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Agra: l’immacolata
IX XI

Agra: l’immacolata.

Agra, 27 gennaio.

Ad Agra, più ancora che a Delhi, si può rivivere un’ora nel passato favoloso dei Gran Mogol. Se l’ultimo di essi: Sha-Jehan s’alzasse dal suo mausoleo e prendesse per mano la sposa dilettissima: Montaz-i-Mahal, e uscissero entrambi dalla Reggia funeraria: il Tay-Mahal, ritroverebbero riconoscibile ancora la città dei loro splendori, e rispettati dal tempo e dagli uomini i loro palazzi magnifici. Palazzi uniti, sovrapposti, innalzanti a settanta metri il loro vario profilo, simili piuttosto ad un ammasso titanico di castelli feudali che ad una reggia di sogno. Ma la loro grazia leggera fiorisce in alto, dall’altra parte, verso il fiume Giumma, verso la pianura sconfinata. Dalla città vedo soltanto le basi di arenaria sanguigna, le mura ciclopiche, le torri possenti, destinate alla difesa e all’offesa. Questi forti che gli imperatori mongoli fondavano in India erano campi trincerati, d’una possanza, di una mole, di una magnificenza inconcepibile al tempo nostro, villaggi muniti e fortificati dove quei tiranni dall’anima di guerriero, di artista ed asceta, adunavano quanto potesse appagare i sensi e lusingare gli spiriti: dalla zenana voluttuaria alle sale di governo e di giustizia, dai bagni, dalle palestre alle moschee della purificazione, al mausoleo dell’ultimo riposo. Era una città regale sospesa sulla città del popolo, che serviva prono, abbacinato da tanto splendore.

Passiamo il vallo fortificato, le torri, le porte pesanti. Si sale per scalee fosche, sotto archi medioevali, si percorrono androni a feritoie e a casematte, e tutto è in arenaria sanguigna, tutto è tetro e massiccio, evocante nel suo silenzio l’urlo guerriero e il fragore delle armi. Dove poteva svolgersi la vita voluttuosa dei poeti in turbante e delle belle dagli occhi interminabili? Si sale, si sale nelle viscere oscure della mole millenaria, dove la luce non giunge che da ogive sottili, da feritoie scarse, dalle quali appare sempre più in basso la città sterminata, si sale, si sale nel labirinto tenebroso.

Ed ecco, con un moto istintivo ed improvviso, le mani si portano a difesa degli occhi feriti dalla luce abbacinante d’un nevaio. Siamo giunti nel regno dei marmi immacolati, nella città superna dei tiranni. Un terrazzo immenso, la sala delle udienze, candido come tutti gli altri edilizi, con non altro che un trono di marmo nero, per il Gran Mogol; intorno ricorrono arcate che dànno l’illusione d'una grotta di latte congelato, a stalattiti geometriche, dove il candore è sottolineato da una linea d’onice nerissima. L’onice, l'oro, l’argento, la turchese, il porfido sono usati con scaltra leggerezza, in gracili motivi floreali o in linee che seguono il frastaglio complicato delle trine marmoree, all’infinito; così che non è menomato, ma accresciuto l’effetto candido dell’insieme. Tutto è di marmo immacolato, e l'eleganza si mostra soltanto nel traforo e nella cesellatura, portate all’ultimo limite d’un’arte inimitabile. Le sale da bagno, dalle vasche rettangolari, dove si discende per tre, quattro gradini, sembrano attendere nel loro candore levigato il flutto dell’acqua odorosa, le carni brune e bionde, le risa argentine delle sultane quindicenni che dormono da secoli nella pianura sottostante....

Avanziamo nell’infinito candore. Verso il fiume la mole degli edifici guarda a picco sul piano sottostante ed è una fioritura più intensa di trine marmoree, di loggie, di miradors, di specule dove le belle sognavano le cose cantate dai poeti del tempo, leggevano le strofe persiane a venti rime complicate come una formula algebrica, o le novelle licenziose, o su Corani alluminati pregavano per il ritorno d’un assente.

