendo tra’ Gentili negato il sacerdozio alle donne: è notabile un Flamine di due Dei, Sertorio Festo del Sole e della Luna (v. Ins. XIX); il che era contra l’uso e contra la legge recitata da Cicerone (de Leg. lib. 2), che i Flamini servissero a una Deità solamente, ma dovea essere un tempio solo. Alle volte non apparisce di qual Dio, come nel Flamine Caio Africanio (v. Ins. XX); ma il tempio dove la lapida dovea esser posta, lo dimostrava. Costoro son chiamati da Pacato nel Panegirico per municipal porpora reverendi (c. 37), onde impariamo la nobiltà del lor vestimento. Curioso marmo, venuto però d’altra parte, è nel Museo, non solamente per la rara famiglia Mineia, e per la poco veduta in lapida Feronia3, ma pel titolo di Sacerdote Gratuito (v. Ins. XXI), da cui par si raccolga, pagassero gli altri qualche cosa nel conseguir tal grado, e per notarvisi da costui li suoi quarant’anni di sacerdozio, per li quali dovea goder preminenza sopra degli altri. Frequente sopra tutti era il sacerdozio degli Augustali. Fu introdotto dopo la morte d’Augusto, ed in onor suo: ma l’adulazione lo fece desiderare, e assumer da tanti, che formaron costoro quasi un ordine nelle città, mezzano fra i Decurioni e la plebe, come gli Equiti in Roma. Si trovano però in più lapide, insieme co’ Decurioni e con la plebe. Sei si eleggean tra questi, che fosser capi degli altri, e quasi il Magistrato di tal corpo, e si dicean Seviri, de’ quali le lapide in ogni parte abbondano. In una delle poco fa accennate fanno l’onore al Patrono i Seviri Augustali e la Plebe urbana (v. Ins. XVII); e nella solennità del dedicar la pietra, cioè di collocarla, l’onorato fa distribuire pane e vino a quelli ed a questa, e parimente a ciascun de’ Sei tre denari, e due a coloro che rappresentavan la plebe. Conseguivasi tal grado anche da’ liberti, come mostra tra’ nostri Numitorio Asclepiade (v. Ins. XXII) che di professione fu medico, o sia chirurgo per li mali degli occhi. Ma in altro marmo inosservato ne’passati tempi, e posto ora insieme di varj pezzi, onorifica memoria si vede fatta a Veronia Trofima sua madre, cui dice Santissima, sacerdotessa di Cibele, da Veronio Carpo Seviro, il quale si dà titolo, secondo che da noi la breviatura s’interpreta, in questi termini non più veduto, cioè di Maggior Claudialis (v. Ins. XXIII. CL.MAI): dubbioso rimanendo se uno si deputasse per presedere agli altri, o se venisse il maggiorato dall’età, o dall’anzianità. In altra iscrizione si trova Sacerdote Primo del corpo degli Augustali (Grut. 372, 7). Credesi che gli Augustali si dividessero in giovani e vecchi, ed avessero i lor Seviri separatamente, e di questi debbano intendersi que’ monumenti in cui si veggon nominati sacerdoti, o Collegj di giovani o di vecchi4. Sacerdote de’ giovani ovvero Seviro Augustale de’ sacerdoti fu presso noi Ottavio Primo liberto (v. Ins. XXIV) in fondo alla cui grandissima lapida più versi sono. Salii, ch’eran sacerdoti di Marte, attribuì a’ Veronesi il Fabretti da una lapida, che resta però alquanto ambigua per esser lacera. Dall’istesso iscrizione si publicò trovata in un manuscritto, ch’era sempre a tutti i nostri rimasa occulta, e si è finalmente rinvenuta in privata casa, non ha gran tempo. Si vede in essa (v. Ins. XXV) come Ofillia Quinta era impiegata qui ne’ Sacri Romaniensi. Cosa questi si fossero, disse quel grand’uomo non saper pensare; ma due riti eran nelle città; il Romano venuto con la colonia, e l’anteriore proprio del paese. Al culto, secondo gl’istituti Romani, e forse della Dea Roma, o di Quirino, poteva essere spezialmente destinato alcun tempio, o alcuna solennità, nella quale la nostra Ofillia avesse parte. Delle Publiche Romane Cerimonie fu minor Pontefice in Pisa il principal soggetto di quella colonia, come nel suo Decreto in onore di Caio Cesare apparisce (v. Cen. Pis.). V’eran nell’istesso tempo i Sacri Municipali, cioè, come insegna Festo (v. Municip ), quel rito che avanti la cittadinanza Romana correva, e che