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VICENDE DELLE STRADE FERRATE NEL REGNO

LOMBARDO-VENETO



A queste notizie sulle strade ferrate lombardo-venete diamo la luce, perchè i sudditi austriaci di sangue italiano conoscano come siano tutelati dal governo i loro interessi. Non isperino florida stabilità ne’ commerci, durevole pace, larga e sicura arena all’ingegno, gloria al nome che portano, sotto reggimento straniero. A Vienna non sarà mai dimenticato che sono Italiani, quindi nemici. Si mostrino zelanti, tranquilli, fedeli pagatori delle gabelle; che importa! Come potran cancellare il delitto d’esser nati Italiani? Però d’egual misura rispondano; se ora non possono scuotere il giogo, nulla concedano, combattano sempre dentro que’ termini che le circonstanze disegnano, s’atteggino come soldati pronti alla battaglia in qualunque momento. Nè questo è sì lunge come taluni suppongono.

L’articolo è dettato da persona dottissima in siffatte materie, degna di fede, perchè lombarda, di grave intelletto, di onesti pensieri, e illustre per altri scritti. Non mi è dato palesarne il nome, non volendo aprirle una carcere; ma ne abbia i miei ringraziamenti, ai quali certamente uniransi quelli de’ miei lettori.


Il 29, 30, 31 maggio 1837 una moltitudine straordinaria ingombrava le stanze, li atrii, le scale ed i portici del locale della Borsa in Milano. Erano possidenti mezzi speculatori, negozianti all’ingrosso, negozianti al minuto, commessi, giovani di studio, scrittori, perfino facchini, e tutti accorrevano a farsi prenotare per avere azioni della strada ferrata lombardo-veneta, che allora appunto nasceva a pubblica vita. Essa era costituita di 50 mila azioni, di lire 1000 austriache cadauna, oltre 500 onorarie da distribuirsi fra i soci fondatori, che erano 36, dei quali 24 a Milano, 12 a Venezia. Questi soci fondatori avevano già tenuti altri congressi a Venezia e Verona; avevano già combinata la linea, che nella prima dimanda di privilegio — la quale partì di Venezia, e datava dal 29 aprile 1836 — era una linea quasi retta da Venezia a Milano, con braccia laterali per le città di provincia; e quel progetto in massima era stato approvato con sovrana risoluzione li 25 febbraio 1837. Però tali pratiche non potevano dirsi della società, non ancora formata, la quale si ebbe origine solo all’epoca indicata. Fra tutta quella moltitudine di genti, pochi assai pochi chiedevano azioni per proprio conto; i più s’affacendavan mandati da agiotatori e speculatori, che per coprire la loro avidità facevano intestare diversi nomi; molti di quelli che si fecero inscrivere non avevano mai sentito parlare di strade ferrate, ed erano incapaci di comprenderne le combinazioni. Infine le dimande furono tali e tante, che in realtà il numero chiesto fu quindici volte superiore al numero disponibile. Sì tosto distribuite le azioni, vennero negoziate e con esse introdotto anche a Milano il giuoco di borsa, quantunque in appresso abbandonato. Per ispiegare il furore che destò l’impresa in sul primo nascere, convien si rammenti quella esser stata l’epoca della maggior febbre d’agiotagio, colui che più si agitava per queste azioni essere un uomo potente, che doveva godere anche dopo una grande influenza sui destini delle strade ferrate italiane, cioè il barone Eskeles.

