< Vincenzo Bellini
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(1801 - 1835)
Prefazione Appendice




Se ai tempi felici della Grecia due semplici e meravigliosi pastori con la tibia e col verso trassero improvvise soavi armonie, ispirandosi a questa natura sempre maestosa e pittoresca, dopo lungo volgere di secoli e di sventure ai nostri giorni, successe a Dafni e a Tirsi chi rinnovò con le note musicali gli antichi incanti. Teocrito, intitolando del nome di Tirsi il primo dei suoi più leggiadri idilli, rapito di entusiasmo, esclamava:


     «Incipite buculicon, o dulces Musae, incipite carmen;
Tyrsis hic ille ab Aetna, et Tyrsidis haec vox est....
Dulcior, o pastor; tuus cantus, quam que resonans
Illa a petra distillat superne aqua.»


Questi esametri potrebbero racchiudere l’indole melodiosa, l’elegia e l’idillio che tutta comprese l’anima del Bellini; ed opportuni luoghi furono questi ove si svolsero i primi germi di quell’arte, che nata con Dafni e con Tirsi, trovò in lui il Maestro più ispirato e più sapiente.

Sin’anco il giorno terzo di Novembre del 1801, giorno in cui con le nebbie del tramonto si indugiano e si confondono le salmodie e gl’incensi che poc’anzi si sono alzate dalle zolle dei cimiteri, fu auspice di dolce tristezza, tra gli asfodeli e i crisantemi, che doveano intrecciarsi a perenne ghirlanda sopra la sua tomba.


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L’avo suo, Vincenzo anch’esso di nome ed abbruzzese di nascita, allievo della scuola severa del Durante, e Rosario, padre del portentoso bambino, godevano meravigliati quando i ditini dell’infante toccavano per istinto divino nella atavica virtù i tasti del clavicembalo, i cui accordi riempivano di gioia ineffabile il roseo volto e la piccola anima.

Appena adolescente il canonico Pulci gli apprendeva lettere italiane, e l’avo e il padre i primi principî del partiraento e dell’armonia. Compose allora alcune sonate e sinfonie, una messa e cantici sacri. Fu visto spesso solitario, lagrimoso di scoramenti sconosciuti, compassionare i miseri. Il vecchio mio padre, compagno a lui nella scuola elementare, lo ricordava esile e biondo, vaghissimo d’aspetto, salito su di una panca dirigere l’esecuzione di un Tantum ergo, nella chiesa dei Gesuiti.

Così nelle domestiche mura, risuonanti di armonie, adorato dai genitori e dai fratelli, amato dai conoscenti, stimato dai cittadini, che ne presagivano la fama, spuntavano i tenui raggi che dovevano produrre tanto fulgore.


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Era Intendente della Provincia di Catania al 1819 il Duca di Sammartino, e presiedevano al governo della città uomini che ai veraci sentimenti di patria univano sollecite cure alle arti del bello. Consapevoli che così lusinghiere promesse avrebbero potuto certamente svanire chiuse in un breve e disadatto spazio, ottennero al giovinetto un sussidio. Può di leggieri considerarsi quanta viva e trepida gioia lo invadesse quando dal limitare della casa paterna diede l’intimo addio ai genitori smarriti nella speranza dei futuri trionfi e nel dolore del lontano soggiorno, chè allora dall’isola al continente era infrequente e ardimentoso il viaggio. Ma una Visione sorrideva al predestinato fanciullo, guidandolo nella incantatrice Sirena, a collocarlo nella sede dei suoni, là, nel conservatorio di S. Sebastiano in Napoli, ove, trasportate dalla Pietà dei Turchini, custedivansi vive le sinfonie dei Durante, dei Cimarosa, dei Paesiello, del Leo, dei Pergolese.... Pergolese, divino e sventurato! Il tuo Spirito non si commosse d’ineffabile godimento fraterno penetrando nel cuore del giovinetto catanese, cui tanta rassomiglianza di età, di dolcissimo pianto e di nenia soave doveva unire nello immortale destino e nell’abbandono della morte angosciosa e precoce?

Pochi mesi dopo, furono tali i suoi progressi che, per mezzo di concorso, gli vennero gratuiti la permanenza e gli studî. Gentile di aspetto, semplice di maniere, quel mistero che traspare sulle fronti segnate dal Genio gli procacciarono larga e profonda simpatia in quanti lo conobbero. Ma un’anima legossi alla sua coi vincoli della più salda e sincera amicizia, per cui il Bellini non ebbe segretezza di consigli, gioia di trionfi, angoscia di dolori, sogni di gloria, rammarichi di sgomenti, che non fidasse, come ad una parte dell’anima sua all’anima di Francesco Florimo anch’esso giovine al par di lui, leale e mite, di ingegno colto, come più tardi largamente dimostrava nella storia dell’Arte musicale italiana e benemerito della Patria, per avere ordinato e abbellito, arricchendolo d’opere varie e insigni, lo Archivio del Collegio di Musica in S. Pietro a Majella, rendendolo celebre in tutta Europa.

Il Bellini, dopo gl’insegnamenti del Furno e del Tritto, fu accolto nella scuola dello Zingarelli (1882). Guidato da così eletto maestro di profonda stima e d’animo benevolo, nello studio dei più grandi musicisti, che formarono la gloriosa scuola italiana, il giovinetto passava i giorni meditando sulle opere loro, interrogando l’anima sua, quantunque i rumori degli applausi alle note del Pesarese, vorticose e smaglianti, turbasse i suoi sogni; presago che a tanta luce di sole potesse un giorno seguire tranquillo e profumato chiarore di plenilunio.


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In quell’anima appassionata insieme con l’Arte aleggiava l’Amore. Innanzi a leggiadro volto di fanciulla modesta, dagli occhi pieni di fascini affettuosi, sentì Bellini un palpito misterioso, che all’armonie delle note era in lui ispirazione solenne e aiuto arcano. Maddalena Fumaroli, alla cui bennata famiglia il giovane catanese era gradito, arse segretamente per lui, sin che palesando entrambi la loro passione, dai genitori di essa venne negato alla unione maritale l’assenso, opponendo il dubbio guadagno e le poche risorse del giovane. Accorato e dolente si rivolse tutto all’Arte, confortato dall’Amore, cui il severo divieto rendeva più fedele e più forte. È vero, nascono gli amori dovunque, ma, quando tale fiamma s’accende sotto il cielo di Napoli, nei luoghi incantati che l’alimentano di più soavi profumi e di ardori più dolci, è ben difficile che per mutare di eventi la lusinghiera Partenope ne cancelli i segni e spenga la sua pensosa canzone!

