< Viaggio al centro della Terra
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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
XVI
XV XVII

XVI.


La cena fu rapidamente divorata e la comitiva si acconciò alla meglio. Il letto era duro, il riparo poco solido, la nostra condizione penosa, a cinquemila piedi sopra il livello del mare, Tuttavia il mio sonno fu tranquillo durante la notte, una delle migliori ch’io avessi passato da gran tempo. Non sognai neppure.

La domane ci svegliammo mezzo gelati da un’aria molto frizzante, ai raggi d’un bel sole; io lasciai il mio letto di granito e andai a godermi il magnifico spettacolo che si svolgeva innanzi ai miei sguardi.

Io occupavo la vetta di uno dei due picchi dello Sneffels, quello del sud. Di là la mia vista si stendeva sulla maggior parte dell’isola. Per un effetto d’ottica, comune a tutte le grandi alture, le ripe si vedevano in rilievo, mentre le parti centrali sembravano sprofondarsi. Si sarebbe detto che una di quelle carte in rilievo di Helbesmer si spiegasse ai miei piedi; io vedevo le vallate profonde incrociarsi in tutte le direzioni; i precipizi scavarsi a somiglianza di pozzi, i laghi tramutati in stagni, i fiumi fatti rigagnoli, e alla mia destra si succedevano i ghiacciai innumerevoli e le molteplici vette, taluna delle quali aveva un lieve pennacchio di fumo. Le ondulazioni di queste montagne infinite, che i loro strati di neve parevano rendere schiumose, mi richiamavano in mente la superficie d’un mare agitato. Se mi volgevo verso l’ovest l’oceano si stendeva maestosamente come una continuazione dei vertici ondeggianti e il mio occhio distingueva a mala pena dove finisse la terra a dove incominciassero i flutti.

Mi tuffai tutto in quell’estasi incantevole che danno le alte vette, e stavolta senza vertigine, perocchè io m’avvezzava finalmente a siffatte sublimi contemplazioni. I miei sguardi abbagliati si bagnavano nella trasparente irradiazione dei raggi solari; dimenticavo chi mi fossi, dove fossi per vivere la vita degli elfi o dei silfi, immaginari abitanti della mitologia scandinava. M’inebbriavo della voluttà delle altura senza pensare agli abissi nei quali il mio destino dovea piombarmi fra breve. Ma fui ricondotto al sentimento della realtà dall’arrivo del professore e di Hans, i quali mi raggiunsero alla sommità del picco.

Mio zio, volgendosi verso l’ovest, m’indicò colla mano un leggiero vapore, una nebbia, un’apparenza di terra che sorgeva sulla superficie dei flutti.

«La Groenlandia, diss’egli.

— La Groenlandia? esclamai io.

— Sì, ne siamo lontani appena trentacinque leghe, e durante lo sgelo, gli orsi bianchi si spingono fino all’Islanda portati dai ghiaccioni del nord. Ma ciò importa poco. Noi siamo al vertice dello Sneffels; ecco due picchi, l’uno al sud, l’altro al nord; Hans ne dirà con qual nome gl’Islandesi chiamano quello su cui ci troviamo.»

Formulata la domanda, il cacciatore rispose;

«Scartaris

Mio zio mi gettò uno sguardo di trionfo.

«Al cratere!» diss’egli.

Il cratere dello Sneffels raffigurava un cono capovolto il cui orifizio poteva avere mezza lega di diametro, ed io lo stimava profondo duemila piedi all’incirca. Si giudichi dello stato di simile recipiente quando si riempiva di folgori e di fiamme. Il fondo dell’imbuto non doveva misurare più di cinquecento piedi di circuito, in guisa che vi si poteva giungere facilmente lungo un pendio dolcissimo. Senza volerlo, paragonavo questo cratere a un enorme trombone, e l’idea mi spaventava.

«Discendere in un trombone, pensavo, mentre gli è forse carico e può partire il colpo al menomo urto, è cosa da pazzi.»

Ma non era più possibile dare indietro; Hans indifferente nell’aspetto procedette innanzi ed io lo seguii senza dir parola.

Affine di agevolare la discesa Hans descriveva nell’interno del cono delle ellissi molto allungate; era duopo camminare in mezzo a roccie eruttive, talune delle quali scosse nei loro alveoli si precipitavano rimbalzando sino al fondo dell’abisso. La loro caduta risvegliava ripercussioni di echi stranamente sonori.

Certe parti del cono formavano ghiacciai interni; in questi casi Hans si avanzava con estrema precauzione, scandagliando il terreno col bastone ferrato per scoprirne i crepacci, e a certi passi pericolosi fu necessario legarci con una lunga corda affinchè quello a cui venisse a macare il piede all’improvviso sì trovasse sostenuto dai suoi compagni. Questa solidarietà era cosa prudente ma non escludeva ogni pericolo.

Tuttavia, malgrado le difficoltà della discesa sovra pendii che la guida non conosceva, la strada fu fatta senza accidenti, tranne la caduta d’un rotolo di cordami che sfuggì dalle mani d’un Islandese ed andò per la via più breve fino al fondo dell’abisso.

Al mezzodì eravamo giunti. Alzai la testa e vidi l’orifizio superiore del cono che incorniciava un pezzo di cielo in forma di circolo quasi perfetto, e singolarmente ridotto nelle proporzioni. In un punto solo si staccava il picco dello Scartaris tuffandosi nell’immensità.

