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Cap. XIV. Malattia, e ravvedimento
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neppure molto la di lei bellezza non ordinaria mi 1773 andasse a genio; con tutto ciò credendo come un mentecatto al di lei immenso amore per me, a poco a poco l’amai davvero, e mi c’ingolfai sino agli occhi. Non vi fu più per me nè divertimenti, nè amici; per fino gli adorati cavalli furono da me trascurati. Dalla mattina all’otto fino alle dodici della sera eternamente seco, scontento dell’esserci, e non potendo pure non esserci: bizzarro e tormentosissimo stato, in cui vissi non ostante (o vegetai, per dir meglio) da circa il mezzo dell’anno 1773, sino a tutto il Febbrajo del 75; senza contar poi la coda di questa per me fatale e ad un tempo fausta cometa.

CAPITOLO DECIMOQUARTO.

Malattia, e ravvedimento.


Nel lungo tempo che durò questa pratica, arrabbiando io dalla mattina alla sera, facilmente mi alterai la salute. Ed in fatti nel fine del 73 ebbi una malattia non lunga ma fierissima, e straordinaria a segno che i maligni begl’ingegni, di cui Torino non manca, dissero 1773 argutamente ch’io l’avea inventata esclusivamente per me. Cominciò con lo dar di stomaco per ben trentasei ore continue, in cui non v’essendo più neppur umido da rigettare, si era risoluto il vomito in un singhiozzo sforzoso, con una orribile convulsione del diaframma che neppur l’acqua in piccolissimi sorsi mi permettea d’ingojare. I medici, temendo l'infiammazione, mi cacciarono sangue dal piede, e immediatamente cessò lo sforzo di quel vomito asciutto, ma mi si impossessò una tal convulsione universale, e subsultazione dei nervi tutti, che a scosse terribili ora andava percuotendo il capo nella testiera del letto, se non me lo teneano, ora le mani e massimamente i gomiti, contro qualunque cosa vi fosse stata aderente. Nè alcunissimo nutrimento, o bevanda, per nessuna via mi si potea far prendere, perchè all'avvicinarsi o vaso o istromento qualunque a qualunque orifizio, prima anche di toccare la parte era tale lo scatto cagionato dai subsulti nervosi, che nessuna forza valeva a impedirli: anzi, se mi voleano tener fermo con violenza era assai peggio, ed io ammalato dopo anche quattro giorni di totale digiuno, estenuato di forze, conservava però un tale orgasmo di muscoli, che mi venivano fatti allora degli sforzi che non avrei mai potuti fare essendo in piena salute. 1773 In questo modo passai cinque giorni interi in cui non mi vennero inghiottiti forse venti o trenta sorsetti di acqua presi così a contrattempo di volo, e spesso immediatamente rigettati. Finalmente nel sesto la convulsione allentò, mediante le cinque e le sei ore il giorno che fui tenuto in un bagno caldissimo di mezz’olio e mezz’acqua. Riapertasi la via dell’esofago in pochi giorni col bere moltissimo siere fui risanato. La lunghezza del digiuno e gli sforzi del vomito erano stati tali, che nella forcina dello stomaco fra quei due ossuccl che la compongono vi si formò un tal vuoto, che un uovo di mezzana grandezza vi potea capire; nè mai poi mi si ripianò come prima. La rabbia, la vergogna, e il dolore, in cui mi facea sempre vivere quell’indegno amore, mi aveano cagionata quella singoiar malattia. Ed io, non vedendo strada per me di uscire di quel sozzo laberinto, sperai, e desiderai di morirne. Nel quinto giorno del male, quando piò si temeva dai medici che non ne ritornerei, mi fu messo intorno un degno cavaliere mio amico, ma assai piò vecchio di me, per indurmi a ciò che il suo viso e i preamboli del suo dire mi fecero indovinare prima ch’egli parlasse; cioè a 1773 confessarmi e testare. Lo prevenni, col domandar Tuno e l’altro, nè questo mi sturbò puntol’animo. In due o tre aspetti mi occorse di rimirare ben in faccia la morte nella mia gioventù; e mi pare di averla ricevuta sempre con lo stesso contegno. Chi sa poi, se quando ella mi si riaffaccierà irremissibile io nello stesso modo la riceverò. Bisogna veramente che l’uomo muoja,perchè altri possa appurare, ed ei stesso, il di lui giusto valore.

