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di smaltir la cena dormendo. Del che poi avvistisi 1761 a mio riguardo i Superiori,mi concederono finalmente in quest’anno di Filosofia di poter dormire fino alle sette,in vece delle cinque e tre quarti, che era fora fissata del doversi alzare, anzi essere alzati, per scendere io Camerata a dire le prime Orazioni, e tosto poi mettersi allo studio fino alle sette e mezzo.
CAPITOLO QUINTO.
Varie insulse vicende, su lo stesso andamento del precedente.
Nell’inverno di quell’anno, 1762 il mio Zio, il Governatore di Cuneo, tornò per alcuni mesi in Torino;e vistomi così dsicuzzo, mi ottenne anche alcuni piccoli privilegj quanto al mangiare un po’ meglio, cioè piii sanamente. Il che aggiunto ad alquanta più dissipazione che mi procacciava quel! uscire ogni giorno di casa per andare all’Università, e nei giorni di vacanza qualche pranzuccio dallo Zio, e quel sonnetto periodico dei tre quarti d’ora nella scuola; tutto questo contribuì a rimpannucciarmi un pochino, e cominciai allora a svilupparmi ed a crescere. Il mio Zio pensò anche,
1762 come nostro Tutore, di far venire in Torino la mia sorella carnale, Giulia, che era la sola di padre; e di porla nel Monastero di S. Croce, cavandola da quello di S. Anastasio in Asti, dove era stata per più di sei anni sotto gli auspici di una nostra Zia, vedova del Marchese Trotti, che vi si era ritirata. La Giulietta cresceva in codesto Monastero in-Asti, ancor più ineducata di me; stante l’imperio assoluto, ch’ella si era usurpato su la buona Zia, che non se ne potea giovare in nessuna maniera, amandola molto, e guastandola moltissimo. La ragazza si avvicinava ai quindici anni, essendomi maggiore di due e più anni. E quell’età, nelle/nostre contrade per lo più non è muta, ed altamente anzi già parla d’amore al facile e tenero cuore delle donzelle. Un qualche suo amoruccio, quale può aver luogo in un Monastero, ancorché fosse pure verso persona cht convenientemente l’avrebbe potuta sposare, dispiacque allo Zio, e Io determinò a farla venir* in Torino; affidandola alla Zia materna, Monaca in S. Croce. La vista di questa sorella, già da me tanto amata, come accennai, e che ora tanto era cresciuta in bellezza, mi rallegrò anche molto; e confortandomi il cuore e lo spirito, mi restituì anche molto in salute. E
la compagnia, 0 per dir meglio il rivedere di 1762 tempo in tempo la sorella, mi riusciva tanto più grato, quanto mi pareva che io la sollevassi alcun poco dalla sua afflizione d’amore; essendo stata così divisa dal suo innamorato, che pure si ostinava in dire di volerlo assolutamente in isposo. lo andava dunque ottenendo dal mio custode Andrea, di visitare la mia sorella quasi tutte le Domeniche e Giovedì, che erano i nostri due giorni di riposo. E assai spesso io passava tutta la mia visita di un’ora e più, a pianger con essa alla grata;e quel piangere, parca che mi giovasse moltissimo; sicché io tornava sempre a casa più sollevato,benché non lieto. Ed io, da quel Filosofo ch’io m’era, le dava anche coraggio, e l’incitava a persistere in quella sua scelta; e che finalmente,esta poi la spunterebbe con lo Zio,che era quello che assolutamente vi si opponeva il più. Ma il tempo, che tanto opera anco su i più saldi petti, non tardò poi moltissimo a svolgere quello di una giovanotta; e la lontananza, gl’impedimenti, le divagazioni, e oltre ogni cosa quella nuova educazione di gran lunga migliore della prima sotto la Zia paterna, la guarirono e la consolarono dopo alcuni mesi.
