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Cap. XII. Ripreso il viaggio, in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, e ritorno in Patria
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CAPITOLO DUODECIMO.

Ripreso il Viaggio in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, e ritorno in Patria.


1771 Dopo aver sopportata una sì feroce borrasca, non potendo io più trovar pace finchè mi cadeano giornalmente sotto gli occhi quei luoghi stessi ed oggetti, mi lasciai facilmente persuadere da quei pochi che sentivano una qualche amichevole pietà del mio violentissimo stato, e mi indussi al partire. Lasciai dunque l'Inghilterra verso il finir di Giugno, e così infermo di animo come io mi sentiva, ricercando pur qualche appoggio, volli dirigere i miei primi passi verso l’amico d’Acunha in Olanda. Giunto nell’Haja, alcune settimane mi trattenni con lui, e non vedeva assolutamente altri che lui solo; ed egli alcun poco mi consolava; ma era profondissima la mia piaga. Sentendomi dunque di giorno in giorno anzi crescere la malinconia che scemare, e pensando che il moto macchinale, e la divagazione inseparabile dal mutar luogo continuamente ed oggetti, mi dovrebbero giovare non poco, mi rimisi in viaggio alla volta di 1771 Spagna; gita, che fin da prima mi era prefisso di fare, essendo quel paese quasi il solo dell’Europa che mi rimanesse da vedere. Avviatomi verso Bruxelles per luoghi che rinacerbivano sempre più le ferite del mio troppo lacerato cuore, massimamente allorché io metteva a confronto quella mia prima fiamma Olandese con questa seconda Inglese, sempre fantasticando, delirando, piangendo, e tacendo, arrivai finalmente soletto in Parigi. Nè quella immensa Città mi piacque più in questa seconda visita che nella prima; nè punto nè poco mi divagò. Ci stetti pure circa un mese per lasciare sfogare i gran caldi prima d’ingolfarmi nelle Spagne. In questo mio secondo soggiorno in Parigi avrei facilmente potuto vedere ed anche trattare il celebre Gian-Giacomo Rousseau, per mezzo d’un Italiano mio conoscente che avea contratto seco una certa familiarità, e dicea di andar egli molto a genio al sudetto Rousseau. Quest’Italiano mi ci volea assolutamente introdurre, entrandomi mallevadore che ci saremmo scambievolmente piaciuti l’un l’altro Rousseau ed io. Ancorchè io avessi infinita stima del Rousseau più assai per il suo carattere puro ed intero e 1771 per la di lui sublime e indipendente condotta, che non pe’ suoi libri, di cui que’ pochi che avea potuti pur leggere mi aveano piuttosto tediato come figli di affettazione e di stento; con tutto ciò, non essendo io per mia natura molto curioso, nè punto sofferente, e con tanto minori ragioni sentendomi in cuore tanto più orgoglio e inflessibilità di lui; non mi volli piegar mai a quella dubbia presentazione ad un uomo superbo e bisbetico, da cui se mai avessi ricevuta una mezza scortesia glie n’avrei restituite dieci, perchè sempre così ho operato per istinto ed impeto di natura, di rendere con usura sì il male che il bene. Onde non se ne fece altro.

Ma in vece del Rousseau, intavolai bensì allora una conoscenza per me assai più importante con sei o otto dei primi uomini dell’Italia, e del Mondo. Comprai in Parigi una raccolta dei principali Poeti e Prosatori Italiani in 36 volumi di picciol sesto, e di graziosa stampa, dei quali neppur uno me ne trovava aver meco dopo quei due anni del secondo mio viaggio. E questi illustri maestri mi accompagnarono poi sempre da allora in poi da per tutto; benchè in quei primi due o tre anni non ne facessi a dir vero grand’uso. Certo che allora comprai la raccolta più per averla che 1771 non per leggerla, non mi sentendo nessuna nè voglia nè possibilità di applicar la mente in nulla. E quanto alla lingua Italiana, sempre più m’era uscita dell’animo e dell’intendimento a tal segno, che ogni qualunque autore sopra il Metastasio mi dava molto imbroglio ad intenderlo. Tuttavia, così per ozio e per noja, squadernando alla sfuggita que’ miei 36 volumetti mi maravigliai del gran numero di rimatori che in compagnia dei nostri quattro sommi poeti erano stati collocati a far numero: gente, di cui (tanta era la mia ignoranza) io non avea mai neppure udito il nome: ed erano un Torracchione, un Morgante, un Ricciardetto, un Orlandino, un Malmantile, e che so io: poemi, dei quali molti anni dopo deplorai la triviale facilità, e la fastidiosa abbondanza. Ma carissima mi riuscì la mia nuova compra, poichè mi misi d’allora in poi in casa per sempre que’ sei luminari della lingua nostra, in cui tutto c’è: dico Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Boccaccio, e Machiavelli; e di cui (pur troppo per mia disgrazia e vergogna) io era giunto all’età di circa ventidue anni senza averne punto mai letto, toltone alcuni squarci dell’Ariosto nella mia prima 1771 adolescenza essendo in Accademia, come mi pare di aver detto a suo luogo.