Così le segrete susurrate parole egli trasfuse nelle semplici note dell’Adelson e Salvini; Operetta in cui il sapiente e austero Zingarelli non mise mano e lasciò che, così com’era, fosse rappresentata nel piccolo teatro del Collegio. Essa rivelò un tesoro di che l’umanità sente sempre il bisogno, il tesoro della pietà e delle lagrime, il sentimento che ci solleva e ci culla nelle regioni celesti.

L’Amore recente nei veli della mestizia traspariva ispiratore e maestro di quelle melodie ingenue e tranquille; sì che commossa e saziata la gente traeva in quel luogo, e la fama sparse nella immensa città il nome del giovine predestinato.

Così nel 1825 si mostrava all’Italia il Genio vergine e novo, mentre il gigante dei suoni, Rossini, piegava ogni intelletto; abbattendo come fiume luccicante e sonoro le dighe che per l’innanzi ne ritardavano il corso. Il Duca di Noja, governatore del Collegio e sopraintendente dei reali teatri, invitò allora il Bellini a scrivere un’Opera seria invece di una Cantata, com’era uso che facesse il più distinto alunno di quel Collegio; e apparve Bianca e Fernando nella serata di gala del 12 Gennaio 1826.

La rivelazione fu più completa, più sicuro il presagio, più promettente la gloria. Paesiello aveva ceduto il posto al giovane siciliano, che del vecchio glorioso musicista interpretava i più riposti arcani dell’arte. Lablache e Rubini erano gli esecutori meravigliosi di tanta affettuosa malinconia musicale; il gran segreto degli spontanei godimenti dello spirito erasi già rivelato, l’Italia ne udì la nota incantatrice, Milano invocò l’inspirato cantore.


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Colà scrisse il Pirata. Alle preghiere disperse fra gli urli della tempesta, ai pianti d’Imogène, ai disegni di Gualtiero, al coro degli audaci corsari ripetuto dagli echi dei lidi, applausi unanimi, insistenti risuonarono nel teatro della Scala la sera del 27 Ottobre 1827. Gli animi commossi obliarono per poco come in quelle stesse mura poc’anzi il Genio pesarese fosse stato innalzato agli onori supremi. Raro avvenimento, spettacolo meraviglioso! l’incontro di due astri nel cielo dell’Armonia!

Allora sulle scene si udì la Poesia legata intimamente alla Musica, più che per lo innanzi non fosse: la parola idealizzata dal suono, resa più potente all’anima dalle modulazioni che la passione le insinua. Così ogni affetto trovò la sua più giusta espressione, e Felice Romani, modificando anch’esso con gusto squisito (che ora in tanto scompigliato verismo potrebbe sembrare artificiosa maniera) i drammi lirici che il Metastasio aveva reso, pel primo, efficaci, fu compagno e collaboratore di tanto miracolo d’arte. Con insolita rapidità codesta opera valicò le Alpi; Vienna anelava di udirla; lo spirito di Mozart applaudiva anch’esso nell’entusiasmo dei suoi concittadini.


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Nella sera del 14 Febbraio 1829 i Milanesi vollero riudire le armonie del Bellini nello stesso teatro, non già con l’opera stessa. La Straniera, ancora più ricca di pregi, più li commosse alle lagrime. Il canto festoso dei rematori su lago solcato da navicelle illuminate apre il dramma nel mistero che circonda Alaide, e nell’amore disperato di Arturo; il coro sospettoso dei cacciatori e dei delatori, il duello tra Valdeburgo e Arturo il sacrificio di Alaide, la imprecazione che dà fine al dramma, rinnovarono più fervidi entusiasmi.

Sorgi per poco, o Bellini, dal sepolcro; ridici adesso le stesse confidenti e sincere parole con che allora annunziasti ai tuoi l’inaspettato trionfo. Ora nella tua modestia la tua esultanza è più gradito, il presagio felice diventò la tua Gloria.

«Mio caro zio. — La mia «Straniera» è andata in iscena sabato 14 corrente, ed io non trovo parole come descriverle l’incontro, che non si può chiamare «furore», «andare alle stelle», «fanatismo», «entusiasmo», no, nessuna di queste parole basta ad esprimere il piacere destato da tutta la musica; la quale ha fatto gridare tutto il pubblico da matto. Tutti sono restati storditi credendo che non potessi fare un altro «Pirata», e l’aver trovata questa di gran lunga superiore l’ha tutti sbalorditi, di maniera che m’hanno fatto «sortire» due volte nel 1° atto e cinque nel 2°, cosa che mai s’è vista da che esiste il teatro della Scala. Tutta Milano è entusiasta, ed io non so dove mi trovo pel contento. Di già ha ricevuto, credo, il libretto. Florimo ancora le farà capitare tutto i Giornali che parlano della «Straniera», e vedrà presso a poco l’esito descritto, che a me non conviene dettagliare. Le basti che non mi resta più che desiderare; pur nondimeno non abbandonerò il mio studio per non andare indietro; e se Iddio m’ajuta spero di formare epoca col mio nome; il quale mi pare che si basa bene nella carriera, ove, per sua bontà, il pubblico mi stima come un Genio innovatore, non plagiario del Genio dominante di Rossini. Basta, i Giornali la metteranno a giorno di tutto. Questa lettera non la faccia vedere che ai miei più stretti parenti, e la stracci: non conviene a me il lodarmi; quando poi avrà ricevuto i Giornali li divulghi, e se è possibile li facci inserire nel Giornale di Palermo. Mio caro zio, rallegri con questa felicissima nuova i miei amati genitori, il nonno e i parenti, e dica a tutti che la mia fama è giunta alle stelle con questa nuova opera, e spero innalzarla ancora al di là coi miei indefessi studi..... Affezionato nipote — Vincenzo. (Milano, 16 febbraio 1829)»1.

Commossa di gioia e di orgoglio la Patria gli decretava una medaglia d’oro, che da un lato mostra la effigie del giovine, circondata dalle parole: «Vine: Bellini: Catanensis: Musicae: Artis: Decus», dall’altro, Minerva recante in mano la corona della gloria, e nell’altra le armi della guerra; e intorno il motto: Meritis: Quaesitam: Patria.


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Quantunque stanco da’ lunghi studî, ma forte di volontà, scrisse la Zaira, pel teatro ducale di Parma. Quest’opera non piacque. Fu puntiglio municipale che al dramma Cesare in Egitto d’un poeta cittadino egli preferì l’opera del genovese Romani? Forse volle la prima volta provarlo la Fortuna, che precocemente gli s’era concessa, con un sguardo di amante crucciata? Ma il giovine di feminee parvenze mostrossi fieramente uomo, quando, soffermate sull’ingresso della platea, vide sfilare sotto gli occhi, inchinandolo, i suoi fischiatori, silenziosi e dimessi.

