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Questo mio Zio aveva anche fatto il viaggio 1759 di Napoli insieme con mio padre suo cugino, circa un par.d’anni prima che questi si accasasse cotn mia madre; e da lui seppi poi varie cose concernenti mio padre. Tra l’altre, che essendo essi andati al Vesuvio, mio padre a viva forza si era voluto far calar dentro sino alla crosta del cratere interno, assai ben profonda; il che praticavasi allora per mezzo di certe funi maneggiate da gente che stava sulla sommità della voragine esterna. Circa vent’anni dopo, ch’io ci fui per la prima volta, trovai ogni cosa mutata, ed impossibile quella’calata. Ma è tempo, ch’io ritorni a bomba.
CAPITOLO QUARTO.
Continuazione di quei Non-studj.
Non c’essendo quasi dunque nessuno de’miei 1760 che badasse altrimenti a me, io andava perdendo i miei più begli anni hon imparando quasi che nulla, e deteriorando di giorno in giorno salute; a tal segno, ch’essendo sempre inferccio, e piagato or quà or là in varie parti corpo, io era fatto lo scherno continuo dei
1760 compagni, che mi denominavano col gentilissimo titolo di Carogna; ed i più spiritosi ed umani ci aggiungevano anco l’epiteto di Fradicia. Quello stato di salute mi cagionava delle fierissime malinconie, e quindi si radicava in me sempre più l’amore della solitudine. Nell’anno 1760 passai con tutto ciò in Rettorica,-perchè quei mali tanto mi lasciavano di quando in quando studicchiare, e poco ci volea per far quelle classi. Ma il maestro di Rettorica trovandosi essere assai meno abile di quello d’Ur manità,-benché ci spiegasse l’Eneide, e ci facesse far dei versi Latini, mi parve, quanto a me, che sotto di lui io andassi piuttosto indie tro che innanzi nell’intelligenza della lingua Latina. Ma pure, poiché io non era l’ultimo tra quegli altri scolari, da ciò argomento che dovesse esser lo stesso di loro. In quell’anno di pretesa Rettorica, mi venne fatto di ricuperare il mio Ariostino, rubandolo a un Tomo per volta al Sottopriore, che se l’era innestato fra gli altri suoi libri in un suo scaffale esposto alla vista. E mi prestò opportunità di ciò fare,. il tempo in cui andavamo in camera sua alcuni privilegiati,per vedere dalle di lui finestre giù ’ care al pallon grosso, perchè dalla camera s situata di faccia al Battitore, si godeva as
meglio il giuoco che non dalle gallerie nostre 1760
che stavangli di fianco. Io aveva l’avvertenza di ben restringere i tomi vicini, tosto che ne avea levato uno; e così mi riuscì In quattro giorni consecutivi di riavere i miei quattro tometti, dei quali feci gran festa in me stesso, ma non lo dissi a chi che si fosse. Ma trovo pure, riandando quei tempi fra me, che da quella ricuperazione in poi,non lo lessi quasi più niente; e le due ragioni, ( oltre forse quella della poca salute che era la principale) per cui mi pare che lo trascurassi, erano la difficoltà deirintenderlo piuttosto accresciuta che scemata, (vedi rettorlco!) e l’altra era quella continua spezzatura delle Storie Ariostesche, che nel meglio del fatto ti pianta li con un palmo di naso; cosa che me ne dispiace anco adesso, perchè contraria al vero, e distruggitrice dell’effetto prodotto innanzi. E siccome io non sapeva dove andarmi a raccapezzare il seguito del fatto, finiva col lasciarlo stare. Del Tasso, che al carattere mio si sarebbe adattato assai meglio, io non ne sapeva neppure il nome. Mi capitò allora, e non mi sovviene neppur come, ” ’neide dell’Annibai Caro; e la lessi con avi e furore più d’una volta, appassionandomi )Ita per Turno, e Camilla. E ne né andava
1760 poi anche prevalendo di furto, per la mia traduziooe scolastica del Tema datomi dal maestro; il che sempre più mi teneva indietro nel mio Latino. Di nessun altro poi de,’Poeti nostri aveva io cognizione; se non se di alcune Opere del Metastasio,come il Catone, l’Artaserse, l’Olimpiade, ed altre che ci capitavano alle mani come libretti dell’Opera di questo,0 di quel Carnovale. E queste mi dilettavano sommamente; fuorché al venir dell’arietta interrompitrice dello sviluppo degli affetti, appunto quando mi ci cominciava a internare, io provava un dispiacere vivissimo; e più noja ancora ne riceveva, che dagli interrompimenti dell’Ariosto. Mi capitarono anche allora varie, Commedie del Goldoni, e queste me le presta, va il maestro stesso; e mi divertivano molto.. Ma il genio per le cose drammatiche, di cui forse il germe era in me, si venne tosto a ricoprire o ad estinguersi in me, per mancanza di pascolo, d’incoraggiraento, e d’ogni altra cosa. E, somma fatta, la ignoranza mia e di chi mi educava, e la trascuraggine di tutti in ogni cosa non potea andar più oltre.
