< Viaggio al centro della Terra
Questo testo è stato riletto e controllato.
Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
V
IV VI

V.

Ebbi appena il tempo di ricollocare sulla tavola il malcapitato documento.

Il professore Lidenbrock pareva profondamente assorto. Il suo pensiero dominante non gli lasciava un istante di requie; egli aveva evidentemente scrutato, analizzato la cosa e, poste in opera tutte le forze dell’immaginazione durante la passeggiata, ritornava per tentare qualche nuova combinazione.

Infatti, si assise nel seggiolone, e, presa la penna incominciò a scrivere formole che rassomigliavano a un calcolo algebrico.

Io seguiva collo sguardo la sua mano fremente e non perdevo un solo de’ suoi movimenti. Stava egli per produrre inopinatamente un risultato insperato? Tremavo senza ragione poichè la sola vera combinazione essendo già trovata, ogni altra ricerca diveniva necessariamente vana.

Durante tre lunghe ore mio zio lavorò senza parlare, senza sollevar il capo, cancellando, correggendo, raschiando, ricominciando mille volte.

Io sapeva che s’egli fosse riuscito a disporre le lettere secondo tutte le combinazioni possibili avrebbe trovato la frase fatta. Ma sapevo altresì che venti lettere soltanto possono formare due quintilioni, quattrocentotrentadue quattrilioni, novecentodue trilioni, otto miliardi centosettantasei milioni e seicentoquaranta mila combinazioni. Ora nella frase vi erano centotrentadue lettere e queste centotrentadue lettere davano un numero di frasi diverse composto per lo meno di centotrentatrè cifre, numero quasi impossibile ad esprimere che sfugge ad ogni apprezzamento.

Io era rassicurato circa questo mezzo eroico di risolvere il problema.

Tuttavia il tempo passava; venne la notte, i rumori della strada tacquero, e mio zio sempre incurvato sopra la sua bisogna non vide nulla, nemmeno la buona Marta che socchiuse l’uscio; non udì nulla, nemmeno la voce della degna vecchierella che diceva:

«Il signore, cenerà questa sera?»

Però Marta dovette andarsene senza risposta.

Dal canto mio, dopo d’aver resistito per qualche tempo fui preso da un sonno invincibile; mi addormentai sul canapè mentre mio zio Lidenbrok calcolava, cancellava senza riposo.

Quando mi destai, la domane, l’infaticabile lavoratore era ancora all’opera. Gli occhi arrossati, il colorito pallido, i capelli attorcigliati fra le dita, i pomelli delle guancie imporporati rivelavano la sua lotta tremenda coll’impossibile, e in quali fatiche dello spirito, e in quale tensione di cervello le ore fossero passate per lui.

Davvero n’ebbi pietà e, nonostante i rimproveri ch’io mi credeva di fargli, una certa commozione mi vinceva. Il pover’uomo era così invasato dalla sua idea che dimenticava di andare in collera; tutte le sue forze vive si concentravano in un punto solo; siccome non sfuggivano per la loro ordinaria uscita, si poteva temere che la loro tensione non lo facesse scoppiare da un momento all’altro.

Potevo con un solo gesto disserrare la morsa di ferro che gli stringeva il cranio, con una parola sola! e non lo feci!

Pure avevo buon cuore. Perchè mai rimasi muto in simile occorrenza? Nell’interesse stesso di mio zio.

«No, no, ripetei, no, non parlerò! egli vorrebbe andarvi, io lo conosco, nulla potrebbe arrestarlo; ha un’immaginazione vulcanica, e sol per fare ciò che altri geologhi non hanno fatto, arrischierebbe la vita. Tacerò, serberò questo segreto di cui il caso mi ha fatto padrone; scoprirlo sarebbe tutt’uno come uccidere il professore Lidenbrok! ei lo indovini se può, ma io non voglio già avermi a rimproverare un giorno d’averlo condotto alla sua perdita!

Com’ebbi risoluto ciò, incrociai le braccia ed attesi. Ma io aveva contato senza un incidente che avvenne alcune ore dopo.

Quando la buona Marta volle uscir di casa per andare al mercato trovò chiusa la porta. La grossa chiave non era nella toppa; chi l’aveva tolta? Mio zio evidentemente quando rientrò alla vigilia dopo la sua passeggiata precipitosa.

L’aveva egli fatto apposta? Era sbaglio? Voleva egli sottometterci ai rigori della fame? La cosa mi parve molto grave; come mai Marta ed io dovevamo esser vittima d’una situazione che non ci toccava menomamente. Pure doveva essere così, e ricordai d’un fatto tale da spaventarci. Infatti pochi anni prima, quando mio zio lavorava alla sua gran classificazione mineralogica, rimase quarantott’ore senza mangiare e tutta la famiglia dovette conformarsi a questa dieta scientifica; ricordavo com’io vi avessi guadagnato crampi di stomaco assai poco piacevoli per un giovinotto piuttosto vorace.