Venezia, non sazia delle melodie del Pirata, tentò, amorosamente insistendo, il Genio del catanese. Grato agli onori ricevuti, scrisse I Capuleti e i Montecchi. Agli 11 di maggio 1830 quella pietosa storia ebbe la sua più sincera e mesta interpretazione musicale; nessun’altra nota avrebbe potuto manifestare l’angoscia dell’amore più di quello che non facessero le cantilene uscite da un’anima capace di sentire tutto l’abbandono della sventura e della morte.

Il canto di Tebaldo, il lamento di Giulietta che attende trepidante il suo Romeo, il finale del 1° atto, dove i due amanti, per paura delle ire paterne, sfuggono un istante, ritornando con più insistenza a stringersi, esclamando: «Ci rivedremo in cielo», il coro funebre: «Pace alla tua bell’anima», ispirato ad una nenia popolare che ancora le fanciulle catanesi, custodite in un Conservatorio della città, ripetono nelle esequie, le strazianti note di Romeo sul cadavere della fanciulla diletta destano così soavissima tristezza, alla quale non si resiste senza un raccoglimento di compassione.

Nel segreto del suo cuore trovò Bellini ancora l’esempio di una passione contrastata, ma non spenta. Certo le parole e i pensieri della Giulietta infelice gli furono ispirati dalla sconsolata imagine della sua Maddalena. Nella verità di quelle note come fuochi fatui guizzano palpiti provati, profondi, che gli commovevano ancora l’animo di turbamenti e di carezze, per quanto più liberi amori ora lo venivano governando. Dopo la fine dell’Opera una folla immensa accompagnò il Maestro alla sua dimora. Le chete lagune riflettevano i lumi trionfali; fu udito il gondoliere ripetere subito la cantilena appena nata; furono reiterati i pezzi musicali più eccelsi. In quell’ore notturne non solo negli animi esaltati dalle suggestioni dell’Arte, ma il godimento pareva spargere nolenti acque e nei vigili marmi dei palagi severi.

Con affettuoso pensiero il Bellini consacrava «Ai catanesi — Che il lontano concittadino — Nel musicale arringo sudante — D’onorevoli dimostrazioni liberali confortavano — Quest’opera — Sulle venete scene fortunata — Pegno di grato animo — E di fraterno affetto».


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Miti brezze di sereni tramonti, canti di rosignoli innamorati ai plenilunî, chiarori di fresche aurore, allegre voci di esseri sconosciuti, melodie di flauti misteriosi e d’arpe dolenti, voi raccolte insieme avete formato un canto, un’elegia, un’ispirazione, la Sonnambula!

Sulle sponde del lago di Como Bellini scrisse la Sonnambula; lieto d’un passato languore di malattia e delle dolci cure di affettuosa amica. Rappresentata sulle scene del Carcano la sera del 6 Marzo 1831, questo capolavoro racchiude tutto ciò che la melodia belliniana fu capace di manifestare, tutto ciò che l’arte dei suoni può dare nella semplicità dell’Idillio, tutto ciò che può commuovere e commuoverà mai sempre l’anima umana. Amina muove, dormendo, sul’orlo del periglioso mulino, e, sognando, geme nella candide vesti, entro le stanze altrui, sull’amore per poco crudele. Elvino, geloso, rimpiange l’anello nuziale di che l’inanellava con le promesse più lusinghiere, con le raccomandazioni più sacre che labbro sincero e onesto possa esprimere. Il coro dei contadini ingenui e superstiziosi che la figura bianca e leggera della sognante fanciulla credono pauroso fantasma, la canzone ineffabile, attinta dal labbro del popolo ed al popolo ritornata dalle mani del Genio, con la quale la derelitta confida alle viole la sua pena senza conforto.... o care voci, celesti risonanze, fiore di passione immortale!


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È la sera del 16 dicembre 1831. A tarda notte Bellini rincasa: lo sgomento, il dolore, l’angoscia, lo strazio dell’amor proprio lo invadeva da poco. Aveva udito mutati gli applausi in fischi, la folla della platea sorgere ostile innanzi a lui; i buoni milanesi, che avevano formato la sua fama, ora s’adoprano d’un tratto a distruggerla. La Norma era stata fischiata! Eppure egli non dà in ismanie; lo spirito eletto, il grande amore, la cosciente sapienza, con che aveva segnato l’Opera sua, gli sussurravano parole segrete di conforto e di umiltà confidente. Non voci d’ira o di sdegno incolpavano alcuno; piglia la penna e scrive al suo Florimo parole di profezia e di singulto: «Vengo dalla Scala, prima rappresentazione della Norma; lo crederesti? Fischiata! Non ho riconosciuto più quei cari milanesi che accolsero con entusiasmo, colla gioia sul viso e l’esultanza nel cuore il Pirata, la Straniera, la Sonnambula! Mi sono ingannato! Ho sbagliato. I miei pronostici falliti, le mie speranze deluse! Ma te lo dico col cuore sulle labbra, caro Florimo, ci sono tali pezzi di musica che, te lo confesso, sarei felice poterne fare di simili in tutta la mia vita artistica. Non fischiarono i romani l’Olimpiade del divino Pergolesi? Nelle opere teatrali il pubblico è giudice supremo; se arriverà a ricredersi avrò guadagnato la causa; proclamerò Norma la migliore delle mie opere! Leggi la presente a tutti gli amici; amo dire il vero tanto nella buona quanto nella avversa fortuna».

E mentre la infausta notizia correva sulla bocche di tutti, e Dio sa quanti mostravansi, con le lagrime agli occhi, gaudenti di gioja segreta, la Norma erasi già rialzata. La druidessa innamorata e severa già rivelavasi tutta nel fascino sublime della tragica azione. «Mi sono ingannato!» No: quaranta sere seguirono piene d’applausi; ogni pezzo suscitava entusiasmi; ad ogni nota, ad ogni espressione, ad ogni canto seguiva altro canto, altra espressione mormorante di fremiti, più intima di delizie. L’austerità sacerdotale druidica, nella quale la preghiera s’insinua come raggio tra nuvole fosche, le parole lusinghiere d’un amore colpevole, la donna cupa di matricidi pensieri, il giovane soldato romano, cui la voluttà e la potenza della sua patria, e il rimorso del pentimento, non sono schermo al castigo di una turba fiera nei suoi costumi e nella sua religione; la morte severa, che punisce nel legionario una nazione prepotente, e nella sacerdotessa la figlia e la vergine sacra e offesa, formano di questo capolavoro un’Opera d’arte completa nelle sue varie manifestazioni, tutta d’un pezzo, come il Laocoonte, come una Cantica di Dante, come una tragedia di Sofocle2.


