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L’Impero dei Gran Mogol.
..... 24 gennaio 1913.
Il distacco tra l’India braminica e l’India islamitica si fa più intenso via via che si sale verso il Nord. Si direbbe che l’Islam prediliga in ogni parte del mondo le terre desolate, i deserti e le steppe; anche in India occupa l’immensa parte centrale e settentrionale e può servire a delineare i confini delle provincie riarse. Perchè è un preconcetto oleografico, una leggenda da libri d’avventura che l’India sia coperta da una vegetazione meravigliosa. Le foreste tropicali, dense, decorative come scenari da melodramma, occupano soltanto la costa del Malabar, l’isola di Ceylon, i monti Nir-Ghirli, le valli dell’Imalaya. Ma dove cessa il beneficio dei monsoni e delle pioggie periodiche, cioè in quasi tutto il Deccan e le pianure del nord, domina la magra vegetazione dell’Islam: scompaiono il cocco ed il banano, svelti compagni delle pagode, appaiono il palmizio rigido, il cipresso cimiteriale, compagni delle moschee e dei minareti.
Si viaggia da due giorni in queste ferrovie che chiudono in una rete fitta tutto l’Impero immenso, e che gareggiano con quelle americane in velocità vertiginosa. Ma il paesaggio, per giorni e giorni, resta invariato. L’immensa pianura fulva (il rosso della terra e il gracidìo dei corvi sono la nota visiva e auditiva di queste contrade) che durante la stagione delle pioggie rinverdisce in campi di riso e di miglio, è tutta riarsa in questi mesi di siccità. Le palme-palmira, gracilissime, s’innalzano nell’azzurro del cielo come caricature di palmizi, nibbi ed avvoltoi si librano nell’infinito abbagliante: all’orizzonte, sulla zona sanguigna, passano, come ombre cinesi, mandre velocissime di gazzelle. Fiancheggiano la linea grandi cacti a candelabro, tinti in rosso da una parte, dalla polvere sollevata dal vento della steppa, e alla sommità d’ogni fusto è appollaiato un avvoltoio meditabondo che al rombo del treno appena si degna di protendere il capo calvo sul collo serpentino o di distendere una delle immense ali macabre. Mandre di bufali e di zebù sollevano, voltano la testa indolenti, e falangi di corvi gracchiano sui loro dorsi gibbosi, s’avventurano fino alla bocca per beccarvi i tafani e le mosche. Si entra talvolta in foreste d’alberi enormi, dai tronchi nodosi e contorti: ma tutto è fulvo e riarso anche qui: i rami rivestiti di fronda arida, come le nostre quercie in dicembre, dànno al paesaggio una tinta invernale che stona col cielo implacabilmente estivo. Nella foresta morta spiccano zone di un bel verde biacca: miriadi di pappagalli minuscoli che ricordano le foglie vive, o fasci di brace azzurra e smeraldina: famiglie di pavoni appollaiati sugli alti rami. Poi si esce dalla foresta morta ed ecco ancora la steppa senza fine con i suoi cacti spettrali ed i suoi avvoltoi. Si divora lo spazio, il tempo passa, ma il paesaggio non muta.