Per chi nol sapesse è indispensabile premettere che questo signore, il barone Rothschild e il barone Sina, i tre gran potentati delle finanze austriache, avevano fatto un accordo fra loro, in forza del quale eransi divisa la monarchia austriaca per quanto alle strade ferrate, allo scopo che l’uno non facesse concorrenza dannosa all’altro. In questa divisione Gallizia, Boemia, Slesia e Moravia era toccata a Rothschild; l’Ungheria a Sina e l’Italia ad Eskeles, ragione per la quale i due primi non figurarono mai in Italia. Più tardi il governo intervenne a frastornare i loro piani, evocando a sè la costruzione delle strade ferrate non ancora concesse, ma in quell’epoca i tre baroni nominati erano i sovrani despotici. Il 21 agosto 1837 ebbe luogo la prima chiamata dei soci, perchè costituitisi in società regolare fissassero il primo versamento, che fu del 6 per %, pagato in quel torno. Frattanto in luogo di dar principio al lavoro si deliberò di cambiar la linea, e sostituire a quella chiesta nel privilegio un’altra, che da Venezia a Padova andrebbe girovagando per Vicenza, Verona, Brescia e Milano, e questa linea fu detta quella dell’ingegnere Milani, perchè da lui tracciata, quantunque dagli altri suggerita. Nell’agosto 1838 furono di nuovo chiamati i soci per deliberare su codesta linea, la quale, ritenuta come l’utilissima venne approvata; ma i lavori non cominciarono subito, per le interminabili approvazioni che si trascina dietro ogni cambiamento.

Ma il 30 luglio 1840 surse altro ostacolo ben più funesto.

In detto giorno furon chiamati gli azionisti in Venezia ad una delle ordinarie ma inconcludenti riunioni per rendiconto di tutte le spese, anche piccolissime, e la nomina di qualche impiegato subalterno. Pochi dei presenti in Venezia intervennero, pochissimi degli azionisti lontani. Finita la sessione, in luogo di separarsi, uno degli azionisti si alzò proponendo una nuova modificazione alla linea Milani, cioè che la linea si recasse da Brescia a Bergamo, in luogo di andar ritta a Milano passando per Treviglio; e il proponente lasciò intravedere quello pur essere il voto di S. A. il Vicerè. Gli astanti chiamati a votare su due piedi non ebbero coraggio di opporsi ad un voto che poteva anch’esser quello di S. A., ed in luogo di eccepire per l’illegalità della proposizione che non era stata compresa negli oggetti da trattarsi, sebben di tanta importanza, l’ammisero, deliberando poi di affidare a una commissione di dotti il giudizio sulla linea più conveniente, cioè se quella da Brescia a Milano sopra Treviglio, o quella da Brescia a Bergamo e di là per Monza a Milano.

Tale proposta fu il vero pomo della discordia. I Bergamaschi, venuti in isperanza di veder compresa la loro città nella linea principale, si adoperarono a tutta possa, onde aver favorevole l’opinione pubblica al loro disegno. E che si adoperassero per causa cotanto interessante non deve sorprendere nessuno, nè si può farne loro il menomo carico; per mala sorte, i caporioni dei diversi partiti non seppero conservar misura, alle ragioni mescolarono la satira, quindi il fiele municipale, che ben presto communicossi anche al pubblico, incapace di comprendere e giudicare questioni siffatte. Vi ebbero insulti da una parte e dall’altra egualmente riprovevoli.

Mentre i partiti agitavansi, occorrevano altri fatti relativi ad altre strade ferrate. Il signor Zanino Volta, di Como e figlio dell’illustre fisico, aveva ottenuto nel 1837 il privilegio per una strada ferrata da Milano a Como, e nel 1838 il signor de Putzer, di Bolzano, ne otteneva uno simile da Milano a Monza. Questi fu il più sollecito a valersi del suo privilegio; e dato principio ai lavori verso la fine del 1839, finì la sua strada (13 kil.) nel luglio 1840, e così li 18 agosto dell’anno stesso s’apriva la prima strada ferrata del regno Lombardo-Veneto1. In pari tempo il barone Eskeles dava principio al suo gran piano sopra l’Italia, cominciando per acquistare dal signor de Putzer la strada di Monza; quindi tentò, ma indarno, di avere la cessione del