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Fra i trionfi resi ancor più lusinghieri dalle recenti amarezze, Bellini sentì il bisogno di rivedere i suoi cari, la sua patria, il suo diletto Florimo. Giunto a Napoli volle abitare la stanza dove a lui, giovinetto, la Gloria sorrideva nei sogni, dove lo studio assiduo lo aveva nutrito di liete promesse. Abbracciando e baciando il vecchio Zingarelli (scena commovente) «più mi avrà giovato il nome di vostro discepolo, gli diceva, che il mio scarso ingegno». Tutti parlavano della sua fama, scrive il Florimo che gli stava a fianco, lui solo taceva. Pure agli amici che lo attorniavano, agli alunni che consideravano in lui di che sembianze fosse fatto il Genio, a coloro che lo interrogavano rispondeva modesto: «Che posso dirvi? Sono stato fortunato, ringrazio Dio». Volle anche un giorno desinare in comunità, sedendo in quel luogo che aveva occupato da oscuro e negletto alunno; e in un mattino la porta della sua stanza si vide ornata di festoni di fiori, e, al si sopra, circondate d’una ghirlanda d’alloro, queste parole: «Amore — Onore — Virtù — Gloria — Sapere — Tutto è riposto in te — Bellini». Stupendo esempio di gioventù sincera e modesta, che inchinandosi, onora ed innalza se stessa.

Che dire del suo avvicinarsi alla patria! Palermo e Messina l’accolsero con giubilo immenso. A Catania cento e più equipaggi andarono ad incontrarlo fuori le porta della città; gremite le vie di straordinaria folla, gremite terrazze e balconi: le vetture aprivansi a stento un varco tra gli applausi e lo sventolare dei fazzoletti: cadevano fiori su di lui, e baci, e parole di ammirazione e di entusiasmo. Da ignoto fanciullo aveva lasciato le nostre contrade, re delle soavi armonie ora vi ritornava, col sorriso, con le lagrime della gioja, col suo Florimo a fianco. Cittadini d’ogni condizione gli si stringevano attorno, per vederlo negli occhi, toccare quella mano che evocava così celestiali armonie. I giovani poeti gli presentarono un volume di versi; i sapienti della Gioenia tennero un’adunanza in suo onore. Il rude operajo e l’uomo di studî, la colta signora e la feminetta del volgo, sin’anco le timide vergini del chiostro vollero inviare congratulazioni e fiori, omaggio dell’anima umana alla virtù, nel suo splendore dolce e modesta. I fratelli, le sorelle, i vecchi genitori, tremanti, fuori di sè, lo carezzavano con amore e rispetto, lo custodivano, come si custodisce una cosa non terrena eppure carne della loro carne, ahimè, per poco venuta sulla terra!


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Da Napoli ripartì subito per Milano. Passando da Roma e da Firenze in quei teatri dove si rappresentavano sue Opere, fu acclamato e festeggiato; così pure a Bergamo, assistendo ad una rappresentazione della Norma. Venezia lo accoglie nuovamente. La Beatrice di Tenda, scritta per la Fenice, ebbe la sera del 16 Maggio 1833 sorte non buona. La Malevolenza ora gli si mostrava ostile. Così accade ai predestinati che dell’Arte non fanno mestiere, ma argomento di elette visioni, di manifestazioni eccelse. Sovente lo spirito umano, innalzato là dove gli splendori del Bello rifulgono, accieca per poco; e con inesplicabili modi di fanciullo scortese, oblia gli allori prodigati a piene mani, si confonde nell'oltraggio, finchè, pentito, ritorna a più supremi omaggi.

Leggiamo ancora le parola che il Bellini scriveva al suo condiscepolo Bornaccini: «Tutte le mie fatiche per Venezia sono state sparse al vento. Avrai saputo il solenne fiasco della mia Beatrice. Potrei addurre in iscusa il mal'umore del pubblico per il ritardo, certi articoli preventivi in un Giornale, un avvertimento di Romani nel suo libro, che pute di carnefice in tutti i punti. Ma tali ragioni ora sarebbero intempestive;altro non mi consola, per ora, che la seconda recita della Beatrice portò alla impresa un terzo di biglietti di più dell'introito della prima rappresentazione, e nella terza il doppio... Il tempo risponderà a tutto. La Zaira trovò la sua vendetta nei Capuleti; la Norma in se stessa: chi sa che ne sarà della Beatrice?».

La Beatrice è uno dei setti raggi che escono dal tuo cuore, o Bellini. Orombello che nelle stance noto narra gli strazî della sua tortura, le cupe ire del Visconti, i lamenti della consorte misera, vittima della gelosia e della calunnia, il coro «Angiol di pace», tanta verità, tanta severità di bellezze furono poco dopo applaudite e considerate altamente. Come la sua sorella, la Norma, accolta coi mormorî dell'accigliata sorte, trovò subito i plausi riparatori e solenni, così la Beatrice confermerà mai sempre la voce della tua coscienza «che non avevi fatto lavoro del tutto indegno».


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Londra risuonava già dal suo nome. Invitato, diresse colà due delle sue opere. Giuditta Pasta, la interprete eletta della sua musica nella Norma, scoteva quei cori, ove l'entusiasmo penetrando sotto freddi e indocili veli, bentosto diventa durevole e saldo. La Malibran, che cantava la Sonnambula, nel vederlo apparire, seguìto da una folla di eletti giovani, sul proscenio, gettandogli le braccia al collo prorompeva: «Ah, m'abbraccia!» , parole di quel canto che suscitava tanto delirio! La regina degli Inglesi gli donava ricco anello, e prezioso pugnale una Bonaparte.

Eccolo a Parigi, innanzi al gigante dell'arte dei suoni: Bellini e Rossini, i due che da lontano si contemplavano attraverso gloriosi lampeggiamenti, i di cui nomi ogni giorno, ogni sera, in Italia, in Europa, la gente univa d'un istesso legame, per consegnarli insieme ai secoli. L'uno proclamato rinnovatore e padre dell'arte moderna, col rumore degl'inni possenti, in tutta la severa e festanto dignità d'un Nume. L'altro, nella fresca e bionda sembianza di fanciullo, Signore delle anime, con una nota, che è la stessa Soavità. Si videro da presso, ai compresero.

Bellini lo pregava di concedergli la sua grazie: «Ma io ti voglio bene». «Sì, mi volete beno, ma bisogna volermene di più». Sorrise e l'abbracciava Rossini; gli cadde il fine e geniale motteggio, e di parole amorevoli lodò e confortò quell'anima eletta.

All'altezza del Pesarese il Siciliano si credeva pigmeo; voleva che tutti s'inchinassero al Guglielmo Tell come alla Divina Commedia dei suoni. Quel culto era in lui bisogno del cuore; la malinconia forse dispregia l'allegro sorriso? la sera, che schiude i fiori olezzanti alla notte, sdegna forse le rose che si aprono all'aurora? Fra essi non poteva aver luogo l'invidia; chè là, dove erano collocati, strali velenosi non giungevano. Conoscevano entrambi nella loro coscienza di quela forza Iddio li aveva dotati, diversa e disgiunta nel sollevare gl'intelletti alle regioni del Bello, eguali nel merito, eguale corona già li cingeva.