vollero i Pontefici si servasse anche dopo. A questo son da riferire gli Dei non comuni e non Romani, detti da Minuzio Felice Municipi (cap. 6), e da Tertulliano per ischerzo Dei Decurioni, essendo ristretto dentro un recinto di mura il loro onore e la loro autorità. Furon di tal genere i mentovati nel primo libro Cuslano e Udisna, quale presso i suoi divoti non passava già per da riporre nella plebe de’ Numi, poiché nella lapida le si dà titol d’Augusta. Questi Dei locali alle volte erano meri sogni, alle volte memorie d’uomini ch’avean beneficato quel popolo, e bene spesso erano i Dei comuni venerati sotto altro nome. Se i due sudetti fossero anche dalla città riconosciuti, o solamente, com’è facile, da que’ colli ove si son ritrovate le lapide, non si potrebbe con certezza decidere. L’una di esse è dedicata al Genio del Pago degli Arusnati ( V. Tav. I, num. 4). Pago ora significò terra grossa, ed ora numero di vici, o tratto di paese da una Comunità compreso: in questo senso l’usa Cesare dove scrive che tutta la Republica degli Elvezj in quattro Pagi era divisa (lib. I, c. 12).
In tempo d’Augusto tre grand’uomini di questa città, o del suo distretto, fiorirono, che vissero per lo più in Roma: Cornelio Nepote, Vitruvio ed Emilio Macro. Nepote fu eccellente istorico, Vitruvio il maestro degli architetti, e Macro poeta molto lodato. Non diremo di ciò più innanzi, perchè le particolarità di essi, e le pruove o le congetture l’esser Veronesi, si daranno altrove, essendosi creduto bene di separare e metter da se l'Istoria letteraria, o sia la notizia degli Scrittori nostri. Il nome di Carino (e. Ins. XXVI) da Corinto medico, che abbiamo in Greco e in lapida di marmo Greco, benché di forma Romana, mostra come tal professione era in ogni parte assai esercitata da’ Greci. Per rilevar con certezza l’essere e lo stato di questa città non Cenomana in tempo d’Augusto e di Tiberio, basta leggere il principe de’ Geografi Greci Strabone. Ove tratta della parte d’Italia di qua dal Po, metropoli degl’Insubri, dice ch’era stata Milano, e ch’era tuttavia ancora città insigne: segue, che poco lontana era Verona, gran città ancor essa; e che minori di queste due erano Brescia, e Mantova, e Reggio, e Como (lib. 5: νῦν δ᾽ ἀξιόλογον πόλιν Βήρων, καὶ αὕτη πόλις μεγάλη ἐλάττους δὲ τούτων Βρηξία ec.). Qui avvertì il Cluverio (Ital. p. 326) error essere nel penultimo nome, e doversi legger Bergamo in vece di Reggio. Ei non citò a suo favor manuscritti; ma con tutto ciò l'emendazione è indubitata, non avendo qui che far Reggio ch’è di là dal Po, ed accoppiando Strabone con le due grandi quattro piccole ad esse circostanti, cioè Como e Bergamo a Milano, Brescia e Mantova a Verona. Non si potrebbe veramente desiderare più bel testimonio della grandezza e splendore di questa città ne’ primi tempi degl’Imperadori, quanto il vederla posta in paraggio con Milano, che fu sempre così famosa e così potente città; e ciò per Autore di que’ tempi, che scrisse con tanta dottrina, con tanta accuratezza e con tanta fede, e che per istruirsi con sicurezza viaggiò per l’Italia tutta. Altra riflessione è da fare ancora su questo bel passo. Noi contra la prevenzione già invalsa abbiam dimostrato nel primo libro chiaramente, come Verona non fu mai Cenomana: or diremo che si conferma questa verità incontrastabilmente anche da questo luogo di Strabone, ov’esso con quello si congiunga di Tito Livio, che insegna come de’ Cenomani fu capo Brescia: poichè se Brescia era piccola città, e Verona grande, ed uguale alla metropoli degl’Insubri, quando l’una e l’altra fossero state de’ Cenomani, la grande sarebbe senza dubbio stata lor capitale, non la piccola. Nè si dica che a’ tempi d’Augusto potea forse essere scemata Brescia, e cresciuta Verona, poichè abbiam veduto fin ne’ tempi d’Annibale distinguer Silio Italico Verona tra le circostanti, e abbiam veduto insegnar Polibio che fino nel sommo fiorir dei Cenomani confine tra queste due città essendo il Chiesio, delle 40 