In quegli spessi e lunghi intervalli in cui per via di salute io non poteva andare alla scuola con gli altrui un mio compagno, maggiore di
età, e di forze, e di asinità ancor più, si faceva 1760 fare di quando in quando il suo componimento da me, che era o traduzione, o amplificazione, 0 versi &c., ed egli mi ci costringeva con questo bellissimo argomento: Se tu mi vuoi fare il componimento, io ti do due palle da giuocare; e me le mostrava, belline, di quattro colori, di un bel panno, ben cucite, ed ottimamente rimbalzanti; se tu non me lo vuoi fare, ti do due scappellotti, ed alzava in ciò dire la prepotente sua mano, lasciandomela pendente sul capo. Io pigliava le due palle, e gli faceva il componimento. Da principio glielo facea fedelmente quanto meglio sapessi; e 11 maestro si stupiva un poco dei progressi inaspettati di costui, che crasi fin allora mostralo una talpa. Ma io teneva religiosamente il segreto; più ancora perchè la Natura mia era di esser poco communicativo, che non per la paura che avessi di quel Ciclope. Con tutto ciò, dopo avergli fatte molte composizioni, e sazio di tante palle, e nojato di quella fatica, e anche indispettito un tal poco che colui si abbellisse del mio, andai a poco a poco deteriorando in tal guisa il componimento, che finii col frapporvi di quei tali solecismi* come il potebam, a simili, che ti fanno far le fischiate
1760 dai colleghi, e dar le sferzate dai maestri. Costui dunque, vistosi così sbeffato in pubblico, è rivestito per forza della sua naturai pelle d’asino, non osò pure apertamente far gran vendetta di me: non mi fece più lavorare per lui, e rimase frenato e fremente dalla vergogna che gli avrei potuta fare scoprendolo. Il che non feci pur mai: ma io rideva veramente di cuore nel sentire raccontare dagli altri come era accaduto il fatto del potebam nella scuola: nessuno però dubitava ch’io ci avessi avuto parte. Ed io verisimilmente era anche contenuto nei limiti della discrezione, da quella vista della mano alzatami sul capo, che mi rimaneva tuttora su gli occhi, e che doveva essere il naturale ricatto di tante palle mal impiegate pec farsi vituperare. Onde io imparai sin da allora, che la vicendevole paura era quella che governava il Mondo.
1761 Fra queste puerili insipide vicende, io spesso infermo, e sempre mal sano, avendo anche consumato quell’anno di Rettorica, chiamato poi al solito esame fui giudicato capace di entrare in Filosofia. Gli studj di codesta Filosofia si facevano fuori dell’Accademia, nella vicina Università, dove si andava due volte il giorno; la mattina era la scuola di Geometria;
il giorno, quella di Filosofia,o sia Logica. Ed 1761 eccomi dunque in età di anni tredici scarsi diventato Filosofo; del qual nome io mi gonfiava tanto più, che mi collocava già quasi nella Classe detta dei Grandi; oltre poi il piacevolissimo balocco dell’uscire di casa due volte il giorno; il che poi ci somministrava spesso l’occasione di fare delle scorsarelle per le strade della città così alla sfuggita, fìngendo di uscire di scuola per qualche bisogno.
Benché dunque io mi trovassi il più piccolo di tutti quei Grdi fra’ quali era sceso nella Galleria del secondo Appartamento, quella mia inferiorità di statura di età e di forze mi prestava per l’appunto più animo ed impegno di volermi distinguere. Ed in fatti da prima studiai quanto bisognava per figurare alle ripetizioni che si facevano poi in casa la sera dai nostri Ripetitori accademici. Io rispondeva ai quesiti quanto altri, e anche meglio talvolta: il che dovea essere in me un semplice frutto di memoria, e non d’altro; perchè a dir vero io certamente non intendeva nulla di quella Filosofia pedantesca, insipida per se stessa, ed avviluppata poi nel Latino, col quale mi bisognava tuttavia contrastare, e vincerlo alla meglio a forza di Vocabolario. Di quella Geometria,
1761 di cui io feci il Corso intero, cioè spiegati i primi sei libri di Euclide, io non ho neppur mai intesa la Quarta Proposizione; come neppure la intendo adesso; avendo io sempre avuta la testa assolutamente anti-geometrica. Quella scuola poi di Filosofia Peripatetica che si faceva il dopo pranzo, era una cosa da dormirvi in piedi. Ed in fatti,nella prima mezz’ora si scriveva il Corso a dettatura del Professore; e nei tre quarti d’ora rimanenti, dove si procedeva poi alla spiegazione fiatta in Latino, Dio sa quale, dal Catedxatico, noi tutti scolari, inviluppati interamente nei respettivi raantelloni, saporitissimamente dormivamo; nè al-, tro suono si sentiva tra quei Flosofi, se non se la voce del Professore languente, che dormicchiava egli pure, ed i diversi tuoni dei russatoti, chi alto, chi basso, e chi medio; il che faceva un bellissimo concerto. Oltre il potere irresistibile di quella papaverica Filosofia, contribuiva anche molto a farci dormire, principalmente noi Accademisti, che avevamo due o tre panche distinte alla destra del Professore, r aver sempre i sonni interrotti la mattina dal doverci alzar troppo presto. E ciò, quanto a me, era la principal cagione di tutti i miei incomodi, perchè lo stomaco non aveva tempo