È l’ora triste: l’ora in cui il viaggiatore si domanda a quale scopo ha lasciato l’Italia bella, anticipandosi questo paesaggio infernale. Distolgo lo sguardo dallo scenario triste. Siamo nel dining-car; indugiamo dopo il caffè, per avere intorno l’illusione di un po’ d’Europa che viaggia con noi, l’illusione che emana dalle vernici, dagli specchi, dalle stoviglie, dai cibi stessi, dalle salse chiuse in barattoli inglesi. Very comfortable, queste carrozze ampissime, dal doppio tetto spiovente, aerate da un triplo ventilatore; ma il congegno si è guastato e funziona il panka, il ventaglio immenso appeso al soffitto, che un servo indiano agita con una corda dal fondo della carrozza. Tutte le tavole sono occupate: funzionari inglesi, commercianti parsi, dignitari afgani. Al tavolo vicino sono sedute due francesi incontrate a Bombay, conosciute per caso, leticando all’agenzia Cook, e ritrovate qui, ancora per caso, con reciproca effusione di schietta esultanza. Fra tanti sconosciuti di tutti i colori, fra tante orribili favelle, dove l’inglese degenere è l’unica intelligibile, il francese, sia pure sulle labbra ritinte di due «pellegrinanti esuli dame», ci suona dolce come una lingua di casa. Signore con le quali si allibirebbe di mostrarci in una via europea, tanto sono imbellettate, ossigenate, inorpellate, impennacchiate; ma che qui, nel cuore dell’India sacra, aggiungono al paesaggio uno stridore pittoresco. Madama Angot, che ho sognato a Golconda, rivive dunque ancora nelle pronipoti senza paura! Già a Bombay ci avevano raccontate le loro gesta e le loro disavventure. Giovani, una giovanissima, parigine entrambe — parigine di Marsiglia o di Bordeaux — e nate all’arte, votate all’arte, hanno pellegrinato come «duettiste» tutti i caffè chantants della Tunisia e dell’Egitto. A Port-Said un impresario le ha scritturate per le colonie dell’Africa orientale fino a Zanzibar. Da Zanzibar sono fuggite con due ufficiali inglesi riparando a Bombay. Sole, sperdute ancora una volta, hanno tentato la fortuna a Calcutta. Deluse si dirigono oggi a Simla, nel Cachemire, per cantare in un music-hall che s’inaugura con la stagione elegante. Disfatte dal clima e dai disagi, lasse per troppe soste in troppe guarnigioni fameliche, sanno tuttavia conservare nella parola arguta, nel gesto col quale alternano il sorriso alla sigaretta, nella civetteria del ginocchio sovrapposto, la grazia francese unica al mondo! E guardo ed ammiro queste due passere sbandite che portano fino in queste solitudini il loro sorriso intrepido e la loro gaia mercatanzia.
Delhi, 25 gennaio.
— Delhi, Agra: Le royaume du Gran Mogol! Le Gran Mogol, Madame, qui avait un penchant pour les jolies parisiennes.
— Peut-on le voir, ce monsieur-là?
— È morto da trecento anni.
— Hélà! Nous arrivons toujours troptard....
Ci liberiamo dalla folla policroma dell’immensa stazione indiana. Fuori, ad attenderci, i più pittoreschi mezzi di locomozione: i yinricksharws, le carrozzelle in lacca e bambù su ruote modernissime da bicicletta, tirate di corsa da indigeni vociferanti, carrozze strane, triangolari, che il cocchiere guida seduto in avanti, sul timone sottile, diligenze barocche sovraccariche di ori, di fiocchi, di sonagli, trainate da coppie di zebù, il bove indiano, minuscolo, gibboso, velocissimo; e campeggianti in disparte, disposti in ordine, gli elefanti da nolo, recanti ognuno un cartello in varie lingue indicante la mèta, come da noi le carrozze tramviarie. Si sale sopra uno dei colossi, attraverso una specie d’arrembaggio inclinato e si sta in otto nel castelletto ad ogive. Misero equipaggio e misera bestia da nolo, che ebbe certo i suoi giorni splendidi nella reggia di qualche Maharajah, cent’anni or sono.... Oggi la pelle si è raggrinzata sull’immensa carcassa, come la corteccia degli olmi secolari; e non servono a ringiovanirlo la gualdrappa logora frangiata d’oro stinto, nè la truccatura bianca rossa azzurra, a cerchi vivaci, intorno agli occhi ed alla proboscide.
— Les pauvres oreilles! On les dirait de feuilles rongées par les chenilles!