miglia di paese che sono tra l’una e l’altra, trenta ne avea Verona, e dieci Brescia. Altro non meno evidente argomento dall’istesso confronto di Strabone e di Livio risulta; imparandosi dal secondo, come quella Republica non avea che Brescia e villaggi; poichè narra che il console Cetego per informarsi della disposizione e volontà dei Cenomani, mandò ne’ lor Vici, ed in Brescia, che della gente era capo (lib. 32: in vicos Cenomanorum, Brixiamque, quae caput gentis erat). Ecco però che non potea mai esser sotto Brescia, e tra i lor vici Verona, ch’era sì gran città. Potrebbe opporsi che qualche volta anche le città fur chiamate Vici; mentre dice Ulpiano (leg. 1. D. de censibus), per cagion d’esempio, che il vico de’ Patavicesi [il qual però non fu Padova, come dottissimo Autore ha creduto, ma piccol luogo in Dacia] impetrò da Severo gius di Colonia (Till. in Sev.); e di Sirmio si tiene fosse chiamato Vico da Vittore ne’ Cesari (in Decio). Ma lasciando che i Patavicesi cessarono allora d’esser vico, e che in ViLtore non va inteso esser nato Decio in Sirmio vico, come anche il Cellario (lib. 2, c. 8) intese, ma in un vico de’ Sirmiesi, non servirebbero a nulla esempi di bassa età. Bisogna osservare il significato e l’uso ch'ebbe sempre la voce vico nel buon secolo, e singolarmente in Livio medesimo. Non una o due volte, ma forse quaranta adopra egli questo vocabolo, e sempre nel suo natural senso, per terre e luoghi aperti, e così vicani e vientim. È stato creduto fosser città Galliche alcuni da lui chiamati vici, perchè disse essere stati espugnati; ma così parla egli anche d’un villaggio di Laconia, e di quelli del Padovano occupati da un’incursione di Greci (lib. 10 e 38). È stato addotto l’esempio di Foruli e di Regillo, chiamate da alcun altro città, e da Livio vici; e di Clastidio, quasi ei dissenta da se medesimo, e lo chiami una volta città ed una vico. Ma avveniva anticamente quell'istesso che tuttora avviene. Un luogo che sia piccola città o terra grande, or sarà dello terra, or città, il che dipende ancora dall’uso de' paesi; perchè più luoghi abbiam nello Stato Veneto che in altre parti sarebbero città, e città non sono. Ma siccome non per questo saranno mai dette borghi o castella Padova, nè Verona, perchè sono distinte e molto ampie città; cosi potea bensì accadere tal varietà di denominazione in Foruli, in Clastidio, in Regillo, che quai luoghi si fossero, il mostrano i nomi tutti e tre diminutivi; ma non potea darsi che fossero, per cagion di esempio, riposte tra vici Verona, o Milano, mentre impariamo dal Geografo ch’erano grandi ed illustri città, e superiori all’altre de’ lor contorni. Ci sia permesso d’aggiungere, come non può imputarsi a Livio dissenso da se medesimo, per aver chiamato Clastidio una volta oppido, un’altra vico: prima, perchè così potea secondo diversi rispetti chiamarsi, e però città lo chiamò Polibio, vico Plutarco; e così Foruli detto vico in antica lapida presso l’Olstenio, e da Strabone rupe e da Servio città: dipoi, perchè la voce oppidum, benché sia stata usata più volte nell’istesso significato di città, più spesso però, e propriamente, dice Aldo il giovane, significa qualche cosa di meno (in Quaes. per Epist.). Di questo vocabolo ben parlò Papia, conchiudendo valer città piccola: e così lo rendono le Glose in Greco (Oppidum, πολίχνιον). Cicerone (in Bruto) chiamò il rozzo stile oppidano. Li 24 luoghi degli Arecomici sotto Nimes fur detti vici da Strabone, oppidi da Plinio. Scrisse questi che 846 oppidi professava Pompeo d’aver presi nella Spagna citeriore. Antonio Agostini (Dial. 6), nel riferir questo passo, saggiamente disse 846 vici. Ammian Marcellino narra che nell’Isauria oltre a molti oppidi erano due città (lib. 14 c. 8). In somma nè Livio si contradisse, nè sarebbe senza espressa contradizione il voler che tra’ vici de’ Cenomani si fosse annoverata una città non mezzana e d’ambigua condizione, ma così distinta e così nobile, qual veggiam dal Geografo, che fu Verona.