privilegio per quella di Como dal sig. Volta. Quel rifiuto fu poi causa di lunghe e spiacevoli vicende; e chi ne sofferse fu il pubblico che non ebbe la strada. Diventato padrone il barone Eskeles della strada di Monza, non è a dirsi con qual calore ei si associasse al partito de’ Bergamaschi, vedendo ben chiaro che laddove fossero riesciti nell’intento, l’intera società doveva poi fare i conti seco lui, quando la linea avesse toccato Monza. Per dimostrare di quanta importanza fosse quella strada, ei faceva vendere e comperare da’ suoi agenti alcune poche azioni che erano in corso al 100 per % di agio; anzi le fece salire sino al 115 per %, come si può verificare nella Gazzetta d’Augusta del 1840 e 1841. Prima che sorgesse la questione bergamasca, l’onnipossente banchiere aveva emesso di suo capriccio promesse di azioni di una strada ferrata da Monza a Bergamo; ed il furore era tale in allora, che salirono al 30 per % di agio. Convien dire che i bancheri triumviri, per troppa fretta di guadagnare, ne facessero tante e dessero luogo a tanti inconvenienti, che il governo ci entrò di mezzo, prescrivendo misure severe contro quegli arbitrii, e decidendosi infine a fare per conto proprio le strade che non erano ancora state concesse. Non so quanto simili misure sturbassero i trattati secreti dei tre baroni, ma so che pel nostro paese non fruttarono che nuovi confondimenti; poichè gli speculatori si gettarono con maggior rabbia su quelle già in corso. La commissione, già stata eletta per dar un voto motivato sulla linea da prescegliersi, cioè se quella di Bergamo o di Treviglio — ed era composta dai professori delle cattedre di statistica di Pavia e di Padova e dall’astronomo di Brera in Milano, il cavalier Carlini— pronunciò finalmente il suo voto, ed era in favore di Bergamo. Quale scontento dovesse sollevare in Milano, è facile arguirlo; si disse che i giudici erano stati comperati; i più istrutti, o meglio i più furenti fissarono il prezzo della vendita, e indicarono i banchieri che avean pagato. Noi siamo lontani dal prestar fede a queste accuse di partiti; bensì è permesso di far le meraviglie per una scelta di persone totalmente digiune intorno alla materia, sulla quale dovean decidere; un ingegnere versato in questa nuova scienza di strade ferrate, italiano od estero (meglio assai) era ben più adatto de’ tre prescelti. Ma chi ci comanda non sentiva punto il desiderio che finissero le questioni. Queste avevano avuto origine da un atto illegale, da una sorpresa fatta sotto l’egida di un desiderio di S. A.; i partiti venivano alimentati ed inferociti da scrittori dimentichi del rispetto dovuto alla comune patria; e la censura, così oculata, lasciava libero corso alle insolenze; e poi le gazzette, segnatamente quella d’Augusta (l’organo austriaco contro l’Italia, sempre pronto a denigrarla), gridavano che gli Italiani non sapevano andar uniti nemmeno per una strada; ed invece colui che li agitava e tenea più discordi era un tedesco, possente come un ministro. Per venire finalmente ad una risoluzione, giacchè anche la decisione dei dotti non era che un voto consultativo, si stabilì dovesse aver luogo un congresso generale che avrebbe deciso definitivamente. Tacendo di uno che abortì per mancanza di legalità in molte procure, verrò a quello del 28 aprile e 4 maggio 1842 che fu il decisivo. Prima che giungesse quel giorno, i partiti eransi preparati per riescire nell’intento. l fautori del partito milanese si raccoglievano in casa del duca Visconti-Modrone, che si era posto alla testa ed aveva fatto acquisto di gran numero di azioni, cadute allora in tale discredito da non valere che il 3 ed anche 2 per % sopra il 16 per % fino allora versato; ovvero, per ispiegar meglio, le azioni per le quali si erano pagate 160 aust. si negoziavano a 30 e 20 lire ed anche meno. Al congresso summenzionato comparvero gli azionisti in numero di oltre 500 con 713 voti. Il congresso venne aperto alle 8 antimeride con un discorso pronunciato da un consigliere di governo qual commissario imperiale; in