In fondo al cratere si aprivano tre bocche dalle quali, durante l’eruzione dello Sneffels, il focolare centrale cacciava le lave e i vapori; ciascuna di queste bocche avea circa cento piedi di diametro. Esse erano là, spalancate ai nostri piedi, nè io ebbi il coraggio di gettarvi lo sguardo. Il professore Lidenbrock, invece, avea fatto un rapido esame della loro disposizione; era ansante e correva dall’una all’altra gesticolando e pronunziando parole incomprensibili. Hans e i suoi compagni, seduti sopra pezzi di lava, lo seguivano collo sguardo prendendolo evidentemente per un pazzo.

Di repente mio zio gettò un grido; credetti che egli avesse posto il piede in fallo e fosse caduto in una delle tre voragini; ma no, ch’io lo vidi colle braccia stese, colle gambe aperte, in piedi dinanzi ad una roccia di granito posta nel centro del cratere come un enorme piedestallo fatto per la statua di Plutone. Egli era nell’atteggiamento d’uomo stupefatto, ma il suo stupore diè luogo ben presto a una gioia insensata.

«Axel! Axel! gridò, vieni, vieni!»

Accorsi. Nè Hans nè gli Islandesi non si mossero.

«Guarda!» mi disse il professore.

E condividendo il suo stupore se non la sua contentezza, lessi sulla faccia occidentale del macigno, in caratteri runici, mezzo rôsi dal tempo, questo nome mille volte maledetto:

«Arne Saknussem? esclamò mio zio dubiterai tu ancora?»

Non risposi e ritornai costernato al mio sedile di lava. L’evidenza mi schiacciava.

Quanto tempo rimanessi immerso così nelle mie riflessioni, lo ignoro. Tutto ciò che so è che alzando il capo vidi mio zio ed Hans soli nel fondo del cratere. Gl’Islandesi erano stati congedati ed ora ridiscendevano le balze esteriori dello Sneffels per riguadagnare Stapi.

Hans dormiva tranquillamente a’ piedi d’una roccia in un canale di lava in cui s’era improvvisato un letto.

Mio zio girava intorno al cratere come una bestia selvatica nella fossa d’un trappoliere. Io non ebbi nè voglia nè forza di levarmi, e seguendo l’esempio della guida mi abbandonai a un doloroso sopore parendomi d’udire dei rumori e di sentire dei fremiti nei fianchi della montagna.

Così passò la prima notte in fondo al cratere.

Alla domane un cielo grigio, annuvolato, pesante, si abbassò sul vertice del cono. Io non me ne avvidi tanto per l’oscurità della voragine quanto per la collera di mio zio.

Ne compresi la ragione e un’ultima speranza mi tornò al cuore. Ecco perchè:

Delle tre strade aperte ai nostri piedi, una sola era stata seguita da Saknussemm, e per quello che diceva il dotto Islandese si doveva riconoscere da questo fatto segnalato nel criptogramma, che l’ombra dello Scartaris veniva a lambirne gli orli gli ultimi giorni del mese di giugno.

Si poteva in fatti considerare questo picco acuto, siccome l’ago d’un immenso quadrante solare, la cui ombra a un giorno determinato segnasse la via al centro della Terra.

Ora se il sole venisse a mancare, mancava l’ombra e perciò l’indicazione. Eravamo al 25 giugno; solo che il cielo rimanesse coperto durante sei giorni e si avrebbe dovuto differire l’osservazione a un altro anno.

Io rinunzio a dipingere l’ira impotente del professore Lidenbrock. La giornata passò e non ci fu ombra di sorta sul fondo del cratere. Hans non si mosse dal suo posto, e sì ch’egli doveva domandare a sè stesso che cosa attendissimo, se pure egli si domandava alcuna cosa! Mio zio non mi rivolse mai la parola; i suoi sguardi invariabilmente rivolti al cielo, si smarrivano in quella tinta grigia e brumosa.

Il 26, nulla ancora. Una pioggia mista a neve, cadde durante tutto il giorno; Hans costrusse una capanna con pezzi di lava, ed io provai un certo diletto a seguire coll’occhio le migliaia di cascatelle improvvisate sui fianchi del cono e di cui ciascuna pietra cresceva l’assordante mormorio.

Mio zio non si conteneva più. C’era in fatti di che irritare un uomo più paziente, perchè gli era proprio un arenarsi in porto.

Ma ai grandi dolori il cielo unisce le grandi gioie: e riservava al professore Lidenbrock una soddisfazione pari alle sue noie disperanti. La domane il cielo fu ancora coperto, ma la domenica, 28 giugno, l’antipenultimo giorno del mese, col cambiamento di luna si mutò pure il tempo. Il sole versò a onde i suoi raggi nel cratere. Ogni monticolo, ogni masso, ogni pietra, ogni asperità ebbe la sua parte di questo benefico effluvio e allungò istantaneamente la sua ombra sul suolo. Fra le altre, quella dello Scartaris si disegnò come un angolo e andò in giro insensibilmente coll’astro radioso.

Mio zio girava con essa.

Al mezzodì, quando era fatta più breve, venne a lambire dolcemente l’orlo della bocca centrale.

«È là! esclamò il professore; è là! al centro del globo!» aggiunse in danese.

Io guardava Hans.

«Forüt! disse tranquillamente la guida.

— Avanti,» rispose mio zio.

Era la una e tredici minuti pomeridiane.

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