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[In cammino da Castrogiovanni (oggi Enna),] Martedì, 1 maggio 1787.

[...]

Il bardonaro, tanto per rabbonire il nostro malumore, aveva promessa di farci trovare per la sera un buon albergo; e in verità ci condusse in una locanda costruita da pochi anni, che, situata alla giusta distanza da Catania, dovrebbe essere salutata con piacere da ogni viaggiatore. Date le condizioni sopportabili di detta locanda, dopo dodici giorni ce la siamo cavata alla men peggio. Ma qual non fu la nostra meraviglia, al vedere sulla facciata un'iscrizione, tracciata col lapis a bei caratteri inglesi, che diceva: «O passeggero, chiunque tu sia, guardati a Catania dall'albergo al Leon d'oro; peggio che cadere in una volta sola nelle grinfe dei ciclopi, delle sirene e di Scilla». Pur sospettando che il dabbene ammonire avesse esagerato un po' il pericolo per amor della mitologia, risolvemmo tuttavia di evitare questo Leon d'oro, dipinto come un così terribile mostro. Avendoci quindi domandato il mulattiere dove volessimo alloggiare a Catania: «Da per tutto», rispondemmo, «tranne che all'albergo del Leone»; per cui ci propose di prendere stanza nello stesso fondaco, dove egli avrebbe governato i suoi muli; soltanto, avremmo dovuto provvedere per nostro conto al vitto, come del resto avevamo fatto fino allora. Contenti tutti, e per tutto: unico nostro desiderio era di sfuggire alle fauci del Leone.

[...]

Catania, mercoledì 2 maggio 1787.[1]

Nel nostro fondaco ci siam trovati realmente molto male. Il vitto che poi ci potè apparecchiare il mulattiere non è stato certo ottimo. Con tutto questo, una gallina bollita nel riso non sarebbe stata disprezzabile, se il troppo zafferano non l’avesse ridotta, oltre che gialla, immangiabile. Per poco non abbiam dovuto rimetter fuori il sacco dello Hackbert, causa i pessimi letti, sicchè, al mattino abbiam parlato al nostro bravo locandiere. Questi si mostrò spiacente di non poterci servire meglio: «Ma lì dirimpetto», disse «c’è un albergo, dove i forestieri sono ben trattati e hanno motivo di trovarsi bene». E ci additò una grande casa all’angolo della via, il cui lato, rivolto verso di noi, sembrava molto incoraggiante. Ci siamo andati di corsa e vi abbiamo trovato un individuo tutto affaccendato e premuroso, che si fece conoscere per cameriere, e che, in assenza dell’albergatore, ci assegnò una bella stanza accanto a un salotto, assicurandoci nel tempo stesso che saremmo stati serviti a prezzi modicissimi. Domandammo senz’altro, secondo la nostra abitudine, quanto sarebbe costato l’alloggio, il vitto, il vino, la colezione [sic] ed altri particolari. Tutto era conveniente, sicchè facemmo trasportare in fretta e furia il nostro modesto bagaglio, per allogarlo in quegli ampi armadi dorati. Il Kniep trovò per la prima volta l’occasione di metter fuori e riordinare i suoi cartoni, mentre io riordinavo le mie osservazioni. Poco dopo, tutti soddisfatti del nostro bell’alloggio, ci affacciammo al balcone del salotto per godervi la vista. E dopo d’averla ammirata e lodata per un bel poco, stavamo per ritornare alle nostre faccende, quand’ecco... un grande leone d’oro in atto di minaccia, sopra le nostre teste! Ci scambiammo un’occhiata eloquente, sorridemmo, ridemmo... Ma da quel mometo in poi ci mettemmo in guardia, per paura ce non facesse la sua comparsa qualcuno di quei mostri omerici, di cui sopra.

Non c’era da veder nulla di simile; al contrario, scorgemmo nel salotto una giovine donna, bellina, che andava su e giù con un bimbo di circa due anni, ma che fu subito vivacemente richiamata da quel pseudo albergatore che aveva l’argento vivo addosso. «Fammi il piacere di andartene!» le comandò: «che cosa hai da fare qui?» -- «La è dura» rispose quella, «che tu mi debba mandar via; non si può fare star zitto il piccolino se non ci sei tu; e questi signori mi permetteranno certamente di abbonirlo in tua presenza». Ma il marito non volle saperne, anzi fece per metterla alla porta. Strilli del bimbo sulla soglia, da far pietà. In conclusione dovemmo insistere perchè la graziosa donnina restasse con noi.