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Avvicinavasi, intanto, con le sue sane più superbe piante, il Trionfo, traendo seco, Ombra fatale, ma raccoglitrice di nomi immortali, la Morte. I Puritani comparvero al teatro italiano la sera del 25 gennaio 1835. Adesso non era l'Italia madre gaudente della virtù del figlio, ora la Francia regina baciavalo in fronte. I più rinomati maestri, i più celebri letterati, i più cospicui cittadini, le più nobili signore, facevano a gara a tributargli onori. La via dov'egli dimorava «Boulevard des italiens ai Bais Chinois», si vide per lungo tratto ingombra di vetture e di folla. Il re dei francesi lo decorava della Legion d'onore, Rossini attaccavagli al petto il nastro lusinghiero, sul teatro stesso, come a guerriero che sul campo si avesse meritata la medaglia al valore.

In quest'Opera Bellini si collocava in altra regione, senza che tralasciasse la innata soavità, qui la rende in una veste più sfarzosa, più ricca di brillanti colori. Si direbbe che il Rubens abbia prestato qualcosa alla tavolozza del Ghirlandajo. Qui la fantasia dice la sua festosa parola, senza nuocere al commovente sospiro dell'anima. Conosceva bene l'Artista sagace e accorto che doveva scrivere per intelletti francesi; ai quali lo scintillio delle imagini è vanto e diletto: e codesta Opera formò, come disse il Mercadante, l'incante e la delizia di quel pubblico. Rossini assicurava essere la più completa fra le altre: Donizetti, confermando il successo grandissimo, sperava almeno che il suo Faliero non dispiacesse ai Francesi: Anber scriveva essersi aggiunta un'altra perla alla corona già splendida sul fronte di Bellini: Gallemberg esaltato confessava che se non avesse percorso tutt'altro sentiero nell'arte avrebbe gettato la penna al fuoco. In quella memorabile sera gli artisti di canto e dell'orchestra, la gente dei palchi, la folla della platea immensa sorgeva tutta frenetica al crescere del sommo diletto. La meravigliosa incalzante armonia innalzava gli animi alla emozione, all'entusiasmo fervido alno alla apoteosi.

Due sole volte apparve Bellini al cospetto del pubblico. Paragonate con le innumerevoli chiamate d'oggidì quelle due sole volte farebbero il colmo dell'insuccesso e della disfatta! Ahimè, a tal punto oggi la vanità e la vacuità si danno la mano!

La sua speranza che i Puritani avrebbero dovuto essere forieri di sua maggiore fortuna, era più fondata che mai: ma non consentiva il Destino! Tutte le trepidazioni che lo avevano preoccupato ora si risolvevano in solenni certezze; ma una più sicura e fatale certezza lo incalzava! «Mi trovo contento, scriveva al suo Florimo, che buon punto abbiamo superato! e con che esito! Sono ancora tremante dall'emozione di tal successo. Gli stessi Francesi meravigliano tra di loro di essersi lasciati trasportare da tanto entusiasmo». E già s’accingeva a scrivere altre Opere per l’Italia, per l’Europa, pei secoli. Il puntiglio che lo aveva per poco separato da Felice Romani già era sparito; gli affetti che legavano entrambi erano già rinnovati. «Mio caro Romani, gli scriveva, con molto contento vedo rinata la nostra antica amicizia, e te ne ringrazio». La Musica di Bellini invocava la Poesia di Romani; il giovane maestro aveva «tanto rispetto all’arte sua, da non concedere l’onore delle note se non a parole che ne fossero degne»3. Rossini lo consigliava, incoraggiandolo, ad altri lavori. Non cessava però la piccola Invidia di punzecchiarlo, di spargere amarezze su tanto tripudio di contentezza; ma egli guardandola negli occhi, le sussurrava: «Mangerai bile, e creperai».

L’amore per la sua Napoli vinse ogni altro proponimento, e accettò le offerte della Società d’Industria e Belle Arti napoletana, per scrivere due Opere pel S. Carlo. Già da alquanti mesi trovavasi in un luogo tranquillo presso Parigi, il frastuono non era per lui: a Puteaux lo aspettava la Morte!


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Il malore intestinale, che lo aveva assalito un anno prima a Milano, ora, inasprito dagli studî e dalle emozioni, ritorna con più violenza. Pochi mesi innanzi, la morte della povera Maddalena gli aveva «spezzato il cuore». A Florimo, che gliene dava l'annunzio, scriveva: «Leggendo la tua lettera ho pianto amaramente! Quante passate cose mi sono ritornate al pensiero! quanti ricordi! quante promesse! Come tutto è passeggiero in questo mondo di fantasmagorie! Che Dio riceva la sua bell'anima nella eterna sua gloria! La terra non era degna di possederla. Il mio cuore esulcerato è ancora suscettibile se non di amare più, di soffrire certo... Son diventato triste! spaventevolmente triste!... Da diversi giorni una lugubre idea mi siegue dovunque, e temo di manifestartela.... Ma eccola.... non spaventarti!... Mi sembra, e te lo dico con ribrezzo, che tra poco altro tempo dovrò seguire nel sepolcro la poveretta che non è più! Che vuoi? Compatiscimi, o come meglio t'aggrada, compiangimi! Addio».

Nell'ultima lettera che scrive al suo Florimo (7 sett. 1835) dice che del suo malore andava meglio, e finisce: «resta però un leggiero dolor di testa... Nulla ho più di nuovo». Il malore avanzava inesorabile. Dal 15 al 27 Settembre aveva tolto ogni speranza. Il Maestro Carafa fu tra i pochissimi che nel corso della malattia lo avesse avvicinato. Costui ci ha tramandato solo le parole del giovine delirante. «Dov'è mia madre, dov'è mio padre?... E Florimo perchè non giunge... gli amici?...».

Dal 2 Settembre all'estrema sua giornata quali medici lo curarono? Di che premure e sollecitudini gli furono pietosi coloro ai quali era ospite? Un fosco velo copre gli ultimi giorni, le ultime ore di quel grande sventurato.

Il barone Aymè d'Aquino, ministro plenipotenziario di Francia, scrive così:

«Parigi, 8 Settembre 1835— Il giorno 11 corre la notizia che Bellini è ammalato a Puteaux (ove l'ho visto di questi giorni). Lo trovo a letto; mi dice di soffrire una leggiera dissenteria; ma non tarderà a ritornare a Parigi. In questo istante comparisce Mad. Lewis, conosciuta da me sotto il nome di M.lle Olivier. Essa rimprovera acerbamente l'ammalato, dicendo bisognargli assoluto riposo: Il rimprovero evidentemente è diretto a me. Prendo commiato. Racconto la mia visita a mio zio Carafa e a tutti gli amici.