E poichè l’Istoria antica, come si sarà ben osservato finora, non è come la moderna, che si può da chiunque sia con la lettura di semplici e volgari narrative comprendere, ma abisogna di profonda intelligenza delle lingue dotte, e di sottil raziocinio, e d’erudite discussioni e ricerche, sul complesso degli antichi Scrittori e de’ monumenti fondate; non tralasceremo di consumar qui alcuni altri punti in questo proposito, all’universal cognizione dell’antichità non poco importanti. È stato ultimamente scritto da erudita penna, nella voce Caput attribuita a Brescia da Livio, contenersi virtù di significare che avesse sotto di se altre città: così altri scrivendo d’alLro, gran cose dedussero da tal voce; quando essa veramente nè pure ha forza di provar città quel luogo stesso che così vien detto. La voce Caput trasportata nella Geografia serva per l’appunto l’istesso valore che ha nel suo primitivo e natural senso: e però siccome in questo non ha virtù di significar per se cosa grande, ma di distinguere sopra l’altre parti, e si dice in riguardo a’ membri che compongono il corpo di qualunque animale, talchè ugualmente si dice capo quel dell’elefante e quello della formica; così ove di paesi si parli, Capo si dice ogni principal luogo; e tanto si usa questo vocabolo per la metropoli d’un gran regno, come per piccola città che primeggi in una regione, o per terra che d’alcuna Comunità composta di più villaggi sia matrice. Possiam riconoscere questa verità facilmente in Livio stesso. Ove tratta d’Annibale che passò l’Alpi, e della resistenza fatta in certa parte da’ Galli, narra egli, come dopo d’avergli fugati, prese il castello, ch’era Capo di quella regione, e i circostanti vici (lib. 21: Castellum quod Caput ejus regionis erat, vicosque circumiectos capit): ecco la voce Caput appropriata a luogo che non avea se non vici sotto di se, e che non era città. Erana afferma Cicerone (lib. 15, epist. 4) che fosse Amani Caput, cioè di monte molto popolato, e che meritò d’essere aggredito dal Preside della Cilicia: non per tanto nè avea sotto di se che vici, nè era più che un gran vico. Ma nell’istesso paese, ch’ora è territorio Bresciano, altro luogo fu detto Caput da Plinio. Vorrem noi per questo dire che sovrastasse a Brescia, ed avesse città sotto di se? Veggasi ove Plinio tratta dell’Alpi, e de’ monti annessi: nominati gli Euganei, soggiugne: Capo di essi è Stonos (lib. 3, c. 20: Caput eorum Stonos). Nell’alto della Val Sabia si ha in oggi Vestone, terra grande. Il sito, il nome e l’altre circostanze compruovan l’opinione di due Scrittori Bresciani, che sia cotesta l’antico Stonos. Nomina gli Stoni Strabone (lib. 4) come piccola gente presso i Trentini. Stonos è voce Greca poetica, che secondo noi è quanto dire antichissima, e vale angustia, luogo stretto, onde ben s’adatta a luogo di montagna, e mostra l’origine Euganea. Antichi sepolcri di lettere Greche incisi, dice Tacito (Mor. Germ.), che correa fama vedersi ancora a1 confini della Rezia. Forse composero tal nome i Latini da vetus, o da versus Stonos, come sul Trentino da penes lucum si fece Peluco. Ma in somma questo luogo fu Capo degli Euganei Alpini, e pure nè Brescia nè altra città ebbe sotto di se, nè fu mai esso città. Se Brescia ne fosse, e fosse murata nel tempo, in cui veggiam da Livio, che sovrastava a’ Vici de’ Cenomani, ed era Capo di tal gente, nè si potrebbe affermar, nè negare: ma farebbe creder di no l’uso antico de’ Galli, e spezialmente Cisalpini, de’ quali dice Polibio (lib. 2:ᾤκουν δὲ κατὰ κώμας ἀτειχίστους) in universale, che abitavano vici non murati; e de’ quali dice Strabone (lib. 5: πάλαι μὲν κώμην, ἄπαντες γάρ ᾤκουν κομηδόν) che abitavano tutti in vici, e che Milano stesso però anticamente altro non era che un vico, quando gl’Insubri l'edificarono. Accorda l'uso degli antichi Germani, ch’era in origine la nazion medesima; ognun sa, dice Tacito, che i popoli Germanici non abitano città alcuna; e segue narrando la forma de’ vici loro (Mor. Ger. Nullas Germanorum populis urbes habitari satis notum est).