Messi sull’attenti dal nostro inglese, non ci volle molto per subodorare la commedia. Noi due abbiam rappresentata la parte dei novellini, degli ingenui; quanto al cameriere, questi rappresentava alla perfezione la parte del padre nobile e affettuoso. Il bimbo era veramente tutto carezze per lui; probabilmente, dietro la porta, la supposta madre gli aveva dato qualche pizzicotto.

Così ella rimase nella nostra sala con l’aria più innocente del mondo, quando il marito uscì per consegnare all’abate di casa Biscari una lettera di raccomandazione. Ella non ismise di cicalare, finchè quello non fu ritornato ad avvertire che l’abate sarebbe venuto di persona a darci più minute informazioni.

Catania, giovedì 3 maggio 1787.

L’abate, che era venuto a salutarci ier sera, si è presentato stamane per tempo e ci ha condotti a palazzo Biscari, edificio ad un sol piano sopra un basamento elevato; e qui abbiam visitato il museo, che raccoglie statue di marmo e di bronzo, vasi e simili antichità d’ogni specie. Abbiam così avuto un’altra occasione di allargare le nostre cognizioni; quel che in modo particolare ci sedusse, fu un torso di Giove, a me già noto per una copia esistente nello studio del Tischbein, e che aduna in sè troppi pregi, perchè osi esprimere un giudizio. Un familiare ci ha fornito le informazioni storiche più necessarie e quindi siamo passati in un alto e spazioso salone. Le molte sedie disposte accanto alle pareti indicavano che lì si raccoglie di tratto in tratto qualche circolo numeroso. Prendemmo posto nell’attesa di un’amabile accoglienza. Ed ecco farsi avanti due signore, che si misero a passeggiare per tutta la lunghezza del salone, scambiandosi all’occasione qualche parola. Come si avvidero di noi, l’abate si alzò, io feci lo stesso e tutti e due facemmo un inchino. Domandai chi fossero e seppi che la più giovine era la principessa, la più attempata una gentildonna catanese. Messici a sedere, le due gentildonne continuarono a passeggiare su e giù, nè più nè meno come si farebbe in una piazza.

Fummo introdotti dal principe, il quale, come mi avevan fatto osservare, ci fece vedere la sua collezione di monete per un atto di deferenza speciale; infatti, in occasione di simili visite, tanto al suo compianto padre quanto a lui stesso più d’un oggetto era andato perduto, ragion per cui la sua consueta liberalità s’era intiepidita un poco. Questa volta ho potuto sfoggiare qualche cognizione di più, avendo già tratto ammaestramento dalla mia visita alla raccolta del principe de Torremuzza. Ho imparato qualche cosa di più, facendomi guidare con qualche frutto da quel solito filo del Winckelmann, che ci accompagna attraverso le differenti epoche dell’arte. Il principe, perfettamente edotto di tutto questo, vedendo che aveva da fare non con conoscitori ma con dilettanti e osservatori, ha acconsentito di erudirci in tutti i particolari di cui abbiam chiesto spiegazione.

Dopo d’aver dedicato a quest’esame un certo tempo, sempre troppo poco tuttavia, stavamo per congedarci, quando egli volle presentarci alla madre, nel cui appartamento erano esposti altri oggetti d’arte di più piccola dimensione.

Ci trovammo innanzi a una gentildonna dall’aspetto distinto ma disinvolto, che ci ricevette dicendo: «Guardino pure, signori, come vogliono, in casa mia; vi troveranno tutto così come il mio povero marito ha raccolto e messo in ordine. E devo tutto alla pietà del mio figliuolo, che ha voluto non solo farmi alloggiare nelle sue stanze migliori, ma non ha lasciato portar nè toccare il più piccolo degli oggetti raccolti e riordinati dal suo povero padre. Così ho il doppio vantaggio, di vivere come sono abituata ormai da tanti anni, e insieme di incontrarmi e di far conoscenza, come una volta, con tanti illustri forestieri, che vengono da paesi così lontani a vedere le nostre rarità».