È vero. Le orecchie immense, zebrate di nero, agitate di continuo, sono logore dagli anni e dai malanni, qua e là tagliate a grandi lobi, come le foglie corrose dai bruchi. Ma quanta intelligenza negli occhi minuscoli, dove s’alterna la bontà e la scaltrezza, la mansuetudine ed il risentimento.
Il cornac, un giovinetto, sta seduto alla budda sul collo possente e dirige la mole immensa con l’ankus, un bastoncino curvo a gancio che preme sulla fronte silenziosa, con un grido sommesso d’intesa. Nessuna bestemmia, nessuna ingiuria come nelle nostre vie occidentali. La mole s’avanza sicura come un congegno e il rumore delle zampe enormi che giunge dal basso imita un poco il rombo ritmico di un motore primitivo. Passiamo per ampie vie modernissime: luce elettrica, tram, automobili; c’interniamo in viuzze tortuose, dalle case altissime in legno dipinto e traforato con uno stile da confettiere, con tutti i colori delle cose dolci, gonfie di miradors, di loggie minuscole; infinite gallerie coperte cavalcano le vie, allacciano l’una all’altra le case misteriose.
La nostra cavalcatura ci mette all’altezza del primo piano e l’occhio gode, d’attimo in attimo, attraverso le verande aperte, le scene più intime e più diverse: una madre che consola un bambino che piange, un ufficio di mercanti parsi, dove cinque scribi in mitra di tela cerata sono seduti a modernissime macchine da scrivere, una casa indù semplice e linda, con non altro alle pareti candide che le incarnazioni di Brama, una casa maomettana a tappeti sontuosi dove un vecchio scarno, occhialuto sotto il turbante immenso, sta ginocchioni in mezzo alla stanza, picchiandosi il petto contrito, una scuola indigena dove venti monelli, in assenza del pedagogo, si protendono al nostro passaggio con occhi vivaci e denti abbaglianti, scagliandoci le fiche e le ingiurie; e, molte cortigiane, bajadere di bassa casta, riconoscibili al volto ignudo, alle vesti e ai monili, alla casa più adorna e più appariscente: strane case così aperte sulla via dall’immensa veranda da inquetare seriamente la pudicizia dei visitatori. L’elefante, che ha incontrato un confratello che giungeva in senso opposto, s’arresta per attendere che l’altro retroceda fino al prossimo cortile, e sostiamo di fronte, vicinissimi, a due cortigiane sorridenti. L’una ravvia con uno strano pettine quadro ed enorme i lunghi capelli nerissimi e lisci come due bende di raso tenebroso, l’altra protesa quasi fuori della veranda, in piena luce, tiene nella mano uno specchietto tingendosi con la destra, accuratamente, i sopraccigli arcuati. Tutti, in questo paese, uomini, donne, bambini, hanno occhi splendidi, già troppo neri, già troppo grandi, e la consuetudine del bistro, imposta per religione, li fa smisurati, inverosimili, conferisce a questi volti quel loro sguardo d’idoli assenti.
— Vois-tu, ma chère, quelle ruse ontelles à se farder? Elles maquillent seulement la paupière supérieure.
Si fissano alcuni secondi le orientali e le occidentali, poi l’elefante si muove e la scenetta dispare.