Ma sotto i Romani città di considerazione era già Brescia senza dubbio, e benchè non da uguagliare a Verona o a Milano, colonia fu però di molto credito. Si accrebbe poi e s'illustrò di molto quando le furono incorporate e sottoposte le valli; con che dilatò più d’altrettanto il territorio suo e la giurisdizione. Quando ciò avvenisse, non è stato rintracciato ancora. A tempo di Plinio era giù certamente avvenuto, perché nel trattar de’ popoli Alpini, quando viene alle genti Euganee di condizion Latina (lib. 3, c. 20), delle quali 34 oppidi, che qui vuol dir Terre, aveva annoverato Catone, nominati i Triumpilini e i Camuni, cioè la Valtrompia e la Valcamonica, segue: e più altri simili attribuiti a’ Municipii confinanti, cioè alle prossime città (compluresque similes finitimis attributi Municipiis). Un tal parlare indicar sembra che non si fosse ciò fatto grandissimo tempo avanti. Le genti montane per la ferocia dell’indole, e per l’animo che suol aggiungere la difficoltà dei siti, diedero spesso che fare a’ Romani, e ardirono di provocargli, rubando e depredando gli adiacenti paesi. Essi però dopo averle non una sola volta battute e represse, le privarono finalmente in pena de’ lor Magistrati, e alle vicine città le subordinarono. Bella pruova abbiaru di questo in una iscrizion di Trieste, nella qual si legge come i Carni [vuol intendersi dei montani] e i Catali erano dall’Imperador Antonino Pio stati attribuiti, cioè dati e soggettati alla lor Republica, siccome quelli che avean meritato d'esser così trattati (Grut. 488, I: adtributi Reipublicae nostrae, prout qui meruissent talia). Trattamento simile meritarono sopra degli altri i popoli abitanti ne’ monti, che sono al presente Bresciani, e i lor vicini non meno, per aver provocate l’armi Romane più volte. Toccammo già, come fin nel sesto secolo, per quanto pare potersi dalle Legazioni raccogliere, vinse i Camuni Tiberio Gracco. L’anno 636 Quinto Marzio console espugnò Stonos, che parrebbe doversi intendere della sopranominata Terra, benché nell’Epitome Liviana si spieghi della gente (lib. 62: Stonos gentem Alpinam expugnavit). Nel 738 presero l’armi i Camuni e i Venoni, genti Alpine, come le chiama Dione (lib. 54), e fur debellati da Publio Silo. L’anno appresso cominciarono a saccheggiare crudelmente l’Italia e la Gallia i Reti; onde Augusto mandò contra di loro Neron Claudio Druso figliuolo di Livia sua moglie, il quale presso i monti di Trento gli sconfisse; ma non acchetandosi costoro ancora, mandò Tiberio, che fu poi Imperadore, ad unirsi col fratello Druso. Furon però di nuovo in varj luoghi battuti i Reti, e disfatti; al che molto contribuì, come lo Storico esprime (ibid. διὰ τῆς λίμνης πλοίοις ec.), l’essersi Tiberio messo con navi sul lago, che senz’altro è da credere sarà stato il nostro. Orazio, nel toccare in un’Oda (l.4, od. 14) queste vittorie, dice che restarono in questa guerra superate rocche imposte all’Alpi, e vinti i Breuni. Come costoro ancora fosser popoli Retici delle montagne Bresciane, mostreremo nel seguente libro. Ma in somma a’ tempi d’Augusto le genti Alpine furon domate tutte da un mare all’altro, e affatto sottomesse: però in onor di lui fu eretto un Trofeo con superba iscrizione conservataci da Plinio (lib. 3,c. 20), in cui si veggono i nomi di esse al numero di 44, oltre a quattro Vindeliche; ed è notabile che in capo a tutte l’altre vi si leggono appunto i Triumpilini e i Camuni: de’ quali non essendosi poi nell’Istoria Romana udito più il nome, si rende chiaro esser essi allora e insieme quell’altre