esso chiedeva al congresso che dichiarasse se credevasi realmente in grado di eseguire la strada, e finiva poi colle seguenti parole, che riproduco esattamente onde non alterare que’ detti così ufficiali: È a mia cognizione che l’Ie Re Governo non dissentirebbe dall’entrare in trattative per quegli efficaci soccorsi anche di prestiti pecuniari che potessero occorrere, affinchè i lavori si affrettino al desiderato loro fine. Due cose di somma importanza dovevano decidersi in detto giorno; la prima era quella della linea, la seconda era la scelta di una nuova direzione. La scelta della linea fu ben presto decisa, poichè il partito milanese era talmente superiore, che allo scrutinio si trovò avere 688 voti in suo favore sopra 713, venendo così prescelta la linea di Treviglio, e posto fine ad una questione malaugurata che aveva incagliata l’esecuzione della strada pel corso di quattro anni, ed aveva costato 30,000 lire per la commissione; il cui voto veniva annullato. I nuovi membri della direzione erano già disegnati anch’essi, e per verità si aveva tutti i motivi di essere malcontenti di quelli della prima. Per assicurare alla nuova il favore del pubblico, fu eletta fra le persone più distinte per nascita e ricchezza, ed alla testa figuravano S. E. il conte Vitaliano Borromeo ed il duca Uberto Visconti-Modrone. Quanto a perizia od intelligenza in materia di strade ferrate, i nuovi direttori non erano per nulla superiori agli antichi, ma si sperava non avrebbero imposto che il nome, come pur si poteva essere tranquilli dal lato dell’onestà nel maneggio dei fondi. In ambedue i punti principali, il partito milanese aveva ottenuto completo successo, e così lo ebbe in ogni altra decisione di minore importanza. Gli speculatori si aspettavano allora che le azioni dovessero muoversi (termine tecnico); ma non avvenne nulla di questo, perchè a Milano non si ritiene mai per definito un affare fino a tanto che non siasi pronunciata in proposito Vienna, la padrona. — Or quale fu la sorpresa universale quando si udì che l’aulico dicastero avea disapprovate le parole del consigliere commissario imperiale, e che il governo non doveva immischiarsi in nulla? La nuova direzione entrò in carica, ma l’orizzonte non si rischiarò e tutto rimase stazionario sino al dicembre.

Infrattanto, avvenuto un gran cambiamento di principi nell’alta regione ove soggiornano i ministri, si era deciso l’opposto di quanto si era manifestato nel maggio. Il governo stabilì di assicurare il 4 per % di rendita alle azioni, e queste allora salirono in breve al pari che poi superarono per spingersi nel 1843 sino al 32 per %, d’onde ricaddero al 7 per %, alla qual ciffra tuttora si trovano. Ma queste oscillazioni sono tutte opera dell’agiotagio che si fa a Vienna, la terra classica dei giuochi di borsa, pressochè sconosciuti a Milano, ove il maggior numero dei possessori di azioni le vendettero sì tosto n’ebbero qualche lucro; non so poi se facendo bene o male. Quello che più importava al pubblico era che progredisse la strada; per questo eransi fatti tanti apparecchi, e si era nominata la nuova direzione. La quale pur troppo non corrispose all’aspettativa, anzi ne fu lontana. Non devesi però attribuire ad indolenza; poichè, se vi furono poche direzioni che producessero meno fatti, poche ve ne furono del pari che si adoperassero tanto e sempre indarno. L’ostacolo era Vienna. Non so se il piacere di umiliare ad un tempo persone distinte vi entrasse ad accrescere l’ostinazione aulica contro la strada di Milano; ma pare certo che Vienna si decise fino d’allora di castigare i Lombardi che osano sperare, e per questo vuole lasciarli gli ultimi di tutto l’imperio a fruire dei vantaggi delle strade ferrate. Per conseguir tale scopo, adottò quel suo sistema favorito, ch’è quello di concedere in apparenza per tergiversar tutto, e complicar talmente ogni cosa trascinandola nel vortice de’ suoi uffici, che per la concessione la più insignificante vi abbisognino anni. Per tal modo nulla ha potuto progredire; e mentre Vienna impediva