< Viaggio al centro della Terra
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Jules Verne - Viaggio al centro della Terra (1864)
Traduzione dal francese di Anonimo (1874)
XVII
XVI XVIII

XVII.


Il vero viaggio incominciava. Fino allora le fatiche avevano superato le difficoltà; oramai queste dovevano nascere sotto i nostri passi.

Io non aveva ancora gettato lo sguardo in quel pozzo senza fondo in cui stava per inabissarmi. Era venuto il momento; potevo ancora rassegnarmi all’intrapresa o ribellarmi, ma ebbi vergogna di dare indietro dinanzi al cacciatore. Hans accettava così tranquillamente l’avventura, con tanta indifferenza e con sì perfetta noncuranza d’ogni pericolo, ch’io arrossii al pensiero di parere meno coraggioso di lui. Se fossi stato solo, avrei certo fatto valere i miei più validi argomenti, ma dinanzi alla guida mi tacqui; tornai per un istante colla memoria alla mia bella Virlandese e mi accostai alla bocca centrale.

Ho detto ch’essa misurava cento piedi di diametro, o trecento piedi di circuito. Io m’inchinai al di sopra di una roccia e guardai; mi si rizzarono i capelli. Il sentimento del vuoto s’impadronì del mio essere; sentii che il mio centro di gravità andava fuori di posto e la vertigine mi salì al capo come un’ebbrezza; nulla sbalordisce più di siffatta attrazione dell’abisso; io stava per cadere, ma una mano mi trattenne, quella di Hans. Assolutamente non pare ch’io avessi preso abbastanza lezioni d’abissi nella Frelsers-kirk di Copenaghen.

Pure, per poco che avessi arrischiato gli sguardi in quel pozzo, io mi era reso conto della sua conformazione. Le pareti tagliate quasi a picco avevano però molte sporgenze che dovevano rendere facile la discesa; ma se la scalinata non mancava, mancava però la ringhiera. Una corda attaccata all’orificio avrebbe potuto bastare a sorreggerci: ma come distaccarla quando si fosse giunti all’estremità inferiore?

Mio zio adoperò un mezzo semplicissimo per rimediare a questa difficoltà. Egli svolse una corda grossa un pollice, lunga quattrocento piedi, ne lasciò scorrere la metà, la fece passare intorno ad un masso sporgente di lava e lasciò cadere l’altra metà. Ciascuno di noi poteva di tal guisa discendere, raccogliendo nella mano le due metà della corda; e una volta discesi per dugento piedi nulla di più facile che il riaverla, abbandonando un capo e tirando l’altro. Tale esercizio doveva essere ricominciato ad infinitum.

«Ed ora, disse mio zio dopo aver fatto questi preparativi, occupiamoci dei bagagli. Essi saranno divisi in tre fardelli e ciascuno di noi se ne attaccherà uno sul dorso; parlo solo degli oggetti fragili.»

L’audace professore non ci comprendeva evidentemente in questa ultima categoria.

«Hans, ripres’egli si caricherà degli utensili e d’una parte di viveri; tu, Axel, d’un’altra parte di viveri e delle armi; io del resto dei viveri e degli strumenti delicati.

— Ma, diss’io, e le vesti? e questo mucchio di cordami e di scale, chi lo porterà abbasso?

— Discenderanno da sè.

— In qual modo? domandai tutto sorpreso.

— Lo vedrai.»

Mio zio adoperava volentieri i grandi mezzi senza esitare. A un suo ordine, Hans riunì in un solo pacco gli oggetti non fragili, li legò solidamente e li precipitò come la cosa più naturale, nell’abisso.

Udii quel muggito sonoro, prodotto dagli spostamenti degli strati dell’aria: mio zio, inchinato sulla bocca, seguiva con occhio soddisfatto la discesa de’ suoi bagagli e non si rilevò prima di averli perduti di vista.

«Bene, diss’egli. A noi ora.»

Io domando a qualunque uomo di buona fede se fosse possibile udire tali parole senza fremere!

Il professore si legò sul dorso il pacco degli strumenti; Hans, quello degli utensili; io quello delle armi. La discesa cominciò nell’ordine seguente: Hans, mio zio, ed io. Il silenzio profondo era solo turbato dalla caduta dei frammenti di roccia che si precipitavano nell’abisso.