1774Risorto da quella malattia, ripigliai tristamente le mie catene amorose. Ma per levarmene pure qualcun’altra d’addosso, non volli più lungamente godermi i lacci militari, che sommamente mi erano sempre dispiaciuti, abborrendo io quell’infame mestiere dell’armi sotto un’autorità assoluta qual ch’ella sia; cosa, che sempre esclude il sacrosanto nome di Patria. Non negherò pure, che in quel punto la mia Venere non fosse più assai per me obbrobriosa che non era il mio Marte. In somma fui dal Colonnello, e allegando la salute domandai dimissione dal servizio, che non avea a dir vero prestato mai; poiché in circa ott’anni che portai l’uniforme, cinque gli avea passati fuor del paese, e nei tre altri appena cinque riviste avea passate, che due l’anno se ne passavano sole in quei Reggimenti di Milizie Provinciali 1774 in cui avea preso servizio. Il Colonnello volle ch’io ci pensassi dell’altro prima di chiedere per me codesta dimissione; accettai per civiltà il suo invito, e simulando di avervi pensato altri quindici giorni, la ridomandai piò fermamente, e l’ottenni.

Io frattanto strascinava i miei giorni nel serventismo, vergognoso di me stesso, nojoso e annojato, sfuggendo ogni mio conoscente ed amico, su i di cui visi io benissimo leggeva tacitamente scolpita la mia obbrobriosa dabbenaggine. Avvenne poi nel Gennajo del 1774 che quella mia Signora si ammalò di un male di cui forse poteva esser io la cagione, benché non intieramente il credessi. E richiedendo il suo male ch’ella stesse in totale riposo e silenzio, fedelmente io le stava a piè del letto seduto per servirla; e ci stava dalla mattina alla sera, senza pure aprir bocca per non le nuocere col farla parlare. In una di queste poco certo divertenti sedute, io mosso dal tedio, dato di piglio a cinque 0 sei fogli di carta che mi caddero sotto mano, cominciai così a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una Scena di una non so come chiamarla, se Tragedia, 0 Commedia, se d’un sol atto, o di 1774 cinque o di dieci; ma in somma delle parole guisa di dialogo, e a guisa di versi, tra un, Forino, una Donna, ed una Cleopatra che poi sopravveniva dopo un lunghetto parlare fra codesti due prima nominati. Ed a quella Donna, dovendole pur dare un nome, nè altro sovvenendomene, appiccicai quel di Lachesi, senza pur ricordarmi ch’ella delle tre Parche era l’una. E mi pare, ora esaminandola, tanto pii strana quella mia subitanea impresa, quanto da circa sei e più anni io non aveva mai più scritto una parola Italiana, pochissimo e assai di rado e con lunghissime interruzioni ne avea letto. Eppure così in un subito, nè saprei dire nè come nè perchè, mi accinsi a stendere quelle scene in lingua Italiana ed in versi. Ma, affinchè il lettore possa giudicar da se stesso della scarsezza del mio patrimonio poetico in quel tempo, trascriverò qui in fondo di pagina a guisa di nota un bastante squarcio di codesta composizione, e fedelissimamente lo trascriverò dall’originale che tuttavia conservo, con tutti gli spropositi per fino di ortografia con cui fu scritto: e spero, che se non altro questi versi potranno far ridere chi vorrà dar loro un’occhiata, come vanno facendo ridere me nell’atto del trascriverli; e principalmente la scena fra Cleopatra e Fotino. 1774 Aggiungerò una particolarità, ed è; Che nessun’altra ragione in quel primo istante ch’io cominciai a imbrattar que’fogli mi indusse a


CLEOPATRA PRIMA.

A B B O Z Z A C C I O.

SCENA PRIMA.

LACHESI, PHOTINO.

photino.

Della mesta regina i strazj e l’onte
Chi nato è in riva al Nilo ornai non puote
Di più soffrir, alla vendetta pronte
Foran l’gizie genti, ove il consiglio
Destar potesse un neggbitoso core
Chè alla vendetta non pospone amore:

lachesi.