Munito in tal guisa di questi possenti scudi contro l’ozio e la noja, (ma invano, poichè sempre ozioso e nojoso altrui e a me stesso rimanevami) partii per la Spagna verso il mezzo Agosto. E per Orleans, Tours, Poitiers, Bordeaux, e Toulouse, attraversata senza occhi la più bella e ridente parte della Francia, entrai in Ispagna per la via di Perpignano; e Barcellona fu la prima città dove mi volli alquanto trattenere da Parigi in poi. In tutto questo lungo tratto di viaggio non facendo per lo più altro che piangere tra me e me soletto in carrozza, ovvero a cavallo, di quando in quando andava pur ripigliando alcun tometto del mio Montaigne, il quale da più di un anno non avea più guardato in viso. Questa lettura spezzata mi andava restituendo un pocolino di senno e di coraggio, ed una qualche consolazione anche me la dava.

Alcuni giorni dopo essere arrivato a Barcellona, siccome i miei cavalli Inglesi erano rimasti in Inghilterra, venduti tutti, fuorchè il bellissimo lasciato in custodia al Marchese Caraccioli; e siccome io senza cavalli non son neppur mezzo, subito comprai due cavalli, di cui uno d’Andalusia della razza dei Certosini 1771 di Xerez, stupendo animale, castagno d’oro; l’altro un Hacha Cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo. Dacchè era nato sempre avea desiderato cavalli di Spagna, che difficilmente si possono estrarre: onde non mi parea vero di averne due sì belli; e questi mi sollevavano assai più che Montaigne. E su questi io disegnava di fare tutto il mio viaggio di Spagna, dovendo la carrozza andare a corte giornate a passo di mula, stante che posta per le carrozze non v’è stabilita, nè vi potrebbe essere attese le pessime strade di tutto quel regno affricanissimo. Qualche indisposizionuccia avendomi costretto di soggiornare in Barcellona sino ai primi di Novembre, in quel frattempo col mezzo di una Grammatica e Vocabolario Spagnuolo mi era messo da me a legicchiare quella bellissima lingua, che riesce facile a noi Italiani; ed in fatti tanto leggeva il Don Quixote, e bastantemente lo intendeva e gustava: ma in ciò molto mi riusciva di ajuto l’averlo già altre volte letto in Francese.

Postomi in via per Saragozza e Madrid, mi andava a poco a poco avvezzando a quel nuovissimo modo di viaggiare per quei
1771 deserti; dove chi non ha molta gioventù, salute, danari, e pazienza, non ci può resistere. Pure io mi vi feci in quei quindici giorni di viaggio sino a Madrid, in maniera che poi mi tediava assai meno l’andare., che il soggiornare in qualunque di quelle semi-barbare città: ma per me l’andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare, il massimo degli sforzi; così volendo la mia irrequieta indole. Quasi tutta la strada soleva farla a piedi col mio bell’Andaluso accanto, che mi accompagnava come un fedelissimo cane, e ce la discorrevamo fra noi due; ed era il mio gran gusto d’essere solo con lui in quei vasti deserti dell’Arragona; perciò sempre facea precedere la mia gente col legno e le mule, ed io seguitava di lontano. Elia frattanto sòvra un muletto andava con lo schioppo a dritta e sinistra della strada cacciando c tirando conigli, lepri, ed uccelli, che quelli sono gli abitatori della Spagna; e precedendomi poi di qualch’ora mi facea trovare di che sfamarmi alla posata del mezzogiorno, e così a quella della sera.