Si passa da sala in sala, e le sale sono senza porte, così che formano prospettive di sogno immacolato, allee di trine candide che si prolungano all’infinito. Stupisce la nitida freschezza di queste lastre sottili di marmo, traforate fino all’inverosimile; lastre che ricordano immensi ricami a giorno, tesi tra due colonne e non pareti concrete: la mano vi si appoggia con esitanza, meravigliandosi della rigidezza secolare. Il tempo che sfalda il granito, precipitando templi e obelischi, ha poca presa sul marmo. Questi miracoli di grazia sembrano fatti ieri. E certo gl’invasori ebri di saccheggio e di stupro che irrompevano spezzando e rovesciando ogni cosa, s’arrestavano dinanzi ai velari candidi, abbassavano la scimitarra e la clava, come dinanzi ad un incantesimo.

Sosto a lungo ad una delle specule dove le belle dei tempi andati portavano la loro malinconia. E la vita dei Gran Mogol è tutta nello scenario che ho d’intorno. La zenana, l’arem che occultava gelosamente i più bei fiori di carne, poi i terrazzi immensi delle udienze, le sale di giustizia dove il sultano e la corte, abbaglianti di stoffe vivaci e di gioielli, formavano sul marmo candido un quadro che abbacinava il popolo genuflesso, poi i vasti cortili delle giostre, per le lotte delle tigri e degli elefanti, acre voluttà sanguinaria che i tiranni alternavano a canti di giullari e a danze di devadasis, negli alti giardini pensili. E intorno, a picco, le mura ciclopiche, simbolo d’una potenza senza pari; da un lato, contenuta in una cerchia cupa, simile veramente ad una perla chiusa in uno stipo, la Moschea della Perla, bianca, translucida, semplice di linea e solenne; e là, in fondo alla città, candido nella sua cerchia di cipressi e di palme, il Tai-Mahal: il più puro esemplare di bellezza funeraria che la speranza umana abbia innalzato alla disperazione della morte.

Agra, 18 gennaio.

Oggi, costeggiando le rive del Giumma, contemplo dal basso il maniero ciclopico e stento a ritrovare con gli occhi le loggie, le verande di trina marmorea dove ieri ho sognato a lungo nel tramonto di brace. I palazzi di marmo incantato appaiono come un sottile frastaglio niveo alla sommità della mole rossigna, la quale esisteva già mille, due mila anni or sono, ai tempi delle origini braminiche, ai tempi dei re Giaina e Pali. I Gran Mogol, ultimo giunti, sovrapposero alla mole espugnata la loro dimora aerea, ed il granito fulvo della fortezza ciclopica fiorì di marmi candidi nell’azzurro del cielo.

Oggi i signori e le belle dormono al piano in un’altra reggia: quella dei morti, più meravigliosa della reggia dei vivi: il Tai-Mahal.

Il Tai-Mahal! M’avvio al miracolo dell’Oriente con la mia diffidenza consueta per le cose troppo magnificate dalla leggenda. E mi preparo alla delusione entrando nel vasto parco alberato di una vegetazione cimiteriale: palmizi e cipressi. I cipressi formano una galleria sul mio capo, giganti islamitici che fondono i tronchi e la fronda di bronzo quasi nero. Ed ecco, d’improvviso, la meraviglia unica del mondo. Poche volte la realtà ha superato la mia aspettativa, poche volte una bellezza m’ha investito così violentemente, mozzandomi la parola ed il respiro, forzandomi all’ammirazione ed alla riverenza completa.