Il giorno 12— Ritorno a Puteaux. Attraverso la inferriata del giardino scorgo il giardiniere; ma l'ordine è stato dato: Non si riceve nessuno.

Il giorno 13— Insieme con Mercadante vi ritorno; l'istesso ordine.

Il giorno 14— Carafa s'annunzia quale medico di Corte. Giunge fino a Bellini; lo trova a letto.

Il giorno 22— Sino a questo giorno nessuno è giunto a poter vedere Bellini. Prorompe il malcontento fra gli amici, la sera stessa, presso Lablache: si parla di fare intervenire il Procuratore del Re...

Il giorno 23— Volendo passare la giornata a Rueil, presso mia cugina, parto a cavallo di buona ora. Al ponte di Courbevoie mi fermo a Pu- teaux. Il giardiniere è sempre inflessibile. Nel corso della giornata scoppia un violento uragano; alle 5 e 10 minuti, tutto fradicio di pioggia, batto alla porta di Mad. Lewis: nessuna risposta. Spingo la inferriata, che cede. Lego il mio cavallo; penetro nella casa, sembra abbandonata del tutto. Trovo Bellini sul letto come se dormisse... La sua mano è fredda. Stento a credere la spaventevole verità... Rientra il giardiniere, mi dice che il Sig.r e la Sig.a Lewis sono andati a Parigi; lui ha dovuto uscire a chiamar gente e a procacciar dei ceri... Imbarazzato, smarrito, m'affretto a trovare Lablache, strada dei tre fratelli, da dove la notizia fatale ci sparge per tutta Parigi».

Dunque codesta sig.a Lewis, conosciuta prima per la sig.na Olivier, brontola vedendo al capezzale del morente qualche amico fedele; se fosse stata premurosa pietà la sua perchè proibirgli il conforto di coloro che l'amavano? Come mai pensò di abbandonare negli ultimi momenti un ospite così buono e illustre? Carafa rompe il crudele divieto, spacciandosi medico di Corte, e a stento assiste al delirio del povero ammalato! Dal giorno 14 al 22 nessuno giunge a penetrare in quelle stanze. Il malcontento degli amici assume l'aria di un triste mistero nell'animo loro, tanto da farne consapevole il magistrato. Gli avvenimenti del 23, cennati con tanta rapida evidenza, lasciano vasto campo a interpretazioni bieche, a pensieri di sdegno. Codesti due personaggi rappresentano l'Egoismo e l'Ipocrisia che sogghignano solitarî, allontanandosi dall'agonia del Genio.


*


Funesta sorpresa, angosciosa per quanto incredibile realtà, la morte di Bellini commosse tutti gli animi. Quel giovine, la di cui fronte, ancor calda dei baci della Gloria, e ai di cui piedi aveva profuso ghirlande l'entusiasmo dei popoli, a cui s'erano inchinati principi e re, a cui poc'anzi aveva sorriso di cortesia la regina dei francesi, moriva solo, abbandonato! Non sarai dimenticato del tutto, o povero coltivatore di un giardino, nobile servo di due tristi padroni, ove la tua pietà, forse, in quel momento estremo fu più intima e fraterna a quell'anima armoniosa della manifestazioni recenti, le più lusinghiere, che la avessero riempito di gioja. Quanti furono in quei giorni insigni nelle Arti e nelle Scienze confusero le loro con le lagrime dei popoli, poi che quelle armonie erano svago necessario, bisogno voluto dai cuori, nenie che cullavano lo spirito ancora esaltato ed inasprito dalle armi del Bonaparte. Le città, cui un male inteso amor di patria tenea divise, ora riunite nel dolore della comune sventura obliavano il rancore e il disdegno4.

Che dire del suo Florimo atterrito e affranto dal dolore? Il vecchio Zingarelli, esclamando: «fossi morto io, l'Arte non avrebbe perduto nulla!», colle dirigere una sua Messa, eseguita da più di 300 cantori. La vetusta Chiesa di San Pietro a Majella parata a lutto, risplendeva di mille ceri; accoglieva i Ministri di Stato, il Conte di Siracusa, il Corpo diplomatico, il Collegio reale, tutte le Accademie, i più cospicui cittadini, gli amici, i compagni di Collegio. L'inconsolabile Florimo gli fece omaggio di una Sinfonia, scritta più con le lagrime che con le note; Donizetti di un Lamento; Cesare Dalbono dell'Elogio. Il lutto preoccupava Napoli tutta. Che dire dei vecchi Maestri che lo marono come figlio? dei giovani come fratello? Il tenero e triste Chopin chiedeva che lui morto venisse sepolto presso la tomba di Bellini; tacque il canto di Giuditta Pasta e della Malibran. Cherubini, Mercadante, Paër, Spontini, Halevy, Panseron, Auber, nomi sacri al'Armonia; Lablache, Tamburini, Rubini, Nourrit, nomi eccelsi del canto, uniti da un solo pensiero, il giorno 2 Ottobre, col funebre rito che la Religione di Cristo rende più sacro, nella Chiesa del'Invalidi recarono la salma lagrimata. Cherubini, Rossini, Paër, Carafa reggevano i lembi della funebre coltre. Cessati i canti rituali, eseguiti da 350 cantori del Grand'Opera, diretti dall'Habeneck, ad un tratto Rubini, Ivanoff, Tamburini e Lablache intuonarono una Lagrimosa alla Palestrina, su talune melodie dei Puritani Così quelle note che trassero gride trionfali, costringono ai singulti a colui che poc'anzi le aveva segnate, ed ora cadavere nel mezzo della Chiesa!

Un suono lugubre gridava la folla dei più rinomati artisti italiani e stranieri: gli amici, gli ammiratori, tutto un popolo sotto la pioggia, al cimitero Lachaise. Colà furono ascoltate con emozione e raccoglimento le parole del sommo Paër. Spettacolo degno! Coloro che più rifulgevano nell'Arte sua stessa gli tessevano gli elogi. Un mormorio, un fremito angoscioso passa tra la folla; Cherubini, il sublime vegliardo evocatore delle armonie che inneggiano a Dio, sorretto da Auber e da Halevy, getta un pugno di terra su quella fossa... Addio, Bellini, la tua vita s'arresta, la tua Gloria s'avanza.


*


«Quando l'Arte è giunta a un alto grado nei suoi mezzi codesta perfezione può diventare un principio di corruzione, per effetto di sazietà... Allora si abbracciano con avidità imaginarî perfezionamenti d'ora in ora più estranei ai principi essenziale ai quali l'Arte deve conformarsi. Questi cangiamenti devono accadere con singolare facilità nei popoli di delicato sentire e di mobile imaginativa. Tale sembra la causa che ha prodotto in pochi anni grandi cambiamenti nella musica italiana».