Disgrazia mia ( ma forse fortuna d’altri ) che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo nè possibilità oramai di stendete in versi i miei diversi pensieri, ed affetti: che in
quelie solitudini e moto continuato avrei versato 1771 un diluvio di rime: infinite essendo le riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e pazze che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere nè poter mai scrivere nessuna cosa nè in prosa nè in versi, io mi contentavadi ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano Poesia, e lo sono.

In questo modo me la passai in quel primo viaggio sino a Madrid; e tanto era il genio che era andato prendendo per quella vita di Zingaro, che subito in Madrid mi tediai, e non mi vi trattenni che a stento un mesetto; nè ci trattai nè conobbivi anima al mondo, eccetto un oriuolajo, giovine Spagnuolo che tornava allora di Olanda, dove era andato per l’arte iua. Questo giovinetto era pieno d’ingegno naturale, ed avendo un pocolino visto il mondo si mostrava meco addoloratissimo di tutte le tante e si diverse barbarie che ingombravano
1771 la di lui patria. E qui narrerò brevemente unà mia pazza bestialità che mi accadde di fare contro il mio Elia, trovandovisi in terzo codesto giovine Spagnuolo. Una sera che questo oriuolajo avea cenato meco, e che ancora si stava discorrendo a tavola dopo cenati, entrò Elia per ravviarmi al solito i capelli per poi andarcene tutti a letto; e nello stringere col compasso una ciocca di capelli me ne tirò un pochino più l’uno che l’altro. Io, senza dirgli parola, balzato in piedi più ratto che folgore di un man rovescio con uno dei candelieri ch’avea impugnato glie ne menai uncpsl fiero colpo su la tempia diritta, che il sangue zampillò ad un tratto come da una fonte sin sopra il viso e tutta, la persona di quel giovine che mi stava sedÙto in faccia dall’altra parte di quella assai ben larga tavola dove si era cenati. Quel giovane, che mi credè ( con ragione ) impazzito subitamente, non avendo osservato nè potendosi dubitare che un capello tirato avesse cagionato quel mio improvviso furore, saltò subito su egli pure come per tenermi. Ma già in quel frattempo l’animoso ed offeso e fieramente ferito Elia, mi era saltato addosso per picchiarmi; e ben fece. Ma io allora snellissifno gli scivolai di sotto, ed era già saltato su la
mia spada che stava in camera posata su un 1771 cassettone, ed avea avuto il tempo di sfoderarla. Ma Elia inferocito mi tornava incontro, ed io glie l’appuntava al petto; e lo Spagnuolo a rattenere ora Elia, ed or me; e tutta la locanda a roraore; e i camerieri saliti, e così separata la zuffa tragicomica e scandalosissima per parte mia. Rappaciati alquanto gli animi si entrò negli schiarimenti; io dissi che Tessermi sentito tirar i capelli mi avea messo fuor di me; Elia disse di non essersene avvisto neppure; e lo Spagnuolo appurò ch’io non era impazzito, ma che pure savissimo non era. Cosi fini quella orribile rissa, di cui io rimasi dolentissimo, e vergognosissimo, e dissi ad Elia ch’egli avrebbe fatto benissimo ad ammazzarmi.Ed era uomo da farlo; essendo egli di statura quasi un palmo più di me che sono altissimo; e di coraggio e forza niente inferiore all’aspetto. La piaga della terapia non fu profonda, ma sanguinò moltissimo, e poco più in su cheTavessi colto, io mi trovava aver ucciso un uomo che amavo moltissimo per via d’un capello più o meno tirato. Inorridii molto di un così bestiale eccesso di collera; e benché vedessi Elia alquanto placato, ma non rasserenato meco, non volli pure nè mostrare nè nutrire diffidenza
1771 alcuna di lui; e un par d’ore dopo, fasciata che fu la ferita, e rimessa in sesto ogni cosa me n’andai a letto lasciando la porticina che metteva in camera di Elia, aderente alla mia, aperta al solito e senza voler ascoltare lo Spagnuolo che mi avvertiva di non invitare così un uomo offeso e irritato di fresco ad una qualche vendetta. Ma io anzi dissi forte ad Elia che era già stato posto a letto, che egli poteva volendo uccidermi quella notte se ciò gli tornava comodo, poiché io lo meritava. Ma egli era Eroe per lo meno quanto me; nè altra vendetta mai volle prendere, che di conservare poi sempre due fazzoletti pieni zeppi di sangue, coi quali s’era rasciutta da prima la fumante piaga; e di poi mostrarmeli qualche volta, che li serbò per degli anni ben molti. Questo reciproco misto di ferocia e di generotàpet parte di entrambi noi, non si potrà facilmente capire da chi non ha esperienza dei costumi c del sangue di noi Piemontesi.