Nelle vacanze di quell’anno di Filosofia,
1762 mi toccò di andare per la prima volta al Teatro di Carignano, dove si davano le Opere Buffe. E questo fu un segnalato favore che mi volle fare lo Zio Architetto, che mi dovè aliergare quella notte in casa sua; stante che codesto Teatro non si poteva assolutamente combinare con le regole della nostra Accademia, per cui ogni individuo dev’essere restituito ia casa al più tardi a mezz’ora di notte; e nessun altro Teatro ci era permesso fuorché quello del Re, dove andavamo in corpo una volta per settimana nel solo Carnevale. Quell’Opera Buffa ch’io ebbi dunque insorte di sentire,raediante il sutterfugio del pietoso Zio, che fece dire ai Superiori che mi porterebbe per un giorno e una notte in una sua villa, era intitolata il Mercato di Malmantile, cantata dai migliori Buffi d’Italia, il Carratoli, il Baglioni, e le di lui figlie; composta da uno dei più celebri maestri. Il brio, e la varietà di quella divina musica mi fece una profondissima impressione, lasciandomi per così dire un solco di armonia negli orecchi e nella imaginativa, ed agitandomi ogni più interna fibra, a tal segno che per più settimane io rimasi immerso in una malinconia straordinaria ma non dispiacevole; dalla quale mi ridondava una totale
svogliatezza e nausea per quei miei soliti studj, ma nel 1762 tempo stesso un singolarissimo bollore d’idee fantastiche, dietro alle quali avrei potuto far dei versi se avessi saputo farli, ed esprimere dei vivissimi affetti, se non fossi stato ignoto a me stesso cd a chi dicea di educarmi. E fu questa la prima volta che un tale effetto cagionato in me dalla musica, mi si fece osservare, e mi restò lungamente impresso nella memoria, perch’egli fu assai maggiore d’ogni altro sentito prima. Ma andandomi poi ricordando dei miei Carnovali, e di quelle poch«recite dell’Opera seria ch’io aveva sentite, e paragonandone gli effetti a quelli che ancora provo tuttavia, quando divezzatomi dal Teatro ci ritorno dopo un certo interyallo, ritrovo sempre non vi essere il più potente e indomabile agitatore dell’animo, cuore, ed intelletto mio, di quel che lo siano i suoni tutti, e specialmente le voci di contralto e di Donna. Nessuna cosa mi desta più affetti, e più varj, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie sono state ideate da me 0 nell’atto del sentir musica, o poche ore dopo.
Essendo scorso così il mio primo anno di studj nell’Università, nel quale si disse dai ripetitori (ed io non saprei nè come nè perchè)
1762 aver Io studiato assai bene, ottenni dallo Zio di Cuneo la licenza di venirlo trovare in codesta Città per quindici giorni nel mese d’Agosto. Questo viaggetto, da Torino a Cuneo per quella fertilissima ridente pianura del bel Piemonte, essendo il secondo ch’io faceva da che era al mondo, mi dilettò, e giovò moltissimo alla salute, perchè l’aria aperta ed il moto mi spno sempre stati elementi di vita. Ma il piacere di questo viaggio mi venne pure amareggiato non poco dall’esser costretto di farlo coi vetturini a passo a passo; io, che quattro, o cinque anni prima, alla mia prima uscita di casa, aveva così rapidamente percorso quelle cinqu# poste che stanno tra Asti e Torino. Onde, mi,pareva di essere tornato indietro invecchiando, e mi teneva molto avvilito di quella ignobile e gelida tardezza del passo d’asino di cui si andava; onde all’entrare in Carignano, Racconigi, Savigliano, ed in ogni anche minimo borguzzo, io mi rintuzzava ben dentro nel più intimo del calessaccio, e chiudeva anche gli occhi per non vedere nè esser visto; quasi che tutti mi dovessero conoscere per quello che avea altre volte corsa la posta con tanto brio, e sbeffarmi ora come condannato a si umiliante lentezza. Erano eglino in me questi moti il
prodotto d’un animo caldo e sublime,oppure leggiero 1762 e vanaglorioso? Non lo so; altri potrà giudicarlo dagli anni miei susseguenti. Ma, so bene, che se io avessi avuto al fianco una qualche persona che avesse conosciuto il cuor dell’uomo in esteso, egli avrebbe forse potuto cavare fin da allora qualche cosa da me, con la potentissima molla dell’amore di lode e di gloria.