genti state prive del proprio governo, e poste sotto la giurisdizione delle vicine città: anzi l’insegna Plinio espressamente, ove dice che non furon nominati nel Trofeo i popoli di Cozio, perchè non erano stati nemici; ma ch’erano pero anch’essi stati assegnati a’ Municipii (item attributae Municipiis). In questo modo la città di Brescia con tanto aumento di territorio doviziosa si rese e molto distinta fra le città tutte. Meritò essa ancora che Augusto e Tiberio si prendessero cura del suo ben essere, e condescendessero, come da bella lapida apparisce (v. Ins. XXVII), a condurvi acque, delle quali felicemente abbonda tuttora; avendo, com’è credibile, secondo l’uso Romano, fabricato quegl’Imperadori a loro spese acquedotto.
Un solo ci resta ancora da risolvere degli argomenti, con cui vien preteso di mostrare, che più città eran nel tener dei Cenomani. Bella lapida si conserva a Brescia trovata nel suo territorio d’un Patrono delle città de’ Vardacatesi e de Dripsinati (v. Ins. XXVIII): quali senza dubbio molto lungi non erano; e pure niuno de’ dotti investigatori dell’antica Geografia ne ha saputo mai render conto, nè de’ Scrittori Bresciani; e l’erudito e lodatissimo nostro Avversario disse nel suo Parere (pag. 122) non trovarsi chi possa nè pure additarne il sito, o pensar dove ne fosse il distretto; esser però state senza dubbio città dei Cenomani anche per opinione dell’Olstenio, del Baudrant e d’altri. Ma noi le additeremo ora facilmente; e sarebbero facilmente state anche dagli altri scoperte, ove si fosse depurata la mente dal pregiudizio che queste dovessero esser città. Strano parà forse a molti il voler noi persuadere che civitates non fosser città,e pur non erano5. La voce civitas non ebbe solamente il significato oggi più comune di città, ma un altro ancora, che presso Latini fu anzi più frequente, cioè di Comunità, Republica, corpo civile formato da un tratto di paese, talvolta con più città, talvolta con soli villaggi: quello che Strabone in Greco (lib. 9: μέγιστον τῶν Θετταλῶν σύστημα), parlando de’ Tessali e d’altri, chiama sistema, ch’è quanto dir sozietà e moltitudine unita. Chi non ha quest’avvertenza, come intenderà Cesare, ove dice urbem, quae praesidio sit civitati (Bell. Gall. lib. 7)? Come Plinio, ove ha, Cemelio esser oppido della città (lib. 3, c. 5)?6 Come Tacito (Hist. lib. 4, c. 68), ove scrive che le città delle Gallia si ragunavano nel paese de’ Remi? Come l’Epitome Liviana (lib. 65) che nota, i Tigurini essersi separati dalla città degli Elvezii? Come Vopisco (in Aurel.) che parla del far l’Egitto città libera? Men bene però parve a un grand’uomo, che per esser gli Allobrogi non cittadini d’una città, ma popoli d’una provincia, errasse il traduttor d’Appiano nel dir la città degli Allobrogi (Cen. Pis. Diss. 2, c. 7). Ora come appunto abbiam veduto della voce Caput, così diceasi Civitas non meno di un corpo grande, che d’un piccolo, e non meno s’era formato da città, che da villaggi. Narra Tacito (Mor. Germ. mos est Civitatibus, or.) gl’instituti delle città, cioè delle molte sozietà e Republiche de’ Germani; e segue dicendo che niuna città (nullas urbes), cioè luogo murato, avean essi, ma solamente vici: ecco però come si usava tal termine ugualmente anche di que’ popoli e di quelle Comunità che non avean città alcuna. E quinci nasce che tante città si trovin negli antichi libri d’oscuri e d’ignoti nomi, perchè non erano quel ch’oggi intendiam per città, ma comunanze, denominate per lo più dal principal borgo o villaggio. Tali son da credere le città