Io, nel rendere poi dopo ragione a me •tesso del mio orribile trasporto, fui chiaramente convinto, che aggiunta all’eccessivo irascibile della natura mia l’asprezza occasion£tta dalla continua solitudine ed ozio, quella tiratura di capello avea colmato il va»o, e fattolo in
quell attimo traboccare. Del resto io non ho 1771 mai battuto nessuno che. mi servisse se non se come avrei fatto un mio eguale; e non mai eoa bastone nè altr’arme, ma con pugni, 0seggiole, o qualunque altra cosa mi fosse caduta sotto la mano, come accade quando da giovine altri provocandoti, ti sforza a menar le mani. Ma nelle pochissime volte che-tal cosa mi avvenne, avrei sempre approvato e stimato quei servi che mi avessero risalutato con lo stesso picchiare r atteso che io non intendeva mai di battere il servo come padrone, ma di altercare da uomo ad uomo.

Vivendo così come orso terminai il mio breve soggiorno in Madrid, dove non vidi nessunissima delle, non molte cose che poteano eccitare qualche curiosità; nè il palazzo àell Escurial famosissimo, nè Aranjuez, nè il palazzo pure del Re in Madrid, non che vedervi il padrone di esso. E cagione principale di questa straordinaria salvatichezza fu, l’essere io mezzo guasto col nostro Ambasciator di Sardegna; ch’io avea conosciuto in Londra dal primo viaggio ch’io ci avea fatto nel 1768, dove egli era allora Ministro, e non c’erarao niente piaciuti l’un l’altro. Nell’arrivare io a Madrid, saputo ch’egli era con la Corte in
1771 una di quelle ville reali, colsi subito il tempo ch’egli non v’era, e lasciai il pollzzino divisita con una commendatizia della Segreteria di Stato che avea recato meco com’è d’uso. Tornato egli in Madrid fu da me,non mi trovò; nè io più mai cercai di lui, nè egli di me. E tutto questo non contribuiva forse poco a sempre più innasprire il mio già bastantemente insoave ed irto carattere. Lasciai dunque Madrid verso i primi del Dicembre, e per Toledo, e Badajoz, mi avviai a passo a passo verso Lisbona, dove dopo circa venti giorni di viaggio arrivai la vigilia del Natale.

Lo spettacolo di quella città la quale a chi vi approda, come io, da oltre il Tago, si presenta in aspetto teatrale e magnifico quasi. quanto quello di Genova,con maggiore estensione e varietà, mi rapi veramente, massime in una certa distanza. La maraviglia poi e il diletto andavano scemando all’approssimar della ripa, e intieramente poi mi si trasmutavano in oggetto di tristezza e squallore allo sbarcare fra certe strade,intere-isole di muriccie avanzi del terremoto, accatastate e spartite allineate a guisa di isole di abitati edifizj. E di cotali strade se ne vedevano ancora moltissime- nella pane bassa della città, benché fossero già
mai trascorsi quindici anni dopo quella funesta 1771 catastrofe.