tutto, facea pubblicare per mezzo delle sue gazzette che gli Italiani non sapevano diriger nulla. Il pubblico mormorava anch’esso, non vedendo progressi nella strada; poichè, come risultato di quattro anni circa che quella direzione fu alla testa dell’impresa, si ebbe un tronco di 29 kil. da Milano a Treviglio, ove tutto rimase stazionario. A vergogna di chi merita l’onta, sia anche detto che uno dei nemici i più acerrimi della direzione fu un Italiano, e precisamente il signor Talacchini. Questo re degli appaltatori era venuto in Lombardia per assumere l’appalto delle opere, ma fece dimanda cotanto esagerata che fu impossibile ammetterla, ed egli si vendicò a Vienna animando a tergiversare chi già n’era dispostissimo. Il torto della direzione fu quello di permettere che Vienna se ne facesse il proprio zimbello. Composta d’uomini indipendenti e che non dovrebbero aver bisogno delle grazie imperiali, quando si accorsero che non potevano venire a capo di nulla, questi dovean ritirarsi; il pubblico avrebbe veduto allora di chi era realmente la colpa, se di Vienna che faceva attendere sei mesi l’approvazione di un casotto di guardia, o della direzione che mancava d’energia. Il pubblico non può conoscere quegli avvenimenti interni; e se non fu contento, è cosa ben naturale, dovendo stare a’ fatti che sono alla portata di ognuno. Finalmente il governo, stanco anche di quel simulacro di direzione, ordinò si abolissero le due direzioni lombarda e veneta, e che a lui stesso si affidasse l’esecuzione della strada; allora gli azionisti (viennesi per la massima parte) fecero umilissima istanza, perchè il governo si degnasse assumere ei stesso l’esecuzione di quella strada; il governo si degnò di accordare la grazia, e tutti i suoi giornali affrettaronsi di far conoscere al pubblico che per giungere ad una risoluzione era stato d’uopo l’intervento del governo, lasciando trasparire come gl’Italiani non sieno capaci nemmanco di eseguire una strada. Quello sfacciato insulto non sarebbe avvenuto se la direzione lombarda si fosse ritirata a tempo, volontariamente. Ora sono decorsi quasi due anni, dacchè il governo è padrone di eseguire a suo grado la strada; stava a lui dimostrare che in prima erasi proceduto sì lentamente per colpa della poca energia italiana? Or che fece il governo che avea lasciato sperare di finire la strada nel 1848? Nulla, precisamente nulla; sul suolo lombardo non avanzò di un metro! Il tempo decorso non valse che a dimostrare più chiaramente la sua avversione ai Lombardi. Il governo, così equo e così giusto, prese i danari della società (nel giugno 1847 cadde l’ultimo versamento dei 50 millioni) e li spese tutti sul veneto. La congregazione centrale nello scorso febbraio pregava si volessero continuare i lavori da Treviglio verso Chiari, onde procurare lavoro alla povera gente, e Vienna rispose in tuono insolente non doversi per ora tampoco pensare a quella strada, mancando i fondi. Ed in pari tempo ordinava alle sue fabbriche di Vienna 22 locomotive per conto della strada lombardo-veneta, la quale per l’uso presente n’è già fornita, e tra le sue macchine ne conta due di Vienna che sono le pessime sopra tutte; con quel danaro si andava sino a Chiari, ma questo era vantaggioso ai Lombardi, figli snaturati che osano sperare! Il governo austriaco pone ora tutto in opera per dividere i Lombardi dai Veneti; a questi tutto concede, a quelli nega tutto. Ma noi feliciteremo i nostri fratelli veneti dei loro successi, e spero troveranno giusti i nostri risentimenti contro un governo che ci calpesta e poi si adira se osiamo sperare. Vienna, che quanto prima sarà unita a Trieste e ad Amburgo, cioè all’Adriatico ed al mare del Nord, per le sue strade trova sempre danaro. Milano non ha che due piccoli tronchi inconcludenti, mentre con tanta facilità poteva unirsi a Venezia ed a Genova; ma da quella parte vi è un abisso ch’è l’erario austriaco vuoto per le strade italiane, e da questa vi è un governo italiano, speranza d’italiani2, quindi altro ostacolo peggiore dell’erario austriaco.

