< Versi del conte Giacomo Leopardi
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Elegia II

Tornami a mente il dì che la battaglia
     D’amor sentii la prima volta, e dissi:
     Ahimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
Che gli occhi al suol tuttora intenti e fissi,
     5Io mirava colei ch’a questo core
     Primiera il varco ed innocente aprissi.
Ahi come mal mi governasti, amore!
     Perchè seco dovea sì dolce affetto
     Recar tanto desio, tanto dolore?
10E non sereno, e non intero e schietto,
     Anzi pien di travaglio e di lamento
     Al cor mi discendea tanto diletto?
Dimmi, tenero core, or che spavento,
     Che angoscia era la tua fra quel pensiero
     15Presso al qual t’era noia ogni contento?

Quel pensier che nel dì, che lusinghiero
     Ti si offeriva ne la notte, quando
     Tutto quieto parea ne l’emispero.
Ma tu inquieto, e felice e miserando,
     20M’affaticavi in su le piume il fianco,
     Ad ogni or fortemente palpitando.
E dove io tristo ed affannato e stanco
     Gli occhi al sonno chiudea, come per febre
     Rotto e deliro il sonno venia manco.
25Oh come viva in mezzo a le tenebre
     Sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi
     La contemplavan sotto a le palpebre!
Oh come soavissimi diffusi
     Moti per l’ossa mi serpeano, oh come
     30Mille ne l’alma instabili, confusi
Pensier mi si volgean! qual tra le chiome
     Talor de’ boschi zefiro scorrendo,
     Un lungo, incerto susurrar ne prome.
E mentre io taccio, e mentre io non contendo,
     35Che dicevi o mio cor, che si partia
     Quella per che penando ivi e battendo?
Il cuocer non più tosto io mi sentia
     De la vampa d’amor, che ’l venticello
     Che l’aleggiava, volossene via.

40Senza sonno i’ giacea sul dì novello,
     E i destrier che dovean farmi deserto,
     Battean la zampa sotto al patrio ostello,
Ed io timido e cheto ed inesperto,
     Ver lo balcone al buio protendea
     45L’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,
La voce ad ascoltar, se ne dovea
     Di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;
     La voce, ch’altro il fato, ahi, mi togliea.
Quante volte plebea voce percosse
     50Il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,
     E ’l core in forse a palpitar si mosse!
E poi che finalmente mi discese
     La cara voce al core, e de’ cavai
     E de le rote il fragorio s’intese;
55Orbo rimaso allor, mi rannicchiai
     Palpitando nel letto e, chiusi gli occhi;
     Strinsi il cor con la mano, e sospirai.
Poscia traendo i tremuli ginocchi
     Stupidamente per la muta stanza,
     60Ch’altro sarà, dicea, che ’l cor mi tocchi?
Amarissima allor la ricordanza
     Locommisi nel petto, e mi serrava
     Ad ogni voce il core, a ogni sembianza.

E lunga doglia il sen mi ricercava;
      65Com’è quando a distesa Olimpo piove
     Malinconicamente e i campi lava.
Ned io ti conoscea, garzon di nove
     E nove Soli, in questo a pianger nato
     Quando facevi, amor, le prime prove.
70Quando in ispregio ogni piacer, nè grato
     M’era de’ campi il riso, o de l’aurora
     Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato,
Anche di gloria amor taceami allora
     Nel petto, cui scaldar tanto solea,
     75Chè di beltate amar vi fea dimora.
Nè gli occhi a i noti studi io rivolgea,
     E quelli m’apparian vani per cui
     Vano ogni altro desir creduto avea.
Deh come mai da me sì vario fui;
     80E tanto amor mi tolse un altro amore?
     Deh quanto, in verità, vani siam nui!
Solo il mio cor piaceami, e col mio core,
     In un perenne ragionar sepolto,
     A la guardia seder del mio dolore.
85E l’occhio a terra chino o in se raccolto,
     Di riscontrarsi fuggitivo e vago
     Nè in leggiadro soffria nè in turpe volto:

Chè la illibata, la candida imago
     Contaminar temea sculta nel seno;
     90Come per soffio tersa onda di lago.
E quel di non aver goduto appieno
     Pentimento, che l’anima ci grava,
     E ’l piacer che passò cangia in veleno,
Per li fuggiti dì mi stimolava
     95Tuttora il sen: chè la vergogna il duro
     Suo morso in questo cor già non oprava.
Al Cielo, a voi, gentili anime, io giuro
     Che voglia non m’entrò bassa nel petto,
     Ch’arsi di foco intaminato e puro.
100Vive quel foco ancor, vive l’affetto,
     Spira nel pensier mio la bella imago,
     Da cui, se non celeste, altro diletto
Giammai non ebbi, e sol di lei m’appago.

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