Sconzigliata a te par Palma regina,
Son questi i sensi audaci e generosi
Del tuo superbo cuor, ma più pietosi
Gira ver ella i lumi, e allora in pianto
Forse sciogliendo i detti giusti e amari
Vedrai che pria fu donna e poi regina
Vedrai

1774 far parlare Cleopatra piuttosto che Berenice, o Zenobia, o qualunque altra Regina tragediabile, fuorché Tesser io avvezzo da mesi ed anni a vedere nell’anticamera di quella Signo-


photino.

T’accheta, non fu doglia pari
A quella che mi strugge, e mi consuma
De’Tolomei, l’illustre ceppo ha fine.
Con lor rovina il sventurato Egitto,
Benché di corte all’aura infida, nato
Nome non è per me finto, o sognato
Quel bel di patria nome, che nel petto,
Invan mi avvampa, qual divino fuoco:
Ma de’stati la sorte allor che pende
Da un sol, quell’un tutti infelici rende,

lachesi.

Inutili riflessi; ora fra’mali
Sol fia d’uopo il minor, possenti
Dei, Voi che de’miseri mortali1
Reggete colassù le vite, e i fati
Ah pria di me, se l’ire vostre io basto
Tutte a placar, il pronto morir sia,
La vittima2

Signora alcuni bellissimi arazzi, che rappresentavano 1774 varj fatti di Cleopatra e d’Antonio.

Guarì poi la mìa Signora di codesta sua indisposizione; ed io senza mai piò pensare a


Dell’infelice antonio il rio destino.
Dove mai, Ma che vedo, ecco s’avanza.
Cleopatra. turbata

SCENA SECONDA.

CLEOPATRA, PHOTINO, LACHESI.

cleopatra

Amici ah se albergate ancor pietade,
Nel vostro sen, se fidi non sdegnate,
Voi ch’alle glorie mie parte già aveste,
Esser a mie sciagure anco compagni.
Deh non v’incresca il gir per mare3
Per monti, o piani, o selve meco in traccia
Di chi più della vita ognor io preggio
L’incauto piè dal vacillante trono
Rimosse amor, il vincitor già veggio
alla foce approdar sull’orme audaci
D’un ingiusta fortuna, a morte pria

1774 questa mia sceneggiatura risibile, la depositai sotto un cuscino della di lei poltroncina, dove ella si stette obbliata circa un anno; e così furono frattanto si dalla Signora che vi si sedeva


Amor mi meni che a scorno o ad onta ria.4
Questi, lo so, son d’infelice amante
Non di altiera Regina, i sensi, e l’opre
Forse m’han scelto i Dei per crudo esempio.
Per far veder alla più rozza gente
Che talor chi li regge, indegno, ed empio
Fanne, per vii passion, barbaro scempio.

photino.

Signora il tuo patir, non che a pietade.
Ma ad insania trarrla uomini e fere,
E qual fra i poli adamantino core 5
Resisterebbe a’tuoi aspri lamenti, 6
Il fallo emendi, iii confessarlo, e forse
Tu sè la prima fralli Ré superbi,
Che pieghi alla ragion l’altera fronte.
Alla ragione a’vostri pari ignota

abitualmente, si da qualunque altri a caso vi 1774 si adagiasse, covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti quelle mie tragiche primizie.


O non ben dalla forza ancor distinta;
Sozza non fu la lingua mia giammai
Dal basso stil d’adulatori iniqui,7
Il ver ti dissi ognor, Regina, il sai,
E tei dirò finché di vita il filo
Lasso, terrammi al tuo destino avvinto;
Cieco amor, vana gloria, al fin t’han spinto
a duro passo, e non si torce il piede,
altro scampo Photino oggi non vede
Fuorché nel braccio e nell’ardir d’Antonio,
Di lui si cerchi, a rintracciarlo volo
Non men di lui parmi superbo, e fiero
Ma assai più ingiusto il fortunato Ottavio,
Ah se P aspre querele, e i torti espressi
Sotto cui giace afflitta umanitade,
Se vi son noti in ciel, saria pietade
Il fulminar color che ingiusti e rei
Vonno quaggiù raffigurarvi, o dei.(parte)8

Alfieri, Vita. Vol. I. Ma, trovandomi vie più sempre tediato ed arrabbiato di far quella vita serventesca, nel Maggio di quello stesso anno 74, presi subitaneamente la determinazione di partire per SCENA TERZA.