Ci rimangono ora a narrare le vicende della strada ferrata di Como, interessanti anch’esse, perchè contengono alcuni tratti caratteristici, e perchè vi troveremo persone di nostra conoscenza, Io ho di già accennato come nel 1837 il sig. Zanino Volta ottenesse il privilegio per una strada da Milano a Como. Quando il barone Eskeles divenne proprietario della strada di Monza, concepì il doppio piano, o di venderla qual ultimo tronco della linea di Bergamo se potevasi ottenere, o qual primo tronco della linea di Como, e se possibile combinare che la gran linea passasse per colà, in modo da guadagnare per ambe le parti. Quanto ei facesse per ottenere il primo intento, abbiamo già veduto; ma fallito quello scopo, si accinse con maggior alacrità al secondo partito. Nel 1840 ei fece offrire al sig. Volta 50,000 lire (a quanto si diceva) per la cessione del privilegio; ma il signor Volta s’era fisso in capo di non voler cedere, sperando poter organizzare una società per azioni e guadagnare assai più; inoltre non voleva passare per Monza, ma andare a Como in linea retta. Da questo nacque che ogni passo ch’ei faceva per avere una delle mille concessioni che fa di mestieri ottenere, prima di poter usare di un privilegio avuto, era sempre tergiversato a Vienna, residenza della camera aulica e del barone Eskeles. Intanto la strada non si faceva, e gridavasi contro il Volta e con ragione; poichè, reso a lui impossibile il farla, doveva arrendersi e non privare il paese di tanto vantaggio. Finalmente, quando Dio volle, l’ostinazione del Volta fu vinta per assalto da certo Grassi, negoziante di Milano, il quale era un agente di Eskeles; ei riescì ad avere una lettera del Volta, nella quale prometteva di voler convenire a un contratto di cessione sotto date condizioni. Credo, pochi minuti dopo consegnata la lettera, il Volta ne fosse già pentito, poichè in luogo di convenire alla stipulazione del contratto impugnò la validità della promessa; ne surse quindi una causa, previo una multa per mancanza di bollo legale alla lettera che figurava come documento. Troppo noioso sarebbe riandare le particolarità relative alle ragioni del Volta e del Grassi; però balzando alla conclusione, ossia alla sentenza definitiva (poichè non ve n’ebbero meno di cinque e sei intermedie) dirò che fu tenuto fermo il contratto; ma il Grassi dovette pagare non solo le 550,000 lire pattuite — il Volta ne avea già sborsate 500,000 in lavori — ma di accordare anche 2000 azioni al pari che il cessionario non voleva concedere, appoggiandosi al senso equivoco di un’espressione. Tale sentenza veniva pronunciata nel maggio 1846. Eskeles, padrone così del privilegio, non tardò a metterlo a frutto; cominciò a distribuire azioni di quella strada, che circolarono unitamente alle due mille provenienti dal Volta; quindi operò che venissero chiamati gli azionisti in una riunione generale, onde decidere intorno alla linea da scegliersi; e per assicurarsi l’esito di tali pratiche distribuì molte azioni a’ suoi adetti, istruiti sul come dovesser contenersi. Il congresso riunito nell’agosto 1846, in Milano, corrispose se non pure superò l’aspettativa dello stesso Eskeles; esso si decise per la linea di Monza, e nominò quattro arbitri per trattare col signor barone padrone, di quella strada, dando ai medesim arbitri facoltà inappellabili ed illimitate. Il signor Eskeles venne in persona a trattare coi delegati rappresentanti il corpo degli azionisti e fu convenuta la cessione. Io non ne conosco tutte le particolarità, ma le condizioni principali ed essenziali furono le seguenti: — Il signor barone cede la strada di Monza quale si trova, colle locomotive, fabbricati e quanto è inerente a quell’esercizio agli azionisti della strada di Como; e questi in compenso accordano allo stesso 35 centesimi (di lira austriaca) per ogni passaggero che percorrerà quella strada sopra qualsiasi punto, guarentendo però come ciffra minima 720 mila passaggeri all’anno, ossia due mila