Quindi ci aprì ella stessa la vettrina, in cui erano custoditi gli oggetti d’ambra lavorata. L’ambra di Sicilia ha questo di diverso dalla nostra che, dal colore di cera e di miele, trasparente ed opaco, passa attraverso tutte le sfumature di un giallo carico fino al più bel rosso giacinto. Ne avevano intagliato urne, coppe ed altri oggetti, tanto da far supporre dei pezzi di grandezza meravigliosa. Questi oggetti, come pure le conchiglie incise, che vengono lavorate a Trapani e in fine alcuni squisiti lavori in avorio formavano la compiacenza particolare della gentil donna, che trovava modo di raccontare in proposito più d’una piacevole storiella. Il principe dal canto suo ci intrattenne intorno a cose più serie e così trascorsero alcune ore dilettevoli ed istruttive.

Nel frattempo, la principessa aveva appreso che eravamo tedeschi, per cui ci domandò notizie dei signori von Riedesel, Bartels, Münter, tutti da lei conosciuti, e dei quali aveva anche saputo discernere ed apprezzare egregiamente il carattere e il costume. Ci siam congedati a malincuore da lei, ed ella stessa parve ci lasciasse andar via di malincuore. La vita di questi isolani ha sempre qualche cosa di solitario e non si ridesta e non si sostiene che in forza di qualche interesse passeggero.

Dopo questa visita, l’abate ci condusse al Convento dei Benedettini, nella cella d’un monaco, la cui fisionomia, triste per l’età non avanzata e tutta chiusa in sè, non prometteva troppo gioconda conversazione. Ebbene, era costui l’uomo di multiforme ingegno, l’unico che sapesse domare l’organo immenso di quel duomo. Come ebbe indovinato, più che inteso, il nostro desiderio, lo volle soddisfare, in silenzio: ci siamo recati nella chiesa, che, pur essendo molto vasta, egli, trattando il mirabile strumento, seppe riempir tutta quanta fino agli angoli più remoti, facendovi ora spirare i singhiozzi più lievi, ora echeggiare i tuoni più possenti.

Chi non avesse già visto prima quell’ometto, avrebbe dovuto credere che solo un gigante fosse capace di tanto impeto; ma noi che già lo conoscevamo di persona, non potemmo meravigliare che d’una cosa: che non abbia dovuto soccombere già da tempo, in una simile lotta.


Catania, venerdì 4 maggio 1787.[2]

Poco dopo il nostro pranzo, è venuto a prenderci l’abate con una carrozza, per farci vedere il quartiere più eccentrico della città. Nel momento di salire in vettura, si è svoltata una curiosa disputa d’etichetta. Io ero salito per primo e stavo per prender posto a sinistra quando egli, salendo alla sua volta, volle espressamente che mi scomodassi e che lasciassi la sinistra a lui. Lo pregai di lasciar da parte queste ceremonie. Ma: «Scusate» mi disse: «facciamo così, perchè se io mi metto alla vostra destra, la gente crederà che io vado a spasso con voi; se invece mi metto alla sinistra, è convenuto che voi venite con me, e che io vi faccio veder la città in nome del principe». Non c’era da replicare e così fu.

Così salimmo per certe vie, dove la lava, che nel 1669 distrusse gran parte della città, è ancora visibile ai giorni nostri. Il torrente igneo, irrigidito, è stato trattato come una roccia qualsiasi: vi hanno tracciato sopra la pianta delle vie, alcune in parte anche costruite. Ne ruppi un pezzo di indubbia fusione, ricordando che prima della mia partenza dalla Germania, la discussione circa la natura vulcanica del basalto s’era già accesa. E lo stesso feci in varii punti, per ottenere più d’una varietà.

Ma se gli indigeni stessi non amassero il loro paese e non si fossero dati la pena di raccogliere, o per guadagno o per amor della scienza, quel che v’ha di notevole nella loro regione, il viaggiatore avrebbe un bel torturarsi il cervello. Già a Napoli, il mio negoziante di lava m’era stato di non poco aiuto; più ancora e in un senso più elevato, qui a Catania, il cavaliere Gioeni. Nella sua copiosa collezione, disposta con rara eleganza, ho visto le lave dell’Etna, i basalti che si trovano a pie’ del vulcano e pietre di varia composizione più o meno facili ad essere identificate. Tutto mi è stato mostrato con la più grande amabilità. Quel che più destò la mia ammirazione furono certi zooliti provenienti dagli scogli dirupati che sorgono dal mare di Jaci.