Si passa dalla città viva alla città morta quasi senza avvedercene. Finiscono le case abitate dagli uomini, cominciano quelle popolate dalle scimmie. Non più facciate policrome, verande fiorite, ma edifici vuoti come teschi, muri superstiti con loggie che guardano il nulla, o scalee, atrii sontuosi in granito ed in marmo che portano a palazzi che non sono più: tutto ciò che era legno è stato divorato dalla steppa. Ogni balaustro, ogni cimasa è coronata di code pendule o di faccie sogghignanti di quadrumani. E le ruine si prolungano all’infinito, tutta la steppa, fin dove l’occhio può giungere, e oltre, oltre ancora, è l’immenso ossario di una città morta e risorta dieci volte in quattro millenni, sotto dieci dominatori diversi. Ci si domanda per quale legge fatale e misteriosa una città debba evolversi come qualunque altra cosa viva, e rampollare qua e là sul suo ceppo decrepito, come la pianta che non vuol morire. Forse in nessuna parte del mondo l’archeologo trova un così vario tesoro d’architetture esposte. A Roma, in Egitto, in Grecia, in tutti i luoghi sacri al passato, risorge il fantasma di una civiltà sola che le esumazioni, i restauri, gli studi ci fanno vicina, certa, come una cosa presente. Qui è il caos dell’abbandono e dell’oblio, il convegno di tutte le ruine colossali e del tritume di ruine, un deserto di frantumi, così che l’archeologo ha la vertigine di essere sbalzato a cinquecento, a mille, a tremila anni nell’abisso del tempo: dall’ultimo splendore islamitico dei Gran Mogol al bramanesimo cupo, imponente delle prime costruzioni giaina e pali, nella notte delle origini vediche.
Ma dubito che gli archeologi soffrano di vertigini poetiche: dubito della sensibilità di coloro che sanno. In questa solitudine s’incontrano sovente figure biondiccie ed occhialute di studiosi russi, tedeschi, inglesi che osservano con fiero cipiglio, come sacerdoti indignati, la nostra gaiezza profanatrice. Siamo alla Porta d’Aladino, un’immensa porta superstite che dà un’idea della moschea smisurata che non è più. E la mole, di tale grandezza e di tale purezza architettonica che basterebbe a creare un modello perfetto di stile indo-moresco, appare lavorata, a chi s’avvicina, come uno stipo cesellato da un orafo: tutto il Corano con tutti i motivi più delicati dell’arte islamitica dei secoli d’oro adorna la grazia ogivale che s’innalza a più di trenta metri. Il vano è riempito dal più azzurro cielo dell’India, e il nostro elefante, immobile nella zona in ombra, quasi minuscolo sotto l’immensa ruina, completa quella bellezza armoniosa. Sente quest’armonia l’inglese eruditissimo — e scortese — che lavora in una baracca prossima e toglie misure e dirige tre scribi indigeni che disegnano e calcolano per non so che restauri governativi? Ho più fiducia nell’entusiasmo e nel buon gusto di queste meretrici di Francia; la più loquace delle due ha immagini adorabili.
— J’ai toujours revé ce tableau là quand j’étais fillette, sur un coussin de ma tante Véronique! Et voilà qu’il y a vraiment une chose comme ça.
Poi trascinando la compagna più vicina all’immensa parete cesellata e palpando con mano voluttuosa l’intrico della scoltura:
— Il faut se rappeler cette broderie ici, pour une robe d’intérieur!
Avanziamo a piedi tra le ruine che non hanno confini. Una vegetazione senz’anima: di latta, di cuoio, di stoppa, una vegetazione che non è mai stata viva s’alterna con la pietra morta; e sui cipressi, sui baniam, nodosi e contorti come in uno spasimo d’arsura, tra la steppa sanguigna e il cielo di cobalto, mettono una nota gaia di vita i signori del luogo: i pappagalli, i pavoni, le scimmie. Come s’illeggiadrisce un capitello giaina, tozzo di quattro teste elefantine di Ganesa: il Dio della saggezza, se un pavone vi balza improvviso, inondandolo di una cascata di zaffiro e di smeraldo! E le grate di marmo candido, frastagliate con tutti i motivi dell’Islam, come si ravvivano per le chiazze verdi dei pappagalli nani, le comuni garrule colorite, che giocano al trapezio tra i santi trafori! File interminabili di scimmie stanno sedute a congresso e volgono la testa tutte insieme al nostro passaggio, seguendoci a lungo, fissandoci con occhi di malinconia desolata.