Io mi lasciai calare, per così dire, stringendo freneticamente con una mano la doppia corda e coll’altra appoggiandomi al mio bastone ferrato. Non avevo che un pensiero: il timore che il punto d’appoggio mi venisse meno. La corda mi pareva assai debole per sostenere il peso di tre persone, e me ne servivo il meno possibile facendo miracoli di equilibrio, sopra le sporgenze di lava che il mio piede cercava di afferrare come una mano.

Se avveniva che uno di quei gradini sdrucciolevoli si distaccasse sotto i passi di Hans, egli diceva colla sua tranquilla voce:

«Gif akt!

— Attenzione,» ripeteva mio zio.

Dopo una mezz’ora eravamo arrivati alla superficie di una roccia fortemente incassata nelle pareti della gola.

Hans tirò la corda per uno dei capi; l’altro si elevò nell’aria e dopo di aver passato la roccia superiore, ricadde tirandosi dietro pezzi di pietra e di lava, specie di pioggia, o dirò meglio, di grandine molto pericolosa.

Inchinandomi al di sopra del nostro stretto poggio notai che il fondo dell’abisso era ancora invisibile.

La manovra della corda ricominciò, e in capo d’una mezz’ora avevamo percorso una nuova profondità di dugento piedi.

Io non so se il più arrabbiato geologo avesse potuto studiare, durante la discesa, la natura dei terreni che lo circondavano; per parte mia non me ne davo alcun pensiero, e o ch’essi fossero pliocenici, miocenici, eocenici, cretacei, giurassici, triasici, permiani, carboniferi, devoniani, siluriani, o primitivi, la cosa mi era affatto indifferente. Ma senza dubbio il professore fece le sue osservazioni perchè, in una delle fermate, mi disse:

«Più vado innanzi, più ho fiducia. La disposizione di questi terreni vulcanici dà assolutamente ragione alla teorica di Davy; noi siamo in un terreno assolutamente primordiale, terreno in cui avvenne l’operazione chimica dei metalli infiammati al contatto dell’aria e dell’acqua. Io rifiuto assolutamente l’ipotesi del calore centrale, e d’altra parte noi vedremo coi nostri occhi.»

Sempre la medesima conclusione, e si capisce come io non mi divertissi a discutere. Il mio silenzio fu preso per assenso e la discesa ricominciò.

Da lì a tre ore, io non scorgeva ancora il fondo della voragine. Quando alzavo la testa vedevo il suo orifizio decrescere sensibilmente. Le pareti, per causa della loro lieve inclinazione, tendevano a riaccostarsi; l’oscurità si faceva vie più fitta.

Eppure scendevamo sempre: parevami che la pietre che si staccavano dalle pareti si inabissassero con una ripercussione più sorda e che dovessero incontrare presto il fondo dell’abisso.

Siccome avevo avuto cura di tener conto esatto delle manovre di corda, potei farmi un’idea della profondità a cui eravamo giunti e del tempo trascorso.

Avevamo allora ripetuto quattordici volte la manovra che durava una mezz’ora: erano dunque sette ore, quattordici quarti d’ora di riposo, ovvero tre ora a mezzo; in tutto, dieci ore mezzo. Eravamo partiti alla una, dovevano essere le undici in quel momento.

Quanto alla profondità a cui eravamo discesi, le quattordici lunghezze di una corda di dugento piedi, davano due mila e ottocento piedi. A questo punto udimmo la voce di Hans:

«Alt!» diss’egli.

Mi arrestai di botto mentre stavo per urtare coi piedi la testa di mio zio.

«Siamo giunti, disse questi.

— Dove? domandai lasciandomi andare fin presso a lui.

— Al fondo della bocca perpendicolare.

— Non vi ha dunque altra uscita?

— Sì, una specie di corridoio ch’io intravedo appena e che si dirige obliquamente a diritta. Vedremo ciò domani. Intanto ceniamo; dormiremo dopo.»

L’oscurità non era ancora completa. Aprimmo il sacco dei viveri, mangiammo, poi ciascuno si coricò alla meglio sopra un letto di pietre e di frammenti di lava.

E quando, steso supino, aprii gli occhi, vidi un punto splendido all’estremità di quel lungo tubo di tremila piedi, che si trasformava in un gigantesco cannocchiale.

Era una stella priva d’ogni scintillazione, e secondo i miei calcoli, doveva essere β della Orsa minore. Poi caddi in sonno profondo.


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