Domandammo al cav. Gioeni quale fosse il modo migliore per accingersi a un’ascensione sull’Etna; ma egli non volle sentir parlare nemmeno d’un tentativo per raggiungere la vetta, specie in questa stagione. «I forestieri in generale» così disse, non senza chiederci scusa, «prendono la cosa troppo alla leggera; quanto a noi, nati al piede della montagna, ne abbiamo abbastanza se, approfittando della migliore occasione, riusciamo a toccar la cima due o tre volte in tutta la vita. Il Brydone stesso, che con la sua descrizione ha acceso per primo il desiderio di contemplar da vicino il cono infuocato, non l’ha raggiunto affatto; il conte von Borch lascia in dubbio il lettore, ma anche lui non si è spinto che a una certa altezza; così potrei affermare di più d’uno. Per il momento, la neve è scesa troppo giù e presenta ostacoli insormontabili. Se volete seguire il mio consiglio, spingetevi domani di buon’ora, coi muli, fino alle falde dei Monti Rossi, e salitene poi la sommità; di lì godrete uno spettacolo superbo e osserverete nel tempo stesso la vecchia lava, che, scaturita in quel punto nel 1669, si è precipitata sciaguratamente sulla città. La veduta è magnifica e ben distinta. Quanto al resto, è meglio sentirlo raccontare».

Catania, sabato 5 maggio 1787.[3]

Seguendo questo buon consiglio, la mattina per tempo ci siam messi in cammino e rivolgendoci sempre a guardare indietro, dall’alto dei nostri muli, abbiam raggiunto la zona delle lave non ancora domate dal tempo. Blocchi e lastre frastagliate ci presentavano le loro masse irrigidite, attraverso le quali le nostre cavalcature si aprivano a caso un sentiero. Giunti alla prima vetta d’una certa importanza, abbiamo fatto sosta. Il Kniep ha riprodotto con grande esattezza ciò che si presentava innanzi a noi dalla parte della montagna: le masse di lava in primo piano, le vette gemelle dei Monti Rossi a sinistra, e di rimpetto a noi la selva di Nicolosi, sopra la quale si ergeva il cono dell’Etna ricoperto di neve e leggermente fumante. Ci siamo accostati ancor più sotto i Monti Rossi ed io ne ho raggiunto una cima: è tutta un ammasso di rottami vulcanici di color rosso, di cenere e di lapilli. Avrei potuto girare senza difficoltà intorno al cratere, se un impetuoso vento di burrasca non avesse reso mal sicuro ogni passo innanzi; per procedere un poco, avrei dovuto togliermi il mantello; ma il cappello era sempre in pericolo di volare entro il cratere, ed io dietro a lui. Perciò mi posi a sedere, per riavermi un po’ e per contemplare il paesaggio, ma anche questa posizione non giovò a nulla; la burrasca veniva proprio da oriente, coprendo la magnifica regione che si stendeva ai miei piedi in lungo e in largo fino al mare. Avevo sott’occhio tutta la distesa della spiaggia da Messina a Siracusa, con le sue insenature e i suoi golfi, ora completamente libera, ora un po’ nascosta da qualche scoglio sulla riva. Come fui ridisceso, tutto stordito, trovai il Kniep, che sotto una tettoia aveva impiegato bene il suo tempo, fissando a rapide linee sulla carta quello che la furia dell’uragano, non che imprimermi nella mente, m’aveva a mala pena lasciato travedere.

Ritornati nelle fauci del Leon d’oro, ritrovammo il cameriere, che a gran fatica avevamo potuto distogliere dall’accompagnarci. Ha approvato la nostra risoluzione di non spingerci fin sulla vetta, ma ci ha proposto con molta insistenza, per domani, un’escursione a mare fino agli scogli di Jaci: la più bella gita di piacere, che si possa fare a Catania: si porta con sè da mangiare e da bere, e qualche masserizia per fare un po’ di cucina; tutte cose, che sua moglie avrebbe assunto sopra di sè. Egli non poteva dimenticare infine l’allegria di certi inglesi, che s’eran fatti accompagnare con musica in una barchetta, un divertimento da non potersi immaginare.