A tratti s’incontra un Jogi, un santo che ha scelto a suo rifugio una di queste ruine. Tutta l’India abbonda di queste figure singolari; non sono fachiri leggendari, non fanno miracoli; sono asceti, ridotti dalla vita contemplativa allo stato di cose: hanno preso il colore della pietra e dei tronchi morti. Completamente ignudi sotto il sole che arde e che abbacina, con le chiome, il volto impiastricciato di cenere e d’argilla, stanno seduti nella posa nirvanica, più indifferenti e più insensibili degli idoli millenari. La consuetudine religiosa favorisce queste sètte: ognuno ha vicino una ciotola, ricolma ogni giorno dalla pietà popolare. Ne interroghiamo qualcuno, offrendo un frutto, una moneta. Ma non rispondono alle nostre parole, non battono ciglio alla nostra mano protesa, ci lasciano passare senza volgere il capo, già perduti nell’increato, nella salvezza del non desiderare più, già affrancati dall’eterno ritorno, risanati per sempre nella carne e nell’anima. Sembrano, a noi, i più miserabili avanzi umani, e sono forse i soli uomini invidiabili, le sole creature che non debbano ormai più riconoscere alcuna potenza terrena: «....Che puoi tu fare, o tiranno, che puoi tu fare a me che nei rigori dell’Imalaia o negli ardori del Deccan sono in perfetta letizia? Puoi percuotermi, o tiranno, puoi lacerarmi, ardermi, farmi morire, o tiranno, ma non puoi farmi male....».
Avanziamo nella tebaide.
Ed ecco fra tante cose morte, fra tante ruine senza nome, una cosa ben viva e ben nota, fresca di colore e di linea come se innalzata da ieri. Il minareto di Ktub. Ero preparato da fotografie e da stampe, anche prevenuto con una certa antipatia. È invece la più leggiadra cosa inutile che la noia d’un despota abbia scagliato al cielo. Una torre isolata alta trecento piedi, costrutta da un sultano e offerta alla figlia malata di malinconia, così come s’offre un gioiello. È veramente un gioiello che colpisce di lungi per l’altezza vertiginosa, dappresso per la squisita fattura.
Sembra un fascio di palmizi interminabili, legati, stretti a cinque altezze digradanti: così che l’insieme del fusto snello è tutto pieghettato come una gonna di seta; seta lucida e fine sembra la pietra rossa‐salmone, intarsiata d’ornati di marmo bianco. Lavori di mole e di pazienza inconcepibili ai nostri giorni, possibili nel tempo andato, quando un popolo intero era stromento cieco e concorde del capriccio d’un despota. Forse avevano un po’ tutti l’anima di Luigi di Baviera, questi sultani leggendari che profondevano tesori per concretare i loro sogni in moli di marmo e d’alabastro. Per gli occhi di una bella distruggevano la loro città, costruivano una città nuova, come il Maharajah Suvan-Ge-Sigg II che nel 1628 abbandonò Amber, l’antica capitale del suo regno, e fondò Giaipur, la città fantastica tutta color di rosa, eretta in poco più di tre anni! Costruivano palazzi, templi, giardini, e li abbandonavano talvolta, prima che fossero compiuti, già sazi del sogno che il popolo tardava a concretare in pietra.
Si sale lungo il fusto eccelso, sostiamo a riposare alla terza, alla quarta veranda circolare, in marmo traforato che ci sospende nel vuoto e dà la voluttà della più acuta vertigine, e dall’alto la desolazione appare più disperata, occupa tutto l’orizzonte come un mare di lava e di scorie: si pensano veramente come eruzioni spaventose le invasioni delle orde giaina, pali, afgane, mongole che si riversarono dall’Imalaia e sovrapposero ruine a ruine sulla pianura maledetta da Dio. Poco lungi dal minareto di Ktub, fra sepolcri d’un tempo immemoriale, s’alza un obelisco che discorda con la grazia leggera e la tinta carnicina del cimelio moresco, un obelisco barbaro, tutto di ferro, elevato — dice l’iscrizione sanscrita — duemila anni fa dal Raya Dhava per celebrare con una cosa eterna la sua vittoria sulle tribù Valhihas. È alto quindici metri, fuso in un pezzo solo, documento misterioso di una civiltà spenta, quasi dimenticata e che pur possedeva i mezzi di gittare una mole di metallo che inquieterebbe la nostra industria modernissima.