al giorno, e questo senza eccezione di sorta, quando pure l’esercizio venisse sospeso od interrotto per qualsiasi causa; se poi si verificasse maggior movimento ancora, di quello stabilito come minimo, sarà tutto a vantaggio del sig. barone. — Tale convenzione sottoposta al giro ufficiale, pervenne al suo torno anche al fisco, il quale la dichiarò enormemente lesiva. Il pubblico già prima di sentire il voto del fisco aveva gridato allo scandalo, dicendo che i plenipotenziari avevano venduto gli azionisti da loro rappresentati al barone Eskeles. Il vicerè stesso — fu detto — restonne sorpreso; ed il governo appoggiandosi al voto del fisco aveva scritto a Vienna, perchè non venisse approvato — sempre il fu detto — un contratto così ruinoso, ed attendevasi quindi che Vienna facesse giustizia. Vienna non fece attendere molto un riscontro, che fu l’approvazione la più completa del contratto di cessione tal quale venne formulato. l nemici del barone e compagni divulgarono allora quella approvazione esser stata una delle condizioni poste dal triumviro al prestito fatto al governo da lui tutelato (nelle finanze) in unione a Rothschild e Sina; ed il governo erane contentissimo, sacrificando interessi di privati italiani, dei quali ben poco si cura. I partitanti di Eskeles gridarono più forte ancora dicendo che a Vienna si faceva la vera giustizia, là conoscersi gli uomini, qui altro non esservi che detrattori ed invidiosi. Io senza lasciarmi imporre nè dal pubblico, nè dal fisco, e meno poi ancora dagli eccelsi decreti emanati dalla camera aulica e compagni, dirò quanto parmi che siavi di vero in quella storia. Gli azionisti riuniti dovevano scegliere fra la linea retta e la linea di Monza; ragione e buon volere verso Monza consigliava a non lasciar cadere quella strada, onde non recar danno ad una città piccola ma attiva e fiorente; la maggior spesa che presentava quella linea si poteva d’altronde ritener compensata dal vantaggio di passare per alcuni grossi borghi che s’incontrano su quella via, come Seregno, Paina, Meda, Cantù; ma se tali ragioni consigliavano azionisti liberi nella scelta a preferir Monza, più interessato e in ben altro grado era Eskeles ad essere moderato nelle sue pretese, mentr’egli non era libero, e la scelta della linea retta avrebbe rovinato interamente la sua strada di Monza. Delle due parti chi si trovava in miglior posizione erano gli azionisti di Como; ma non seppero e non vollero valersi del loro vantaggio, ed in luogo di porre come base delle trattative la dimanda del signor barone onde imporgli la discrezione, cominciarono per istabilire la massima si dovesse passare per Monza, e poi scelsero que’ rappresentanti plenipotenziari, accordando loro pienissime facoltà di sentenziare in modo irrevocabile, talchè se avessero fatto peggio di quello che fecero, per quanto agli azionisti, n’erano padroni, il che vi darà norma del buon senno di quel congresso. E notate che; per mischiarvi anche il ridicolo, si disse che procedevasi in cotal modo per far più presto, e mentre erasi indugiato per dieci anni, non si trovavano dieci giorni per riunirsi un altra volta, sentire ed approvare la convenzione. I delegati mandatari fecero allora quel contratto che conoscete così all’ingrosso. I 720 mila passaggeri all’anno assicurati e paganti 35 centesimi a testa danno per reddito netto 238,000 lire all’anno, oltre il di più se mai quella ciffra di passeggieri venisse superata. La somma suddetta rappresenta un capitale di 4,760,000 lire, calcolato il reddito al 5 per %. Per giudicare di quanto soverchi tal ciffra in favore del signor Eskeles è d’uopo sapere cosa costarono i 13 kil. della strada di Monza da lui ceduta, e qui sta l’errore del pubblico e di chi parla in nome di quello. Si disse e ripetesi ancora quella strada non costasse che 1,500,000 l. al signor Putzer e che questi la vendesse ad Eskeles per tre milioni, e questi poi la cedesse ai buoni azionisti della strada di Como per sei. Senza