Gli scogli di Jaci rappresentavano una grande attrattiva per me; avevo una gran voglia di far raccolta di quei bei zooliti, come ne avevo visto in casa Gioeni. Si poteva sbrigare la faccenda e rinunziare alla compagnia della donna; ma lo spirito ammonitore dell’inglese ebbe il sopravvento; abbiam rinunciato ai zooliti e ci siam chiamati non poco contenti di codesta rinunzia.


Catania, domenica 6 maggio 1787.[4]

Il nostro cicerone in sottana non s’è fatto aspettare. Ci ha condotti a vedere gli avanzi di monumenti antichi, per ammirare i quali, certo occorrerebbe da parte dell’osservatore un pronunciato talento di restaurazione. Ci ha poi fatto vedere i resti di certi bacini, d’una naumachia e simili rovine, tutto però talmente soffocato e sprofondato in seguito alle ripetute distruzioni della città per opera delle lave, dei terremoti e delle guerre, che solo a più esperto conoscitore d’architettura antica ne può venire istruzione e diletto.

L’abate ci dispensò dal fare una nuova visita al principe e così ci siamo congedati con le espressioni più cordiali di gratitudine e di simpatia da ambo le parti.

Note

  1. CATANIA. -- È la città che tutti i viaggiatori del tempo lodano sopra ogni altra in Sicilia come centro di cultura, grazie particolarmente alla benemerenza del Biscari, nel campo archeologico, e del Gioeni, in quello della storia naturale. Le loro relazioni ed esaltazioni in proposito, che talvolta possono sembrare alquanto esagerate, si ripetono e si rassomigliano quasi sempre. -- Non conosciamo una guida di Cat. che possa essere utilmente commentata ai nostri scopo, prima di quella del CARCACI, Descrizione di Catania, (1847). Intorno all'avventuroso «albergo del Leon d'Oro» e alla affannosa ricerca d'alloggio del G. a Catania, ecco alcune notizie desunte da nostre indagini sul luogo. Il vecchio «fondaco» nel quale il G. trovò provvisoriamente ricovero la sera del suo arrivo, sembra sia stato a pianterreno del palazzo del principe Pardo, in quello che oggi si chiama appunto vicolo Pardo, accanto a via Cisira [ora via Gisira], non lungi da piazza del Duomo. La maggior parte dei «fondaci» e dei primi alberghi a Catania sorsero sempre nei vicoli adiacenti a quel primo tratto della via, oggi detta Vittorio Emanuele. Il «Leon d'Oro» era poco lontano, e precisamente nella casa allora di proprietà dei baroni Anzalone, oggi del barone Poliero, in via Virrotio Emanuele. Come accadde al G., anche il Brydone nel 1770 fu portato la prima sera in uno di quei miseri fondaci, di dove poi la cortesia del can. Recupero lo trasferì in un convento. -- La più antica famiglia di albergatori a Catania sembra sia quella degli Abbate, un discendente dei quali è ancor oggi proprietario della «Corona d'Oro». Uno dei più antichi Abbate era soprannominato popolarmente «Cacasangue» e godeva fama di maligno ospite dei forestieri d'oltr'Alpe. Anche il noto poeta dialettale Dom. Tempio lo chiama «Ingannamercanti». Quest'ultimo, che teneva albergo precisamente in casa Poliero, oppure il suo successore può essere stato l'ospite del nostro Poeta al «Leon d'Oro». Carlo Grass, amico del G., nel 1804 alloggiò a Cat. presso un Lorenzo Abbate, forse nello stesso albergo. Il Seume (che del resto allogiò qualche anno prima nel vicino «Elefante») nomina espressamente il «Leon d'Oro» come albergo di inglesi. Del principe Biscari e del Museo B., parlano con grande entusiasmo, come fu accennato, tutti i viaggiatori; notevoli le relazioni del Riedesel, dello Houel, del Münter, del Borch e (dopo quella del Goethe) dello Stolberg. Esiste poi tutta una letteratura locale, encomiastica e d'occasione, sulla famiglia