< Viaggio al centro della Terra
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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
IV
III V

IV.

«È partito? domandò Marta accorrendo al rumore della porta di strada che, violentemente richiusa, aveva scosso tutta la casa.

— Sì, risposi, proprio partito.

— E il suo pranzo? domandò la vecchierella.

— Non pranzerà.

— E la sua cena?

— Non cenerà.

— Come! disse Marta giungendo le mani.

— No, mia buona Marta, egli non mangerà più, nissuno più mangerà in tutta la casa. Mio zio Lidenbrock ci mette a dieta fino al momento in cui avrà decifrato un vecchio garbuglio assolutamente indecifrabile.

— Gesù! non ci rimane adunque più che morire di fame!»

Io non osava confessare che, avendo a fare con un uomo così cocciuto come mio zio, quest’era una sorte inevitabile.

La vecchia serva gravemente sbigottita ritornò in cucina gemendo.

Quando fui solo mi venne il pensiero di andare a dir tutto a Graüben; ma come lasciar la casa? Il professore poteva rientrare da un momento all’altro, e s’egli m’avesse chiamato? e se avesse voluto ricominciare questo lavoro logogrifico che si sarebbe invano proposto al vecchio Edipo? E se io non avessi risposto al suo appello, che mai sarebbe avvenuto?

Il partito più saggio era di rimanere.

Appunto un mineralogista di Besançon ci aveva mandato una collezione di geodi silicei che bisognava classificare.

Mi posi all’opera. Sceglievo, appiccicavo i cartellini, disponevo nella loro vetrina tutte queste pietre vuote, dentro le quali si agitavano piccoli cristalli.

Ma questa occupazione non mi assorbiva tutto. La faccenda del vecchio documento mi preoccupava stranamente; la mia testa ribolliva e mi sentivo in preda ad una vaga inquietudine; presentivo una catastrofe vicina.

Da lì a un’ora i miei geodi erano schierati con ordine. Mi lasciai allora cadere nel gran seggiolone di Utrecht, colle braccia dondolanti e la testa riversa. Accesi la mia pipa a lunga canna ricurva, il cui fornello scolpito rappresentava una najade indolentemente sdraiata e seguii collo sguardo il progresso della carbonizzazione che della mia najade faceva a poco a poco una negra compita. Di tratto in tratto ascoltavo se risuonassero passi su per le scale. Nulla. Dove poteva essere mio zio in quel momento? Lo vidi colla mente correre sotto i begli alberi della strada di Altona, gesticolare, battere il muro col bastone, flagellare le erbe decapitando i cardi e turbando nel loro riposo le cicogne solitarie.

Ritornerebbe egli trionfante o scoraggiato? Chi dei due la vincerebbe, egli sul segreto o il segreto su lui? Io m’interrogava così, e sbadatamente presi fra le dita il foglio di carta sul quale si schierava l’incomprensibile serie di lettere che avevo tracciata, e ripetevo fra me e me:

«Che vuol dir ciò?»

Cercai di aggruppar le lettere in modo da formare delle parole. Impossibile. Riunendole a due, tre, cinque o sei non ricavavo assolutamente nulla d’intelligibile. Vero è che le lettera quattordicesima, quindicesima e sedicesima formavano la parola inglese ice; che l’ottantaquattresima, l’ottantacinquesima e l’ottantaseiesima formavano la parola sir, e infine nel corpo del documento alla terza linea notai pure le parole latine rota, mutabile, ira, nec, atra.

«Diamine, pensai, queste ultime parole parrebbero dar ragione a mio zio circa la lingua del documento! Inoltre, alla quarta linea io vidi anche la parola luco, che significa bosco sacro; è vero che nella terza linea si legge la parola tabiled di struttura perfettamente ebraica, e nell’ultima linea i vocaboli mer, arc, mère, che sono schiettamente francesi.»

C’era di che perdere la testa! Quattro diversi idiomi in quella frase assurda. Quali rapporti potevano mai esistere fra le parole ghiaccio, signore, collera, crudele, bosco sacro, mutabile, madre, arco o mare? Solo il primo e l’ultimo si accostavano facilmente; nessuna meraviglia che in un documento scritto in Islanda si trattasse d’un mare di ghiaccio. Ma da ciò a intendere il resto del criptogramma, ci correva un tratto.

Mi dibattevo adunque contro un’insolubile difficoltà; il cervello mi si riscaldava, gli occhi traballavano sul foglio di carta e le centotrentadue lettere sembravano volteggiarmi intorno.

Ero in preda ad una specie d’allucinazione; soffocavo, mi abbisognava l’aria e macchinalmente mi feci vento col foglio di carta di cui il diritto e il rovescio si presentavano successivamente a’ miei sguardi.

Qual fu la mia meraviglia quando, in uno di questi rapidi movimenti, nel momento in cui il rovescio si rivolgeva verso di me, credetti veder apparire parole perfettamente leggibili, parole latine, fra le altre craterem e terrestre!

Di repente la luce si fece nel mio spirito; questi soli indizi mi fecero intravedere la verità; avevo scoperto la legge del criptogramma. Per leggere il documento non era nemmeno necessario di leggerlo attraverso il foglio rovesciato! Tal quale m’era stato dettato poteva essere letto correntemente; tutte le ingegnose combinazioni del professore si avveravano; egli aveva avuto ragione per la disposizione delle lettere, per la lingua del documento, era mancato un nonnulla perchè potesse leggere da un capo all’altro questa frase latina, e tale nonnulla me l’aveva dato il caso.

Figurarsi com’ero commosso! i miei occhi si turbarono, non potevo servirmene; avevo disteso il foglio di carta sulla tavola e mi bastava gettarvi uno sguardo per divenire possessore del segreto. Finalmente riescii a calmare la mia agitazione; m’imposi di far due volte il giro della camera per quietare i miei nervi, e tornai a sprofondarmi nel vasto seggiolone.

«Leggiamo!» esclamai dopo d’aver rinnovato ne’ miei polmoni un’ampia provvigione d’aria.

Mi chinai sulla tavola, posi il dito successivamente sopra ogni lettera e senza arrestarmi, senza titubare un istante pronunziai ad alta voce l’intera frase.

Ma quale stupore, qual terrore m’invase! Rimasi da principio come fulminato. Che! ciò ch’io aveva letto era avvenuto? un uomo aveva avuto tanto audacia per penetrare?...

«Ma no! ma no! sclamai dando un balzo, mio zio non lo saprà. Per poco ch’egli venisse a conoscere simile viaggio, vorrebbe cavarsene la voglia anche lui! io so che nulla potrebbe arrestarlo! egli è un geologo così determinato che partirebbe, malgrado tutto e tutti, e mi condurrebbe seco, e noi non ritorneremmo mai più. Oh mai, mai!»

Io mi trovava in un eccitamento difficile a descrivere.

«No, no, ciò non avverrà mai, dissi con energia, e poichè posso impedire che simile idea venga in mente al mio tiranno lo farò. Voltando e rivoltando questo documento egli potrebbe per caso scoprirne la chiave; distruggiamolo.»

C’era un avanzo di fuoco nel caminetto. Afferrai non solo il foglio di carta ma anche la pergamena di Saknussemm e con mano febbrile stavo per gettare il tutto sui carboni e annullare il pericoloso segreto, quando la porta del gabinetto si aprì e mio zio apparve.

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