essere in grado di precisare la vera ciffra dell’importo della strada di Monza, posso asserire con tutta certezza che l’asserto milione e mezzo di primo importo, non può reggere perchè al disotto della possibilità. Nessun paese d’Europa ha saputo fare le strade di ferro con maggior economia del Belgio; eppure il costo medio di quelle strade è salito a 250,000 franchi per kilometro tutto compreso, e per istrade a doppia rotaia. La strada di Monza non offre difficoltà, è vero, ma i terreni in Lombardia e segnatamente questi presso Milano sono fra i carissimi d’Europa; essa è di una sola rotaja, ma il terreno è per due, ed inoltre è fornita di quattro locomotive e di fabbricati sontuosi anche più del bisogno; infine la strada di Monza quale fu ceduta non può aver costato meno di 180,000 franchi o circa 200,000 lire austriache per kilometro, che darebbero 2,600,000 lire; e coloro che, ripetendo l’errore divulgato si appellano all’ingegnere Milani, non si accorgono quale triste servigio gli rendano, giacchè la strada lombardo-veneta da lui diretta, parimente di un sola rotaia, minaccia di superare le 350,000 lire per kilometro, mentre quella di Monza, a lor dire, non avrebbe costato che 123,000. Rettificata la ciffra e posto come importo reale 2,600,000, dovevasi rimborsarlo delle somme pagate a Volta, ossia 550,000, il che portava il totale a 3,150,000. Quando pel privilegio del signor Eskeles fosse stata portata quella ciffra ai 4 millioni era tutto quello che la più lata generosità poteva accordare, poichè, per dire ogni ragione da ambi i lati, è da notarsi che da quella somma vanno sottratte 200,000 lire per un kilometro della strada di Como, già eseguito dal sig. Volta e molto bene, e che inoltre vi è la particolarità che al cessare (nel 1887) di quel privilegio la strada sudetta non diviene proprietà del governo, ma rimane degli azionisti che avrebbero solo a temere la concorrenza di un altra linea, cui nessuno vorrà fare certamente; dall’altro lato poi conviene riflettere che la strada si pagava e valutava come nuova, mentre conta sette anni di esistenza ed un deperimento al confronto ancor maggiore, e per ultimo è sempre d’uopo partire dal principio che la linea retta per Como annullava pressochè interamente la strada di Monza. Quattro milioni adunque sarebbero stati non già un equo ma un generosissimo compenso; il di più, ovvero le 760,000, può risguardarsi come un dono che gli azionisti fecero al signor barone col mezzo dei loro rappresentanti, ch’io ritengo essere stati piuttosto soprafatti che venduti, lo che potesse almeno servir di norma a futuri congressi di azionisti per non legarsi le mani in prevenzione quando si tratta di oggetti di vitale importanza. Dal quadro da me fatto si può giudicare anche delle esagerazioni del pubblico e qual conto si possa fare del milione e mezzo del costo primitivo della strada di Monza e dei sei millioni dell’ultima vendita; in pari tempo si avrà un’idea della prontezza di Vienna nel rendere giustizia, e qual ragione possano avere i plenipotenziari di menar vanto segnatamente poi della guarentigia accordata al signor Eskeles pel caso la strada non fosse tampoco attiva. Ma Vienna ha già deciso e quindi si taccia. — Il passato adunque è in perfetta regola. — Quanto al presente devesi dire che la direzione della strada spiega una lodevole attività; la linea è appaltata quasi per intero, e nel 1848 sarà condotta a termine. Il signor Talachini si presentò anche per questa, ma sempre colle sue pretese smoderate ed inamissibili; adesso però non è più la direzione milanese che ha di fronte, ma un uomo avanti il quale è pigmeo anch’egli, ossia il barone Eskeles, triumviro delle finanze austriache; e se vorrà cozzare a danno della strada di Como, n’andrà colle beffe.





  1. La prima in Italia era stata quella da Napoli a Portici aperta il 5 settembre 1839.
  2. Iddio pur lo voglia! Nota dell’editore.

Note

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