Questo ho letto in un vecchio libro che tratta del Bello nella Natura e nell'Arte5, e mi parvero parole che dopo un secolo trovano adesso tutta la loro applicazione, e la giustezza degli apprezzamenti. Volendo fare un confronto tra la Musica che ormai ha il soprannome di antica, o di classica, con la moderna è d'uopo convenire con le gravi osservazioni del filosofo francese; se non che allora era necessaria l'evoluzione, per conseguire altri effetti; qualcosa ancora mancava al perfetto rigoglio dell'Arte; oggi si è potuto constatare il danno anzichè il vantaggio; chè certi limiti imposti dalla Natura non si possono impunemente varcare.

«Le bellezze della Musica (siegue l'istesso Autore) sono il prodotto del musicista, allorchè esso pensa e sente al pari del poeta, di modo che regna un accordo perpetuo tra il senso delle parole e l'espressione musicale». Ed è questa, diciamo noi, la forma vera e più solenne, la sola ragione onde la musica vocale esiste, ci commove, ci rapisce. Così l'intesero per sitinto sovrano, avvolorato dagli studî e dalle esperienze, fondate sulle Opere di altri insigni, i più famosi Maestri, dal nostro Scarlatti a Pergolese, da Mozart a Weber, a Rossini, a Donizetti, sino al Vecchio immortale che le ha dato ardimenti e linguaggi di dramma possente e gagliardo. Ma nell'anima del Bellini codesta espressione, codesta unione della parola col suono, codesta interpretazione spirituale del pensiero ebbe la sua più felice manifestazione nella semplicità quasi verginale, nella parsimonia dell'orchestra, che accompagna, commentandolo, il canto, emanante e svolgentesi dall'anima. Ora si dice povera la sua orchestra, senza considerare che la sua povertà è la sua ricchezza; nella sua calma la profondità delle passioni; nella sua semplicità quanta forza, quanta grandezza, quanta verità!6 Chi prendeva a comporre tragedie fu detto che veniva a far sacrificio sulla tomba di Eschilo. Così facesse la gioventù intenta agli studî musicali, pregando auspicî più sereni all'Arte, sul sepolcro del grande Siciliano! «Ho interrogato l'anima di Bellini, e ho scritto la Lucia», così rispondeva Donizetti. Si disse, e con ragione, che i tempi suoi anelavano ad un tregua sociale; forse un non so che armonizzava tutte le arti del Bello. Il Grossi con l’Ildegonda, il Manzoni con gl’Inni Sacri e i Promessi Sposi, il Canova con le Danzatrici e l'Amore e Psiche, il Leopardi con i canti malinconici del Consalvo e della Nerina, il Pellico con la Francesca e l’Ester d'Engaddi formavano quasi tanti lati di un prisma riflettente i colori più seducenti e soavi. Codesta forma ideale, che ebbe la sua più fortunata rivelazione, apparisce ancora casta e luminosa d'ingenue bellezze, malgrado i progressi odierni smaglianti di colorito e di artificio, spesso audace e falso; malgrado d'una parola, Romanticismo, che suona quasi ingiuria per tutto ciò che i nostri padri vestirono di luce spirituale nella eletta sembianza del Vero; credendo noi che i modi e le contingenze artistiche, che omai ci preoccupano, siano le vere esse sole, e le perenni. Forse i novissimi accordi musicali odierni, che, in verità, nella loro grandiosa confusione accusano molto strepito, troveranno altre ben costrutte orecchie; ma non possiamo negare che alle intelligenze colte e alle inconsapevoli turbe riescono ancora gradimento meraviglioso di affetti sinceri, e sono spesso espedienti nelle dubbie fortune dei teatri le serene armonie degli antichi maestri.

Adesso penso che ove mai nelle sale di Pittura moderna scendesse per poco qualche tela dei vetusti dipintori ahimè! ben pochi quadri resterebbero saldi alle pareti!

Invece dell'oscena volgarità, segnata col suggello della novità e della moda, facciamo che risorgano sulle nostre scene i capolavori dei Mozart e dei Gluck, dei Piccinni e dei Weber, dei Cimarosa e dei Paesiello: la Commedia e la Tragedia, il Dramma fantastico e l'eroico, l'Oratorio e la Cantata. Nè potete affermare recar noja e sazietà, poi che alle generazioni presenti sono quasi sconosciuti. Schiudete codesti giardini dove l'Arte passeggia nella sua magnificenza e sincerità. Per paura delle smorfie della Moda dobbiamo disperare, nel gusto pervertito, di ammirarli, di amarli? A tutti gioveranno tali resurrezioni, ai giovini e ai vecchi Maestri, ai filosofi del Bello, al pubblico ignaro. Ritorni fra noi il dolce canto invidiato dagli stranieri, espressione dell'indole nostra, ormai occulto e timido al corrotto frastuono della impudica e sfacciata Canzonetta, o nello strepito impotente ad un tratto ravvolto e strozzato. «La musica imitativa, la musica complicata, la musica sapiente è materia preziosa; ma è materia. Essa non può per sua natura tradursi rapidamente e vulgarmente dal suono al canto, dal canto al suono; non ha eco da popolo a popolo; deve incedere con tutto lo strascico del suo manto; e anche solo dal trapassare da strumento a strumento quella studiosa e maestosa sua mole fa allora naufragio»7. Lungi da noi l'idea che nega ogni avanzamento nelle umane cose, e segnatamente nell'Arte— lo sappiamo per prova— ma rispettando il culto dell'antico pensiamo di conservare il buono, ricercando il meglio, traendo ispirazioni dalla Natura semplice e sublime; guidati dall'esempio di coloro che senza formule accademiche, e senza precetti retorici, ma con le sole leggi supreme, nate da quel felice istinto che molti chiamano filosofia o logica, e noi chiameremo semplicemente Buon senso.

Si dice che l'Arte dal Rossini al Verdi passerà come vieta. Meschini! che dell'Arte conoscete così poco l'essenza; quasi l'anima volgesse ai vostri capricci. Se innanzi alle tele di Guido, dell'Angelico, del Correggio, del Rembrandt, del Murillo: se innanzi ai marmi del Donatello, del Buonarroti, del Canova, del Bartolini, del Duprè, del Vela, un freddo senso di nausea v'assale, frugatevi nella fronte e nel petto; qualcosa vi manca!


*


Anime schive e solitarie, che nelle sacre memorie del passato cercate l'oblio alla corrusione bieca, avida d'oro e coverta di nebbie; gente del popolo, cui ancora non è smarrito, nelle lotte affannose della vita, il sentimento della virtù, udrete nei profondi silenzi fresche voci di fanciulle, accompagnate dalle arpe e dai flauti, nei canti della Straniera e della Sonnambula recarvi la dolcezza nascosta dell'Infinito, se mai è vero che la Musica sia il celeste favellìo delle Anime, prima che venissero sulla terra. Cuori pieni di austerità antica, alla solennità jeratica, con che ha principio la Tragedia della Norma, all’Inno feroce di guerra, alle parole rotte dall’ira e dalla tenerezza, ove la fiera sacerdotessa alza il pugnale sopra i fanciulli dormienti, alle tragiche lagrimose note mormoranti il supplizio estremo, vedrete vivi e severi Eschilo, Sofocle, Euripide, Shakespeare.


