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lo scoprì, lo confiscò, e fattisi dar gli altri Tomi, tutti li consegnò al Sottopriore, e noi poetini restammo orbati d’ogni poetica guida, e scornati.
CAPITOLO TERZO.
A quali de’ miei Parenti in Torino venisse affidata la mia adolescenza.
Nello spazio di questi due primi anni d’Accademia, io imparai dunque pochissimo, e di gran lunga peggiorai la salute del corpo, stante la totale differenza e quantità dei cibi, ed il molto strapazzo, e il non abbastanza dormire; cose in tutto contrarie al primo metodo tenuto sino ai nove anni nella casa materna. Io non cresceva punto di statura, e pareva un candelotto di cera sottilissimo e pallidissimo. Molti malanni successivamente mi andarono travagliando.
L’uno, tra gli altri, cominciò con lo scoppiarmi in più di venti luoghi la testa, uscendone un umore viscoso e fetente, preceduto da i tale dolor di capo, che le tempie mi si anrirono,e la pelle come incarbonita sfoglian si più volte in diversi tempi mi si cambiò 1759 tutta in su la fronte e le tempie. Il mio Ziopa terno il Cavalier Pellegrino Alfieri, era stato fatto Governatore della città di Cuneo, dove risiedeva almeno otto mesi dell’anno: onde non mi rimaneva in Torino altri parenti che quei della madre, la casa Tornone, ed un cugino di mio padre, mio semi-zio, chiamato il Conte Benedetto Alfieri. Era questi il Primo Architetto del Re; ed alloggiava contiguamente a quello stesso regio Teatro da lui con tanta eleganza e maestria ideato, e fatto eseguire. Io andava qualche volta a pranzo da lui, ed alcune altre volte a visitarlo; il che stava totalmente nell’arbitrio di quel mio Andrea,che dispoticamente mi governava, allegando sempre degli ordini e delle lettere dello Zio di Cuneo.
Era quel Conte Benedetto un veramente degn’uomo, ed ottimo di visceri. Egli mi amava ed accarezzava moltissimo; era appassionatissimo dell’arte sua;semplicissimo di carattere, e digiuno quasi d’ogni altra cosa, che non spettasse le belle arti. Tra molte altre cose, io argomento quella sua passione smisurata per l’Architettura, dal parlarmi spessissimo, e con entusiasmo, a me ragazzaccio ignorante d’ogn’arte ch’io m’era, del divino Michelangelo Buonarroti, ch’egli non nominava mai senza o
abbassare il capo, o alzarsi la berretta, con un 1759 rispetto ed una compunzione che non mi usciranno mai della mente. Egli avea fatta gran parte della vita in Roma; era pieno del bello antico; ma pure poi alle volte nel suo Architettaure prevaricò dal buon gusto per adattarsi ai moderni. E di ciò fa fede quella sua bizzarra Chiesa di Carignano, fatta a foggia di ventaglio. Ma tali picciole macchie ha egli ben ampiamente cancellate col Teatro sopracitato, la Volta dottissima ed audacissima della Cavallerizza del Re, il Salone di Stupinigi, e la soda e dignitosa facciata del Tempio di S. Pietro in Ginevra. Mancava forse soltanto alla di lui facoltà arcliitettonica uaa più larga borsa di quel che si fosse quella del Re di Sardegna: e ciò testimoniano i molti e grandiosi disegni ch’egli lasciò morendo, e che furono dal Re ritirati, in cui v’erano dei progetti variatissimi per diversi abbellimenti da farsi in Torino, e tra gli altri per rifabbricare quel muro sconcissimo, che divide la Piazza del Castello dalla Piazza del Palazzo Reale; muro che si chiama, non so perchè, il Padiglione.
Mi compiaccio ora moltissimo nel parlar quel mio Zio, che sapea pure far qualche a; ed ora soltanto ne conosco tutto il
Alfieri, Vita. Voil. I.
1759 pregio. Ma quando io era in Accademia, egli, benché amorevolissimo per me, mi riusciva pure nojosetto anzi che no; e, vedi stortura di giudizio, e forza di false massime,la cosa che di esso mi seccava il più era il suo benedetto parlar Toscano, ch’egli dal suo soggiorno di Roma’in poi mai,più non avea voluto smettere; ancorché il parlare Italiano sia un vero contrabbando in Torino, città anfibia. Ma tanta é però la forza del bello e del vero, che la gente stessa che al principio quando il mio Zio ripatriò, si burlava del di lui Toscaneggiare, dopo alcun tempo avvistisi poi ch’egli veramente parlava una lingua, ed essi smozzicavano un barbaro gergo,tutti poi a prova favellando con lui andavano anch’essi balbettando il loro Toscano; e massimamente quei tanti Signori, che volevano rabberciare un poco le loro case e farle assomigliar dei palazzi: opere futili in cui gratuitamente per amicizia quell’ottimo uomo buttava la metà del suo tempo compiacendo ad altrui, e spiacendo,come gli sentii dire tante volterà se stesso ed all’arte. Onde molte e molte case dei primi di Torino da lui abbellite o accresciute, con atrj, e scale, e pc “ toni, e comodi interni, resteranno un nior mento della facile sua benignità nel servire j amici, o quelli che se gli dicevano tali.