Anche qui eruditi indigeni ed europei: archeologi, periti, architetti che prendono modelli e misure. L’Inghilterra s’accinge ad un’opera colossale: dissodare l’ossario delle città morte, restaurare le ruine, ordinarle decorosamente alla luce del sole. Opera degna, ma che non so quanto possa giovare alla poesia di queste memorie.... Certo ringrazio il cielo di visitarle oggi, nel loro abbandono desolato.
È l’ora torrida. Ed è anche l’ora del pasto. Le nostre compagne «qui ont soupé des ruines» ci ricordano che abbiamo le provvigioni con noi. Cosa provvidenziale perchè l’unica bettola nella Porta di Aladino ha un odore di concia che rivolta lo stomaco. Vi comperiamo soltanto un ananasso e uva moscata enorme, freschissima, giunta dai monti del Kabul in certe scatole fatte d’immense foglie coriacee cucite con lunghi fili di gramigna. Una delizia che disseta e consola sotto questo cielo di fiamma. E seguiti dai boys e dal cornac si cerca il rifugio meridiano; non si ha che l’imbarazzo della scelta regale: una moschea, un atrio moresco, una reggia pali, un tempio giaina. Scendiamo in un ipogeo conosciuto dai boys: un rifugio d’ombra e di frescura, che sarebbe tetro se non fosse di marmo candido. Grosse colonne quadre reggono il soffitto a cubi sovrapposti, e tutto è a blocchi monolitici, in uno stile incerto alla mia ignoranza, uno stile che ricorda le costruzioni egizie più antiche, o assire, o etrusche, o fenicie, quando tutte le architetture neonate si somigliavano un poco. Riceviamo luce da una porta triangolare e da quattro finestre triangolari, quali non avevo sognate mai, e poichè siamo nell’ombra e fuori è la vampa del meriggio tropicale i cinque triangoli si disegnano rossi come le aperture d’una fornace immane. E nella brace dei cinque triangoli si profilano figure di leggenda: aridi palmizi lontani, l’ogiva nitida della porta d’Aladino, una trina candida vicinissima: il balaustro di una moschea, il nostro elefante meditabondo, rigido sulle quattro zampe a colonna, immobile come i suoi fratelli di pietra....
Ora di sogno. Ristoro e sollievo della frescura e della penombra, piacere indefinibile di sedere con gli amici, in cerchio, al pasto singolare, voluttà un poco sacrilega di avere a compagne queste due profanatrici che dicono e cantano cose enormi tra le pareti sacrosante. Ora di sogno. La realtà scompare. Le cose si alterano, ingigantiscono, diventano favolose e magnifiche, come la noce, il sassolino, lo zoccolo toccati dalla bacchetta magica della leggenda. E dimentico. Vedo con occhi d’allucinazione grandiosa il tempio ruinato, il misero elefante da nolo, i poveri boys a mezza rupia, gli amici e il pasto frugale, e queste due vagabonde delle quali non oserebbe vantarsi uno studente occidentale.
Sono l’imperatore Acbar, il più possente dei Gran Mogol, e questo è il mio palazzo; questo è un banchetto servito da trecento schiavi ad ambasciatori della Serenissima; queste sono due «cristiane» rapite dai corsari sulle coste di Barberia, vendute al Negus d’Etiopia, donate dal Negus allo Scià di Persia e offertemi dallo Scià mio cugino, giunte vergini ed impuberi fino al mio serraglio; due cristiane bionde da aggiungere alle mie settecento concubine di tutti i colori....
Guai se non si completasse col sogno il magro piacere che la realtà ci concede!...