< Viaggio al centro della Terra
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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
XIX
XVIII XX

XIX.

La domane, martedì 30 giugno, alle sei ci rimettemmo a discendere.

Seguivamo sempre la galleria di lava, vera discesa naturale, dolce come que’ piani inclinati che sostituiscono ancora oggi la scalinata nelle vecchie case; e ciò fino al mezzodì e diciasette minuti, momento preciso in cui raggiungemmo Hans che s’era arrestato.

«Ah! esclamò mio zio, noi siamo giunti alle estremità del camino.»

Mi guardai intorno; eravamo al centro d’un bivio al quale mettevano due strade alquanto cupe e strette. Quale conveniva prendere? Quest’era assai difficile determinare.

Tuttavia mio zio non volle mostrare esitazione nè dinanzi a me nè dinanzi alla guida; egli indicò la galleria dell’est per la quale ci mettemmo.

D’altra parte ogni esitazione in mezzo a quel doppio sentiero avrebbe potuto prolungarsi all’infinito, perchè non vi era indizio che potesse determinare la scelta dell’uno piuttosto che dell’altro! ci conveniva dunque rimetterci al caso.

Il pendìo di questa nuova galleria era poco sensibile, e la sua direzione assai ineguale. A volte una successione di archi si stendeva dinanzi a noi come le navate d’una cattedrale gotica. Gli artisti del medio evo vi avrebbero potuto studiare tutte le forme di quell’architettura religiosa che ha per generatrice l’ogiva.

Un miglio più oltre dovevamo piegare il capo sotto le centine schiacciate dello stile romano; grossi pilastri incassati nel massiccio piegavano sotto il peduccio delle vôlte.

In certi luoghi siffatta disposizione cedeva il posto a basse substruzioni che rassomigliavano alle opere del castoro, e ci conveniva strisciare serpeggiando come per entro a stretti budelli.

Il calore si manteneva a un grado sopportabile. Involontariamente io pensava alla sua intensità nel momento in cui le lave vomitate dallo Sneffels si precipitavano per questa via oggi così tranquilla e m’immaginavo torrenti di fuoco che si frangevano agli angoli della galleria, e la condensazione di ardenti vapori in un luogo così stretto.

«Purchè, pensai, al vecchio vulcano non torni un tardivo capriccio di ricominciare!»

Queste riflessioni io non la comunicava allo zio Lidenbrock, il quale non le avrebbe comprese. Il suo unico pensiero era di andare innanzi. Egli camminava, strisciava, capitombolava anche con una convinzione che in fin dei conti era meglio ammirare.

Alle sei ore della sera, dopo una passeggiata poco faticosa, noi avevamo percorso due leghe verso il sud, ma solo un quarto di miglio in profondità.

Mio zio diede il segnale del riposo; si mangiò senza molte ciancie e ci addormentammo senza star lì a pensare.

Le nostre disposizioni per la notte erano semplicissime; una coperta di viaggio nella quale ci involgevamo, serviva da letto. Non avevamo a temere nè freddo, nè visite importune. I viaggiatori che si cacciano in mezzo ai deserti dell’Africa o nelle foreste del Nuovo Mondo, sono costretti a vegliare gli uni per gli altri, durante le ore del sonno. Qui invece solitudine assoluta e sicurezza intera: non erano a temere nè selvaggi, nè bestie feroci, nè alcun’altra razza malefica.

Ci risvegliammo la domane, freschi e ben disposti, e ci rimettemmo in viaggio seguendo un sentiero di lava come alla vigilia; era impossibile riconoscere la natura dei terreni che attraversavamo. Il tunnel, invece di sprofondarsi nelle viscere del globo, tendeva a farsi assolutamente orizzontale e mi parve persino di notare che risalisse verso la superficie della Terra. Tale disposizione si fe’ così manifesta verso le dieci del mattino, e perciò così faticoso il camminare, ch’io fui costretto a rallentare il passo.

«Ebbene, Axel? disse impazientemente il professore.

— Ebbene, non ne posso più, risposi.

— Come! dopo tre sole ore di passeggiata per una strada così facile!

— Facile, non dico di no, ma faticosa certo.

— Come! se non facciamo che discendere!

— Salire, con vostra grazia.

— Salire? fe’ mio zio stringendosi nelle spalle.

— Senza dubbio; da una mezz’ora le pendenze si sono così modificate, che continuando così ritorneremo certamente alla Terra d’Islanda.»