CLEOPATRA, E LACHESI.

LACHESI

.

O veridico amico, o raro dono Del ciel co’Regi di tal dono avari.9

CLEOPATRA.

Veri, ma inutil foran i tuoi detti • Se più d’Antonio il braccio invitto a lato Non veglia in cura della gloria mia,10 Disperata che fo? dove m’aggiro?

A infame laccio, e a servii catena.

Tenderò, dunque umile e supplicante E collo e braccia, al vincitore altiero,?

Questi che già di sì bel nodo avvinti, Nodo fatai,! (i i) funesto amor 1 che pria Tua serva fernmi, e poi di tirannia.

(9)

(10) ’ (11) Nascea quest’autore con una predilezione smaniosa per le virgole. C.FOCA TERZA. CAP. Aiv. Roma, a provare se il viaggio e la lontananza *774mi guarirebbero di quella morbosa passione. Afferrai l’occasione d’una acerba disputa avuta con la mia Signora, (e queste non erano LàCHESI Signora, ancor della nemica corte Tentati ancor non hai li guadi estremi Forse, chi sà, s’alle nemiche turbe avesse la Fortuna volto il dorso, Se Antonio coi guerrier fidi ed audaci, Rientrando in se, dalle lor mani inique, Non strappò la vittoria CLEOPATRA. Ah nó, che fido Solo all’amor, più non curò d’onore; L’incauta fuga mia tutto perdette, ®Sol sconsigliata io fui, sola infelice, almen del Ciel placar potessi io l’ira Ma se a pubblico scorno ei mi riserva, Saprò con mano generosa, e forte Forse smentire i suoi decreti ingiusti; Non creder già, che sol d’amante il core alberghi in sen, ch’ancor quel di Regina Nobile, e grande ad alto fin m’invita. L’infamia ai vii, morte all’ardir sì aspetta, Dubbia non è fra questi due la scielta EPOCA TERZA. CAP. XIV. £49 pìssimo me ne partii alla volta di Milano. Es- 1774. sa non lo seppe che la sera prima, (credo il sapesse da qualcuno di casa mia) e subito quella sera stessa al tardi mi rimandò, come è d’uso, e lettere e ritratto. Quest invio già principiò a guastarmi la testa, e la mia risoluzione già tentennava. Tuttavia,fattomi buon animo, mi avviai, come dissi, per le poste verso Milano. Giunto la sera a Novara, saettato tutto il giorno da quella sguaiatissima passione, ecco che il pentimento, il dolore, eia viltà mi muovono un si feroce assalto al cuore, che fattasi ornai vana ogni ragione, sordo al vero, repentinamente mi cangio.Fo proseguire verso Mi- ’ lano un Abate Francese ch’io m’era preso per compagno, con la carrozza e i miei servi, dicendo loro di aspettarmi in Milano. In tanto, io soletto, sei ore innanzi giorno salto a cavallo col postiglione per guida, corro tutta la notte, e il giorno poi di buon’ora mi ritrovo un’altra volta a Torino: ma per non mi vi far vedere, e non esser la favola di tutti, non entro in città; mi soffermo in un’osteriaccia del Sobborgo, e di là supplichevolmente scrivo alla mia Signora adirata, perch’ella mi perdoni questa scappata, e mi voglia accordare un po’d’udienza. Ricevo tostamente risposta. Elia, che era ri aSo VITA DI VITTORIO ALFIERI.