Sullo scenario a due tinte: l’azzurro cielo e il bronzo cupo dei cipressi, s’innalza la più immacolata e gigantesca mole sognata da questi sultani amici del candore. Una semplicità che sfugge alla parola e all’indagine estetica. Sullo zoccolo immenso una cupola eccelsa, e ai lati quattro minareti scagliati al cielo: non altro. È il motivo classico dell’India islamitica, il motivo profanato da tutta la chincaglieria occidentale, esecrato negli scenari d’operetta, nei lavori ad uncinetto e nelle oleografie: ma divino nella verità del modello! Di marmo candido, eterno, e pure sembra fatto della sostanza labile e translucida delle nubi; le nubi a cumulo, tondeggianti, che s’alzano in questo momento dietro la cupola immacolata, quasi a gareggiare in grazia ed in candore, formano nel cielo di turchese un contrasto forse meno luminoso e meno immacolato. L’azzurro del cielo, il candore delle nubi e dei marmi, il bronzo cupo dei cipressi, tutto è riflesso in un gran lago tranquillo che addoppia il miracolo, con il candore preciso di certi smalti persiani.

Avanziamo quasi increduli, temendo dell’incantesimo creato da un negromante, di uno scenario che debba dileguare come la Fata Morgana; ed ora soltanto mi meraviglio della mole del mausoleo. Il tripudio dei colori m’aveva fatto smarrire il senso della misura. Ma una teoria di pellegrini che sale le scalee sembra una schiera minuscola d’insetti, così lenti nel giungere da un portico all’altro. Arriviamo anche noi alla mole che abbaglia. E da presso appare all’occhio abbacinato quanto l’arte costretta alla semplicità assoluta possa tuttavia fare nel marmo, e vediamo il Tai qual è veramente: una mole ed un gioiello, l’edificio d’un Titano e il capolavoro d’un cesellatore moresco, ottenuto con gli scarsi motivi islamitici: ornati geometrici, ghirlande di parole sacre, gracili motivi floreali. E anche qui l’onice nerissima, intagliata e immessa nel marmo con una tecnica sconosciuta al tempo nostro, segue ogni voluta, ogni traforo, aumenta il candore opalescente dell’insieme, come una striscia di kool, tracciata dal pennello sottile sotto la palpebra, aumenta il balenio perlaceo nell’occhio d’una bajadera.

Le porte d’argento — l’argento sul candore del marmo! — riproducono l’intero Corano, a parole scomposte e ricomposte come in una cabala.

Entro nel mausoleo, m’avanzo verso i due mausolei dove dormono da tre secoli i coniugi amanti che vollero con l’amore vincere la morte. Poichè tutti sanno che il Tai-Mahal fu eretto dall’imperatore Shah-Zehan, disperato folle per la morte immatura della sposa: la bella Mahal che sorride ancor oggi, megli smalti e nelle miniature indo-persiane, morta nel 1618 non di mal sottile, come vuole la leggenda sentimentale di qualche viaggiatore, ma nel dare santamente la luce ad un settimo figlio. E non so dire quanto m’intenerisca quell’amore passionale e tragico in quel romanzo onestamente coniugale. Si racconta che il vedovo impazzito, s’aggirasse per le sale della reggia aerea, vivesse come se la sposa fosse sempre con lui, sorridendo, parlando, chiamandola a nome, indicandola ai figli e ai cortigiani allibiti. E la vita che visse ancora fu tutta un’allucinazione passionale, un’amorosa convivenza con il fantasma visibile a lui solo, che egli accompagnava per le terrazze e per i giardini, presentava nei banchetti e nelle feste ai cortigiani e al popolo impietosito.

Da quella demenza è sorto questo miracolo funerario. L’amore ha veramente vinto la morte. Il mausoleo tre volte secolare è intatto come se costrutto da ieri. I coniugi amanti dormono vicini, in eterno. Sotto la cupola eccelsa più di qualunque nostra cattedrale, luminosa, nell’ombra senza finestre, d’una luce sua propria, s’intrecciano con delicati motivi floreali le sentenze del Corano. Sentenze indecifrabili per me, ma che certo devono ripetere ai due amanti le parole che le religioni di tutta la terra dissero in ogni tempo all’amore e alla morte.

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