Il professore tentennò il capo da uomo che non vuole essere convinto. Io cercai di ripigliar la conversazione, ma egli non mi rispose, e diede il segnale della partenza. M’avvidi che il suo silenzio non era altro che mal umore concentrato.

Intanto io aveva ripreso il mio fardello coraggiosamente e seguivo rapidamente Hans, che precedeva mio zio. Non volevo rimaner indietro; la mia grande preoccupazione era di non perdere di vista i compagni. Fremevo all’idea di smarrirmi nelle profondità di quel labirinto. D’altra parte, se la strada ascendente diveniva più penosa, me ne consolavo pensando che mi riaccostava alla superficie della Terra. Era una speranza che si avvalorava ad ogni passo, ed io mi rallegrava al pensiero di rivedere la mia piccola Graüben. Al mezzodì, le pareti della galleria mutarono aspetto. Mi avvidi, per l’indebolimento della luce elettrica riflessa dalle muraglie, che all’intonaco di lava succedeva la viva roccia. Il masso si componeva di strati inclinati e spesso disposti verticalmente. Eravamo in piena epoca di transizione, in pieno periodo siluriano1.

È evidente! sclamai; i sedimenti delle acque formarono nella seconda epoca della Terra questi schisti questi calcari e queste pietre arenarie! Noi voltiamo le spalle alla massa granitica! Assomigliamo a chi da Amburgo prendesse la via dell’Hannover per andare a Lubecca.»

Io avrei dovuto tenermi dentro le mie osservazioni, ma la mia natura di geologo vinse la prudenza e lo zio Lidenbrock intese le mie esclamazioni.

«Che cos’hai? diss’egli.

— Osservate! risposi mostrandogli la variata successione di pietre arenarie, di calcari ed i primi indizii delle ardesie.

— Ebbene?

— Eccoci giunti a quel periodo durante il quale apparvero le prime piante ed i primi animali.

— Ah! tu credi?

— Guardate adunque, esaminate, osservate.»

Costrinsi il professore a guardare colla lampada le pareti della galleria. M’aspettavo qualche esclamazione, ma non disse verbo e continuò la strada.

M’aveva egli compreso o no? Non voleva convenire, per amor proprio di zio e di scienziato, d’essersi ingannato scegliendo il tunnel dell’est, oppure voleva riconoscere il passaggio fino all’estremo? Era evidente che noi avevamo lasciato la strada delle lave e che quel sentiero non poteva condurre al focolare dello Sneffels. Frattanto io mi domandava se non attribuissi troppo grande importanza a siffatta modificazione dei terreni, e se per avventura non m’ingannassi io stesso. Attraversavamo noi davvero quegli strati di roccie sovrapposte alla massa granitica?

«Se ho ragione, pensai, devo trovare qualche avanzo di pianta primitiva, ed allora bisognerà pure arrendersi all’evidenza. Cerchiamo.»

Non avevo fatto cento passi che mi si offrirono allo sguardo prove incontrastabili. Così doveva essere, perchè all’epoca siluriana i mari contenevano oltre mille e cinquecento specie vegetali o animali. I miei piedi, avvezzi al suolo duro delle lave, calpestavano d’un tratto un terriccio composto di avanzi di piante e di conchiglie. Sulle pareti si vedevano chiaramente impronte di fuchi e di iocopodi. Il professore Lidenbrock non poteva ingannarsi, ma egli chiudeva gli occhi, immagino, e continuava il suo cammino con passo invariabile.

Era ostinazione spinta oltre tutti i limiti. Non ne potei più, e, raccolta una conchiglia perfettamente conservata, che aveva appartenuto a un animale press’a poco simile al cloporto attuale, raggiunsi mio zio e gli dissi:

«Guardate!

— Ebbene, rispos’egli tranquillamente, è la conchiglia d’un crostaceo dell’ordine dei trilobiti ora scomparso; null’altro.

— Ma non ne deducete voi?

— Ciò che ne deduci tu stesso. È vero, noi abbiamo abbandonato lo strato di granito e il canale delle lave. Può essere che io mi sia ingannato, ma non sarò certo del mio errore, se non quando avrò raggiunto l’estremità di questa galleria.

— Voi avete ragione di far così ed io vi approverei se non avessimo a temere un pericolo vie più minaccioso.

— Quale?

— La mancanza d’acqua.

— Ebbene, ci metteremo a razione, Axel.»


  1. Così chiamato perchè i terreni di questo periodo sono molto estesi in Inghilterra nelle contrade abitate un tempo dal popolo celtico del Siluri.


Note

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