  • 774 masto in Torino per badare alle cose mie durante

il mio viaggio che dovea essere d’un anno; Elia, destinato sempre a medicare, o palliar le mie piaghe, mi riporta quella risposta. L’udienza mi vien accordata, entro in città, come profugo, su l’imbrunir della notte; ottengo il mio intero vergognoso perdono; riparto all’alba consecutiva verso Milano, rimasti d’accordo fra noi due che in capo di cinque o sei settimane sotto pretesto di salute me ne ritornerei in Torino. Ed io in tal guisa palleggiato a vicenda tra la ragione e l’insania, appena firmata la pace, trovandomi di bel nuovo soletto su la strada maestra fra i miei pensamenti, fieramente mi sentiva riassalito dalla vergogna di tanta mia debolezza. Cosi arrivai a Milano lacerato da questi rimorsi in uno stato compassionevole ad un tempo e risibile. Io non sapeva allora, ma provava per esperienza quel profondo ed elegante bel detto del nostro mae• stro d’Amore, il Petrarca; M Che chi discerne è vinto da chi vuole.» Due giorni appena mi trattenni in Milano, sempre fantasticando, ora come potrei abbreviare quel maledetto viaggio; ed ora, come lo potrei far durare senza tener parola del ritorno: che libero avrei voluto trovarmi, ma libe EPOCA SECONDA. CAP. XIV. a5i rarrai non sapea, nè potea. Ma, non trovando *774* mai un po’ di pace se non se nel moto e divagazione del correr la posta, rapidamente per Parma, Modena, e Bologna mi rendei a Firenze: dove nè pure potendomi trattener piò di due giorni, subito ripartii per Pisa, e Livorno. Quivi poi ricevute le prime lettere della mia Signora, non potendo piò durare lontano, ripartii subito per la via di Lerici e Genova, dove lasciatovi l’Abate compagno, e il legno da risarcirsi, a spron battuto a cavallo me ne ritornai a Torino, diciotto giorni dopo esserne partito per fare il viaggio d’un anno. C’entrai anche di notte per non farmi canzonar dalla gente. Viaggio veramente burlesco, che pure mi costò dei gran pianti. Sotto r usbergo ( non del sentirmi puro ) ma del mio viso serio e marmoreo, scansai le canzonature dei miei conoscenti ed amici,che non si attentarono di darmi il ben tornato. Ed in fatti, troppo era mal tornato; e divenuto oramai disprezzabilissimo agli stessi occhi miei, io caddi in un tale avvilimento e malinconia, che se un tale stato fosse lungamente diurato, avrei dovuto o impazzire, o scoppiar^; come in fatti venni assai presso all’uno ed all’altro. Ma pure strascinai quelle vili catene an aSa VITA DI VITTORIO ALFIERI.

  • 774 cora dal finir di Giugno del 74, epoca del mio

ritorno di quel semi-viaggio, sino al Gennajo del 75, quando alla per fine il bollore della mia compressa rabbia giunto all’estremo scoppiò. CAPITOLO DECIMOQUINTO. Liberazione vera. Primo Sonetto. 17-.5, Tornato io una tal sera dall’Opera (insulso e tediosissimo divertimento di tutta l’Italia) dove per molte ore mi era trattenuto nel palco dell’odio samata Signora, mi trovai cosi esuberantemente stufo che formai la immutabile risoluzione di rompere si fatti legami per sempre. Ed avendo io visto per prova che il correre per le poste quà e là non mi avea prestato forza di proponimento, che anzi me l’avea subito indebolita e poi tolta, mi volli mettere a maggior prova, lusingandomi che in uno sforzo piò difficile riuscirei forse meglio, stante l’ostinazione naturale del mio ferreo carattere. Fermai dunque in me stesso di non mi muovere di casa mia, che come dissi le stava per l’appunto di faccia; di vedere e guardare ogni

  1. Verso brevino.
  2. Verso abortivo.
  3. a terra: rimasto nella penna.
  4. Verso lunghetto Un dotto lo intittolerebbe, Upercatalectico.
  5. Nota quel Fra ì polì, che è squisita espressione.
  6. Almeno il punto interrogativo ci fosse stato.
  7. Lo scrittore era nemico giurato del punto fermo.
  8. Qui le informi reminiscenze del Metastasio traevano l’autore a rimare senza avvedersene.
  9. È venato scritto avari in vece di avaro.
  10. Sia maladetto, «e mai un punto fermo ci casca.
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