de’ Celelati e de’ Cerdiciati ricordate da Livio (lib. 32) in Liguria. Tali quasi tutti i popoli nel Trofeo d’Augusto descritti, e parimente quasi tutte le città di Cozie, annoverate nell’iscrizion dell’Arco di Susa (v. Ins. XXIX: Civitatium quae, ec. ) publicata da noi nell’Istoria de’ Diplomi. Quell’iscrizion dall’Olstenio (ad Cluv.); che colà si trasferì per rilevarla, si giudicò esser l’istessa che la Pliniana delle genti Alpine; ma si è or veduto com’è diversa, sette di que’ nomi contenendo, e altri sette dall’Istoria e dall’ antica Geografia non più intesi. Coteste Città Coziane, generalmente menzionate da Plinio, per Josia Simbero col solito equivoco fur dette urbes: ma potrebb’egli credersi che se tutte le riferite nell’Arco di Susa e nel Trofeo deifi Alpi fossero state città nel moderno senso, fossero della maggior parte sobissati anche i vestigj e perito fino il nome? e delle due nominate nella Bresciana lapida, quali non già ne’tempi Troiani, ma sotto gl’Imperadori erano in questi contorni, potrebb’egli credersi che si fossero ignorate da Strabone e da Plinio, ch’era di queste parti nativo? Abbiasi dunque per certo che le città de’ Vardacatesi e de’ Dripsinati altro non furono che due Comunità, quali dal principal vico, e nel quale tener si dovea il comun Consiglio, presero il nome. Per investigare ove si fossero le lor terre denominanti, secondo la regola altre volte da noi suggerita, basta seguir la traccia dei nomi. Ecco però come uno de’ principali luoghi nelle valli Bresciane è fino in oggi Gavardo. Chi dubiterà non esser questa la matrice dell’una di quelle antiche Comunità? Vedesi veramente nel marmo che gli antichi pronunziavano Vardagatesi, e non Gavardatesi; ma sì fatte trasposizioni di lettere e di sillabe sono sempre state frequenti, e molti nomi hanno patito trasfiguramento simile nel passar dal Latino al volgare. Caralis di Sardegna è passato in Cagliari; Ilerda di Spagna è passata in Lerida; negli stessi monti Bresciani Voberna, il cui nome si ha in antica pietra, è passata in Bovarno. De’ Dripsinati poi chi può dubitare non fosse centro la terra di Trissino, qual fino in oggi a tutta una valle dà il nome? Che fosse terra grande e considerabile, si può arguire anche dal vederla in un antico latercolo militare conservato a Firenze, in cui osservammo già Caio Geminio Vitale, che Dripsino professa per patria, com’altri vi professa Butrio (v. Diar. Ital. pag. 390). È Trissino nel montuoso del Vicentino dove piega verso il Bresciano; ma niente osta che quel Valerio Poblicola, di cui parla l’iscrizione, non potesse essere stato Patrono e Protettore di Comunità anche fuor del distretto suo, mentre bene spesso si cercavan esse il Protettore perfino a Roma. Bresciano ei si mostra dalla Tribù; ma i nomi di Valerio Catullo, portati dal nipote, discesa da Verona sembrano indicar la famiglia.
- ↑ In alcune erano Illlviri, diversi dalli Xviri. Bernard.
- ↑ Il Maffei scrisse nel suo esemplare stampato a questo luogo: V’è corso qualche equivoco (v. Ins. XVIII), e la parola Tortona vi si trova cancellata con un tratto di penna a freccia. — Gli Editori.
- ↑ Il Grutero ne ha due , non però sicurissime, e due altre il Fabretti.
- ↑ Forse gli Anziani d’uffizio si diceano Seniores; ma non è al caso qui.
- ↑ A questo luogo comincia una segnatura con linea a traverso, che mostra volesse forse l’Autore farvi qualche modificazione, e ivi cita in margine il passo di Plinio: Rheti et Vindelici omnes in multas civitates divisi. — Gli Editori.
- ↑ Se ne può citar mille esempi di Cicerone.