Biscari. Il Museo è stato fra i nostri ampiamente descritto dall'ab. Domenico Sestini, già suo direttore e ordinatore: «Descrizione del Museo d'Antiquariato e del Gabinetto di Storia Naturale di S. E. il principe di Biscari ecc. ecc., Firenze 1776» riedita con aggiunte nel 1787. Nei Paralipomena del nostro «Viaggio» troviamo ricordato dal G. il Sestini, ma solo come autore del suo viaggio in Sicilia. L'abate di casa Biscari che accompagnò il Goethe in giro per Catania non può essere il Sestini, come ha dato per certo il Cart, perchè egli aveva lasciato da un pezzo la Sicilia, per non tornarvi più. (Del Sestini parla anche Goethe, in una lettera del 1806, F. A. WOLF; v. G.-Jahrbuch, 1906, p. 45). La più utile descrizione del Museo in relazione alle impressioni del Goethe, ci sembra quella del Rezzonico (Viaggi della Sicilia ecc.) che è del 1793. Quando il G. visitò il Museo, il principe di Biscari, suo fondatore, era morto. Il G. conobbe il figlio, Vincenzo, che continuava a curare e ad accrescere le raccolte, e la vedova donna Anna Maria Bonanno, figlia del principe palermitano di Poggio Reale. Il Museo Biscari è andato in gran parte disperso dal principio del sec. scorso in poi, sia per vendita degli eredi, che per saccheggi (1848 e segg.). Già il Seume lo aveva trovato in disordine. Nel CONVENTO DEI BENEDETTINI, che possedeva, oltre una biblioteca, un Museo pregiato dai visitatori contemporanei, l'attenzione del G. sembra sia stata tutta per l'organo, che in fatti era ritenuto una meraviglia del secolo. Il Rezzonico fu colpito da un particolare che ricorda l'impressione del Nostro: «Sopra ogni altra imitazione del suono, mi allettò il digradare dell'eco moribonda, sperdentesi in aria come un sospiro...» Autore del meraviglioso organo fu Donato Del Piano, che vi lavorò dodici anni. Costò ai monaci oltre 500 mila lire. Aveva 72 registri e 2916 canne. (Carcaci, Guida citata) Oggi è deteriorato e quasi inservibile.
  2. GIUSEPPE GIOENI. -- Il cavalier Giuseppe Gioeni, dei duchi d'Angiò, aveva fondato da poco il suo Museo di Storia Naturale, non ancor noto al tempo di Goethe (che è uno dei primi che ne parli) come quelli del Biscari e dei Benedettini. Lo stesso Spallanzani, che fu a Catania l'anno dopo (1788), scriveva: «Comincia a fiorire un terzo Museo, ancor poco conosciuto fuori, perchè recente». Numerosi sono gli scritti e gli elogi dedicati dai catanesi al Gioeni, il cui Museo è tuttora in parte conservato all'Università, dove ha sede anche l'«Accademia Gioenia», ecc.
  3. La escursione del G. sull'Etna si limitò, come quella di parecchi altri viaggiatori, alla gita a Montirossi. Come il Gioeni, anche lo Spallanzani sorride degli stranieri, che novellarono dell'Etna, senza aver compiuta l'ascensione. -- Una guida dell'Etna spesso lodata dagli escursionisti del tempo, era Biagio Motta, ricordato anche nel Viaggio Payne-Knight-Hackert edito dal Nostro. Un ritratto del Motta trovasi nel Viaggio dello Houel. Le belle «zeoliti» ammirate dal G. erano state osservate e studiate dal Dolomieu, poi dallo Spallanzani, che descrive la sua escursione, fatta per consiglio del Gioeni, nel primo vol. de' suoi Viaggi (Pavia, 1792).
  4. IL VIVAIO. LA NAUMACHIA. -- I serbatoi d'acqua cui si accenna, più volte descritti, eran detti nel loro complesso il Vivaio, opera idraulica-agricola del principe Biscari, allora molto ammirata. La Naumachia era anche una grande vasca in riva al mare, costruita dagli antichi catanesi per esercizio di nuoto e di giuochi navali. Le lave ed i terremoti han ridotto l'imponente costruzione all'attuale rovina.
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