Quel mio breve soggiorno in Lisbona di 1772 circa cinque settimane, sarà per me un’epoca sempre memorabile e cara, per avervi io imparato a conoscere l’Abate Tommaso di Caluso, fratello minore del Conte Valperga di Masino allora nostro Ministro in Portogallo. Quest’uomo, raro per l’indole i costumi e la dottrina, mi rendè delizioso codesto soggiorno, a segno che, oltre al vederlo per lo più. ogni mattina a pranzo dal fratello, anche le lunghe serate dell’inverno io preferiva pure di passarmele intere da solo a solo con lui, piuttosto che correre attorno pe’ divertimenti sciocchissimi del gran mondo. Con esso io imparava sempre qualche cosa; e tanta era la di lui bontà e tolleranza, che egli sapea per cosi dire alleggerirmi la vergogna ed il peso della mia ignoranza estrema, la quale tanto più fastidiosa e stomachevole gli dovea pur comparire, quanto maggiore ed immenso era in esso il sapere. Cosa, che non mi essendo fin allora accaduta con nessuno dei non molti letterati ch’io avessi dovuti trattare, me li avea fatti tutti prendere a noja. E ben dovea essere cosi, non essendo in me niente minore l’orgoglio, 1772 che l’ignoranza. Fu in una di quelle dolcissime serate, ch’io provai nel più intimo della mente e del cuore un impeto veramente Febeo, di rapimento entusiastico per l’arte della Poesia; il quale pure non fu che un brevissimo lampo, che immediatamente si tornò a spegnere, e dormì poi sotto cenere ancora degli anni ben molti. Il degnissimo e compiacentissimo Abate mi stava leggendo quella grandiosa Ode del Guidi alla Fortuna; Poeta, di cui sino a quel giorno io non avea neppur mai udito il nome. Alcune stanze di quella canzone, e specialmente la bellissima di Pompeo, mi trasportarono a un segno indicibile; talchè il buon Abate si persuase e mi disse che io era nato per far dei versi, e che avrei potuto, studiando, pervenire a farne degli ottimi. Ma io, passato quel momentaneo furore, trovandomi così irrugginite tutte le facoltà della ménte, non la credei oramai cosa possibile, e non ci pensai altrimenti.

Intanto l’amicizia e la soave compagnia di quell’uomo unico, che è un Montaigne vivo, mi giovò assaissimo a riassestarmi un poco l’animo; onde, ancorchè non mi sentissi del tutto guarito, mi riavvezzai pure a poco a poco a legicchiare e riflettere, assai più che
non avessi ciò fatto da circa diciotto mesi. 1772 Quanto poi alla città di Lisbona, dove non mi sarei trattenuto neppur dieci giorni, se non vi fosse stato l’Abate, nulla me ne piacque fuorché in generale le donne, nelle quali veramente abbonda il lubricus adspici di Orazio. Ma, essendomi ridivenuta mille volte più cara la salute dell’animo che quella del corpo, io mi studiai e riuscii di sfuggire sempre le oneste.

Verso i primi di Febbrajo partii alla volta di Siviglia e di Cadice; nè portai meco altra cosa di Lisbona, se non se una stima ed amicizia somma pel sudetto Abate di Caluso, ch’io sperava di riveder poi,quando che fosse, in Torino. Di Siviglia me ne andò a genio il bel clima, e la faccia originalissima Spagnuolissima che tuttavia conservavasi codesta città sovra ogni altra del regno. Ed io sempre ho preferito originale anche tristo ad ottima copia. La Nazione Spagnuola, e la Portoghese, sono in fatti quasi oramai le sole di Europa che conservino i loro costumi, specialmente nel basso e medio ceto. E benché il buono vi «ia quasi naufrago in un mare di storture di ogni genere che vi predominano,io credo tuttavia quel popolo una eccellente materia
1772 ma per potersi addirizzar facilmente ad operar cose grandi, massimamente in virtù militare; avendone essi in sovrano grado tutti gli elementi; coraggio, perseveranza, onore, sobrietà, obbedienza, pazienza, ed altezza d’animo.

In Cadice terminai il Carnevale bastantemente lieto. Ma mi avvidi alcuni giorni dopo esserne partito alla volta di Cordova, che riportato n’avea meco delle memorie Gaditane, che alcun tempo mi durerebbero. Quelle ferite poco gloriose mi amareggiarono assai quel lunghissimo viaggio da Cadice a Torino ch’io intrapresi di fare d’un sol fiato così ad oncia ad oncia per tutta la lunghezza della Spagna sino ai confini di Francia, di dove già v’era entrato. Ma pure a forza di robustezza ostinazione e sofferenza, cavalcando, sfangando a piedi, e strapazzandomi d’ogni maniera, arrivai, assai mal concio a dir vero, a Perpignano, di dove poi continuando per le poste ebbi a soffrir molto meno. In quel gran tratto di terra i due soli luoghi che mi diedero uua qualche soddisfazione, furono Cordova, e Valenza: massimamente poi tutto il regno di Valenza, che misurai per lo lungo sul finir di Marzo, ed era per tutto una primavera tepida e deliziosissima, di quelle veramente descritte
dai Poeti. Le adiacenze poi e i passeggi, e le 1772 limpide acque, e la posizione locale della città di Valenza, e il bellissimo azzurro del di lei cielo, e un non so che di elastico ed amoroso nell’atmosfera; e donne i di cui occhi protervi mi faceano bestemmiare le Gaditane; e un tutto in somma, si fatto mi si appresentò in quel favoloso paese, che nessun’altra terra mi ha lasciato un tale desiderio di se, nè mi si riaffaccia si spesso alla fantasia quanto codesta.