Ora mi parve che la colazione fosse per fallire come la cena della vigilia; e tuttavia risolvetti di essere eroico e di non cedere alle fitte della fame. Marta prendeva la cosa sul serio e si desolava; quanto a me l’impossibilità di lasciar la casa mi dava maggior pensiero per una ragione che si comprende.

Mio zio lavorava sempre; la sua immaginazione si smarriva nel mondo ideale delle combinazioni; viveva lontano dalla terra e veramente al di fuori dai bisogni terrestri.

Verso il mezzodì la fame mi punse sul serio. Marta innocentissimamente aveva divorato alla vigilia le provviste della credenza, in modo che non rimaneva più nulla in casa, e nondimeno tenni fermo facendomene come un puntiglio d’onore.

Suonarono le due. La cosa diveniva ridicola e intollerabile; io apriva occhi smisurati e incominciavo a dire a me stesso che esageravo l’importanza del documento, che mio zio non vi presterebbe fede, che vedrebbe in ciò una semplice mistificazione e che alla peggio, s’egli volesse tentar l’avventura, lo si tratterrebbe suo malgrado, infine che egli stesso poteva scoprire la chiave del criptogramma, e ch’io non ci avrei guadagnato altro fuorchè la mia dieta.

Queste ragioni, che alla vigilia avrei respinto con sdegno, mi parvero eccellenti; trovai perfino assurdo l’aver aspettato così lungamente e presi il partito di dir ogni cosa.

Cercavo adunque una maniera di entrare in materia che non fosse troppo brusca, quando il professore si alzò, mise il cappello e si preparò ad uscire.

«Come! lasciar la casa e chiuderci un’altra volta! Non è possibile!

«Zio!» dissi.

Ma egli non parve intendermi.

«Zio Lidenbrock! ripetei alzando la voce.

— Che c’è? rispose come uomo svegliato all’improvviso.

— E così? questa chiave...

— Qual chiave? La chiave della porta?

— Ma no, esclamai, la chiave del documento!»

Il professore mi guardò al disopra de’ suoi occhiali; vide senza dubbio qualche cosa insolita nella mia fisonomia, poichè mi prese vivamente il braccio e, non potendo proferir parola, m’interrogò collo sguardo. Nè mai domanda fu formulata in maniera più precisa.

Io scossi la testa dall’alto in basso.

Egli tentennò la sua con una specie di pietà, come se avesse a fare con un pazzo.

Io feci un gesto più affermativo.

I suoi occhi mandarono un vivo bagliore, la sua mano divenne minacciosa.

Questa conversazione muta in siffatte condizioni avrebbe interessato lo spettatore più indifferente; e davvero io era giunto a tale, da non osar più parlare, per paura che mio zio non mi soffocasse nei primi amplessi di gioia; se non che egli divenne così pressante che mi convenne rispondere.

«Sì, questa chiave!... il caso!...

— Che dici! esclamò con una commozione indescrivibile.

— Ecco, diss’io porgendogli il foglio di carta sul quale avevo scritto, leggete.

— Ma ciò non significa nulla! rispos’egli spiegazzando la carta.

— Nulla, se s’incomincia a leggere dal principio, ma dalla fine...»

Non avevo ancora finito la mia frase che il professore gettava un grido, meglio che un grido, un vero ruggito! Una subita luce si faceva nel suo spirito. Egli era trasfigurato.

Ah! ingegnoso Saknussemm! tu avevi dunque incominciato dallo scrivere la tua frase al rovescio? e precipitandosi sul foglio di carta coll’occhio torbido, la voce commossa, lesse tutto il documento risalendo dall’ultima lettera alla prima.

Era concepito in questi termini:

In Sneffels Yoculis craterem kem delibat
umbra Scartaris Julii intra calendas descende,
audas viator, et terrestre centrum attinges.
Kod feci. Arne Saknussemm.

Queste cattivo latino può essere voltato così:

Discendi nel cratere dello Yocul di
Sneffels che l’ombra dello Scartaris viene
a lambire innanzi le calende di luglio,
viaggiatore audace, e tu perverrai
al centro della Terra. La qual cosa io feci
Arne Saknussemm.

Mio zio a tal lettura diè un balzo, come se avesse inopinatamente toccato una bottiglia di Leida. Era magnifico per l’audacia, la gioia e la convinzione. Andava e veniva, si stringeva la testa fra le mani, mutava di posto le seggiole, ammucchiava i libri, gettava in aria (cosa da non credersi) i suoi geodi preziosi, avventava qui un pugno, là uno scappellotto. Finalmente i suoi nervi si quetarono e, come uomo sfinito da soverchio consumo di fluido, ricadde nel suo seggiolone.

«Che ora è? domandò dopo alcuni istanti di silenzio.

— Le tre, risposi.

— To’! ho digerito assai presto il desinare; muoio di fame. A tavola. Poi, poi...

— Poi?

— Tu farai la mia valigia.

— Che! esclamai.

— E la tua;» rispose lo spietato professore entrando nella sala da pranzo.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.