In quel mio breve soggiorno in Cuneo, io feci il primo Sonetto, che non dirò mio, perché egli era un rifrittume di versi o presi interi, o guastati, e riannestati insieme, dal Metastasio, e rAriosto, che erano stati i due soli Poeti Italiani di cui avessi un po’ letto. Ma credo, che non vi fossero nè le rime debite, nè forse i piedi; stante che, benché avessi fatti dei versi Latini esametri, e pentametri,niuno però mi avea insegnato mai ni una regola del Verso Italiano. Per quanto io ci abbia fantasticato poi per ritornarmene in mente almeno uno o due versi, non mi è mai più stato possibile. Solamente so, ch’egli era in lode d’una Signora che quel mio Zio corteggiava, e che piaceva anche a me. Codesto Sonetto,non poteva certamente esser altro che pessimo. Con tutto ciò mi venne lodato assai, e da quella Signora, che
Alfieri, Vita. Vol. I.
1762 non intendeva nulla, e da altri simili: onde io già già qasi mi credei un Poeta. Ma lo Zio, che era uomo militare, e severo, e che bastantemente notiziato delle cose storiche e politiche nulla intendeva nè curava di nessuna poesia, non incoraggi punto questa mia Musa nascente; e disapprovando anzi il Sonetto e burlandosene mi disseccò tosto quella mia poca vena fin da radice; e non mi venne più voglia di poetare mai, sino all’età di a 25 anni passati. Quanti o buoni o cattivi miei versi soffocò quel mio Zio,insieme con quel mio Sonettaccio primogenito!
1763 A quella bestiale Filosofia, succedè l’anno dopo lo studio della Fisica, e dell’Etica; distribuite parimente come le due altre scuole anteriori; la Fisica la mattina, eia lezione di Etica per far la siesta. La Fisica un cotal poco allettavaml; ma il continuo contrasto con la Lingua Latina, e lamia totale ignoranza della studiata Geometria, erano impedimenti invincibili ai miei progressi. Onde con mia perpetua vergogna confesserò per amor del vero, che avendo io studiato un anno intero la Fisica sotto il celebre Padre Beccarla, neppure una definizione m’e n’è rimasta in capo; e niente affatto so nè intendo del suo dottissimo corso su
l’Eettrìcità, ricco di tante nobilissime di lui 1763
scoperte. Ed al solito accadde qui come mi era accaduto in Geometria, che per effetto di semplice memoria, io mi portava benissimo alle ripetizioni, e riscuoteva dai ripetitori più lode che biasimo. Ed In fatti, in quell’inverno del 1763 lo Zio si propose di farmi un regalucclo; il che non ra’era accaduto mai; e ciò, in premio di quel che gli veniva detto, che io studiava cosi bene. Questo regalo mi fu annunziato tre mesi prima con enfasi profetica dal Servitore Andrea; dicendomi che egli sapeva di buon luogo che lo riceverei poi continuando a portarmi bene; ma non mi venne mai individuato cosa sarebbe.
Questa speranza indeterminata, ed ingrana ditami dalla fantasia, mi riaccese nello studio, e rinforzai molto la mia pappagallesca dottrina. Un giorno finalmente mi fu poi mostrato dal Camerier dello Zio, quel famoso regalo futuro: ed era una spada d’argento non mal lavorata. Me ne invogliai molto dopo averla veduta; e sempre la stava aspettando, parendomi di ben meritarla; ma il dono non venne mai. Per quanto poi intesi, 0 combinai, in appresso, volevano che io la domandassi allo Zio: ma quel mio carattere stesso; che tanti anni prima nella