Armonie rivelatrici delle passioni del cuore umano, voi chiudete in tutta la loro efficacia la verace ragione dell’Arte, il vanto imperituro della Patria. La voce di questo secolo che sorge tramanderà ai tempi lontani il tuo nome, o Bellini, poi che il Genio, emanazione di Dio, sta saldo nelle vicende dei secoli.





Specchio delle Opere Teatrali di Vincenzo Bellini

Data Città Teatro Titolo Poeta Esecutori
1825 Carnevale Napoli R. Conservatorio in S. Sebastiano Adelson e Salvini A. L. Tottola Alunni: Manzi, Marras, Perugini, Botellini, Ruggiero, Talamo, Ciotola.
1826 30 Maggio » S. Carlo 8Bianca e Gernando D. Gilardoni E. Meric-Lalande, Eloisa Manzocchi, Rubini, Lablach, Berrettani, Benedetti, Chizzula.
1827 27 Ottobre Milano Scala Il Pirata F. Romani Rubini, Tamburini, Meric-Lalande, Lombardi, Anziloni, Sacchi.
1829 14 febbraio » » La Straniera » Meric-Lalande, Ungher, Reina, Tamburini, Asti.
1829 14 Maggio Parma Ducale Zaira » Meric-Lalande, Cecconi, Trezzini, Inchindi, Lablache.
1830 11 Marzo Venezia La Fenice I Capuleti e i Montecchi » carradori, Grisi, Bonfigli, Antoldi, Ranieri.
1831 6 Marzo Milano Carcano La Sonnambula » Pasta, Taccani, Baillon-Hilaret, Rubini, Mariani.
1831 26 Dicembre » Scala Norma » Pasta, Grisi, Sacchi, Donzelli, Negrini.
1833 16 Marzo Venezia La Fenice Beatrice di Tenda » Pasta, Dal Serro, Corioni, Cartagenova.
1835 25 Gennaio Parigi Italiano I Puritani e i Cavalieri C. Pepoli Grisi, Amigo, Rubini, Magliano, Tamburini, Lablache, Proteri.

  1. Questa lettera inedita si conserva dalla famiglia Reina.
  2. Il Bellini, nella lettera a Florimo, scrive in data del 26 dicembre 1831, cioè la sera stessa della 1ª rappresentazione della Norma: «Io parto col Corriere e spero arrivare prima della presente, ecc.». È certo di avere rimandata la sua partenza, poichè la seguente lettera inedita, da noi conservata, scritta la dimane della 2ª rappresentazione dell’Opera, lo dimostra chiaramente.

    Milano 28 dicembre 1831

    Mio caro zio,

    A dispetto d’un partito formidabile, a me contrario, perchè suscitato da una persona potente, e da una ricchissima, la mia Norma ha sbalordito, e più jeri sera, che fa la seconda rappresentazione, che la prima. Il Giornale ufficiale di Milano jeri aveva dato la nuova di un fiasco deciso, perchè nella prima sera il partito contrario, mentre il giusto applaudiva, zittiva; e perchè la persona potente è padrona, e può ordinare che il Giornale scriva come ad essa piace. La persona potente fa questo perchè è nemica acerrima della Pasta, e la ricca perchè è l’amante di Pacini, e quindi mia nemica: frattanto jer sera l’opera fu ancor più gustata, ed il teatro fu pieno zeppo, segno vero dell’esito dell’Opera, e fu l’Opera sola che chiamò tanto mondo al teatro, perchè i due balli fecero un fiasco orrendo. Nella prima sera fece un’eruzione l’Introduzione, la sortita di Pollione, quella della Pasta. Non piacque il duetto fra Pollione ed Adalgisa, e mai piacerà, perchè non piace neanche a me; piacque assai il duetto che apre il terzetto finale, e questo terzetto come non fu eseguito perchè i cantanti erano stanchi, poichè avevano alla mattina provato tutto il secondo atto, così non fu gustato; perciò finì il primo atto senza che nessuno fosse applaudito e chiamato fuori; il secondo atto, toltone un coro che piacque, ma poco, il resto fu di un effetto sì straordinario, che tutto il partito fu atterrato in modo da non potere in niun modo più rialzarsi, ed ia fui obbligato di mostrarmi sul palco per ben 4 volte, e solo e coi cantanti. Jer sera, che i cantanti dissero il terzetto più bene, fui chiamato fuori anche nel primo, ed il secondo atto fece più effetto della prima sera, talmente che il mio trionfo fu deciso in modo che fino si spera che l’Opera che chiuderà il carnevale sarà la perseguitata Norma. La Pasta è un angelo, vi basti questa espressione per immaginare il come eseguisce la sua parte e per canto e per scena. Donselli fa assai bene e canta bene, ma sa ancora poco la sua parte; la Giulietta Grisi, nella parte d’Adalgina, sebbene di natura un po’ fredda, pure fa benino; i cori egregiamente bene. Il pubblico manda delle imprecazioni al Giornalista: i miei amici tripudiano: io soddisfattissimo, doppiamente contento perchè ho (qui illegibile) tanti miei vili e potenti nemici. Nella settimana entrante forse lascerò Milano e mi porterò a Napoli, da dove, subito che la stagione si mitigherà, verrò ad abbracciare tutta la mia famiglia, parenti ed amici. Da lì vi rimetterò dei pezzi di Norma subito che saranno stampati in Milano. La mia salute va bene, quantunque assai sfinito di forze. Seguiterò a scrivervi l’esito che avrà l’Opera in quest’altre sere. Date tutte queste notizie alla mia famiglia, parenti ed amici; ma non fate leggere la lettera ad alcuno, poichè è poco delicato sentire gli elogi miei da me stesso. Ricevete i miei abbracci e vogliatemi bene.

    Aff.mo — Vincenzo.

  3. Carlo Cattaneo — Op. edite ed inedite — Vol. II.
  4. V. GUARDIONE. Il Dominio de' Borboni in Sicilia. Vol.II.
  5. V. P. I. BARTHEZTheorie du Beau dans la Nat. et dans les Arts— Paris 1807.
  6. Stimo pregio di questo lavoro trascrivere il se-
  7. V. CARLO CATTANEO— Op. edite e inedite Vol. II.
  8. La stessa opera fu riformata da Felice Romani e da Bellini pel teatro Carlo Felice di Genova ed ivi rappresentata nel 1828 da Adelaide Tosi, David e Tamburini.
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