Giunto per la via di Tortosa una seconda volta in Barcellona, e tediatissirao del viaggiare a così lento passo, feci il gran distacco dal mio bellissimo cavallo Andaluso, che per essere molto affaticato da quest’ultimo viaggio di trenta e più giorni consecutivi da Cadice a Barcellona, non lo volea strapazzar maggiormente col farmelo trottar dietro il legno quando sarei partito per Perpignano a marcia duplicata. L’altro mio cavallo, il Cordovesino, essendomisi azzoppito fra Cordova e Valenza, piuttosto che trattenermi due giorni che forse si sarebbe riavuto, lo avea regalato alle figlie di una Ostessa molto belline, raccomandandolo che se lo curavano e gli davano un po’ di riposo, rinsanìto lo venderebbero benissimo; nè mai più ne seppi altro. Quest’ultimo dunque
1772 rimastomi, non lo volendo io vendere, perché sono per natura nemicissimo del vendere, lo regalai ad un Banchiere Francese domiciliato in Barcellona, già mio conoscente sin dalla mia prima dimora in codesta città. E qui, per definire e dimostrare quel che sia il cuore di un pubblicano, aggiungerò una particolarità. Essendomi rimaste di piò forse un trecento doppie d’oro di Spagna, che attese le severe perquisizioni che si fanno alle dogane di frontiera all’uscire di Spagna, difficilmente forse le avrei potute estrarre, sendo cosa proibita; richiesi al sudetto Banchiere, dopo avergli regalato il cavallo,che mi desse una cambiale di codesta somma pagabile a vista in Monpellieri di dove mi toccava passare. Ed egli, per testificarmi la sua gratitudine,ricevute le mie doppie sonanti, mi concepì la cambiale in tutto quel massimo rigore di cambio che facea in quella settimana; talché poi a Monpellieri riscotendo la somma in Luigi. mi trovai aver meno circa il sette per cento di quello ch’io avrei ricavato se vi avessi portate e scambiate le mie doppie effettive. Ma io non avea neppur bisogno di aver provato questa cortesia banchieresca per fissare la mia opinione su codesta classe di gente, che sempre mi è sembrata l’una delle piò vili e
pessime del mondo sociale; e ciò tanto più, 1772 quanto essi si van mascherando da signori, e mentre vi danno un lauto pranzo in casa loro per fasto, vi spogliano per uso d’arte al lor banco; e sempre poi sono pronti ad impinguarsi delle calamità pubbliche. A fretta ia furia, facendo con danari bastonare Je tardissime mule mi portai dunque in due giorni soli di Barcellona a Perpignano, dove ce n’avea impiegati quattro al venire. E la fretta poi mi era si fattamente rientrata addosso, che di Perpignano in Antibo volando per le poste, non mi trattenni mai, nè in Narbona, nè in Monpellieri, nè in Aix. Ed in Antibo subito imbarcatomi per Genova, dove solo per riposarmi soggiornai tre giorni, di li mi restituiva in patria due altri giorni trattenendomi presso mia madre in Asti; e quindi, dopo tre anni di assenza, in Torino, dove giunsi il di quinto di Maggio dell’anno 1772. Nel passare di Monpellieri io avea consultato un Chirurgo di alto grido, su i miei incommodi incettati in Cadice. Costui mi ci volea far trattenere; ma io, fidandomi alquanto su l’esperienza che avea oramai contratta di simili incommodi, e sul parere del mio Elia, che di queste cose intendeva benissimo, e mi avea già altre volte

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