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Cap XV. Liberazione vera. Primo Sonetto
Epoca III. - Cap. XIV.

EPOCA TERZA. CAP. XV. a53 giorno le di lei finestre; di vederla passare; di 1775. udirne in qualunque modo parlare; e con tutto ciò, di non cedere oramai a nulla, nè ad ambasciate dirette o indirette, nè alle reminiscenze, nè a cosa che fosse al mondo, a vedere se ci creperei, il che poco importavami,o se alla fin fine la vincerei. Formato in me tal proponimento, per legarmivi contraendo con una qualche persona come un obbligo di vergogna, scrissi un bigliettino ad un amico miò coetaneo, che molto mi amava, con chi s’era fatta l’adolescenza, e che allora da parecchi mesi non mi vedea più,compiangendomi molto di esser naufrago in quella Cariddi, e non potendomene cavar egli, nè volendomi perciò parer d’approvare. Nel bigliettino gli dava conto in due righe della mia immutabile risoluzione, e gli acchiudevo un involtone della lunga e ricca treccia de’ miei rossissimi capelli, come un pegno di questo mio subitaneo partito, ed un impedimento quasi che invincibile al mostrarmi in nessun luogo cosi tosone j non essendo allora tollerato un tale assetto, fuorché ne’ villani, e marinari. Finiva il biglietto col pregarlo di assistermi di sua presenza e coraggio, per rinfrancare il mio. Isolato in tal guisa in casa mia, proibiti tutti i messaggi, urlando

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1775. e ruggendo, passai i primi quindici giorni di questa mia strana liberazione. Alcuni amici mi visitavano; e mi parve anco mi compatissero;^ forse appunto perchè io non diceva parola per lamentarmi, ma il mio contegno ed il volto parlavano in vece mia. Mi andava provando di leggere qualche cosuccia, ma.non intendeva neppur la gazzetta,non che alcun menomo libro; e mi accadeva di aver letto delle pagine intere cogli occhi,e talor con le labbra, senza pure saper una parola di quel ch’avessi letto. Andava bensì cavalcando nei luoghi solitari, e questo soltanto mi giovava un poco si allo spirito che al corpo. In questo semi-frenetico stato passai piò di due mesi sino al finir di Marzo del 76; finché ad un tratto un’idea nuovamente insortami cominciò finalmente a svolgermi alquanto e la mente ed il cuore da quell’unico e spiacevole e prosciugante pensiero di un si fatto amore. Fantasticando un tal giorno cosi fra me stesso, se non sarei forse in tempo ancora di darmi al poetare, me n’era venuto, a stento ed a pezzi, fatto un piccolo saggio in quattordici rime, che io,riputandole un Sonetto, inviava al gentile e dotto Padre Paciaudi, che trattavami di quando in quando, e mi si era sempre mostrato ben affetto, e ria EPOCA TERZA. CAP. XV. *"’5 crescente di vedermi cosi ammazzare il tempo «me stesso nell’ozio. Trascriverò qui, oltre il Sonetto, anco la di lui cortese risposta. Quest’ottimo uomo mi era sempre andato suggerendo delle letture Italiane, or questa or quella-, e tra l’altre, trovata un giorno su un muricciuolo la Cleopatra, ch’egli intitola eminentissima per essere del Cardinal Delfino, riPRIMO SONETTO. Ho vinto alfin, sì non m’inganno, ho vinto Spenta è la fiamma, che vorace ardeva Questo mio cuor da indegni lacci avvinto I cui moti,ramor cieco reggeva. Prima d’araarti, o Donna, io ben sapeva Ch’era iniquo tal foco, e tal respinto L’ho mille fiate, e mille Amor vinceva Sì che vivo non era, e non estinto. Il lungo duol, e gli affannosi pianti, Li aspri tormenti, e i crudei dubbj amari „ Onde s’intesse il viver degli amanti „ Fisso con occhi non di pianto avari. Stolto, che dissi? è la virtù fra’tanti Sogni, la sola i cui pensier sian cari. a56 VITA DI VITTORIO ALFIERI. 177S. cordatosi ch’io gli avea detto parermi quello un soggetto di tragedia, e che lo avrei voluto tentare, (senza pure avergli mai mostrato quel mio primo aborto, di cui ho mostrato qui adLETTERA DEL PADRE PACIAUDI. Mio Stimatiss. ed Amatìss. Sig. Conte. Messer Francesco s* accese d’amore per Monna Laura, e poi si disinnamorò, e cantò i suoi pentimenti. Tornò ad imbertonarsi della sua Diva, e finì i suoi giorni amandola non già filosoficamente, ma come tutti gli uomini hann’usato. Ella, mìo gentilissimo Sig. Conte, si è dato a poetare: non vorrei, che imitasse quel padre de* rimatori Italiani in questa amorosa faccenda.Se l’uscir dai ceppi è stato forza dì virtù, com’ella scrive, conviene sperare che non andrà ad incepparsi altra volta. Comunque sìa per avvenire, il Sonetto è buono, sentenzioso, vibrato, e corretto bastantemente. Io auguro bene per lei nella carriera poetica, e pel nostro Parnasso Piemontese, che abbisogna tanto dì chi sì levi un poco su la turba volgare. EPOCA TERZA. CAP. XV. dietto il soggetto ) egli me la comprò e donò. 1775. Io in un momento di lucido intervallo avea avuta la pazienza di leggerla, e di postillarla; e glie l’avea cosi rimandata, stimandola in me stesso assai peggiore della mia quanto al piano e agli affetti, se io veniva mai a proseguirla, come di tempo in tempo me ne rinasceva il pensiere. Intanto il Paciaudi, per non farmi smarrire d’animo, finse di trovar buono il mio sonetto, benché nè egli il credesse, nè effettivamente lo fosse. Ed io poi di 11 a pochi mesi Le rimando /’eniinentissinia (i) Cleopatra, che veramente non è che ìnfima cosa. Tutte le osservazioni ch’ella vi ha aggiunte a mano, sono sensatissime, e vere. Vi unisco ì due volumi di Plutarco, e s’ella resta in casa, verrò io stesso a star seco a desco per ricrearmi colla sua dolce società. Sono colla più ferma stima ed osservanza suo ec. L’ultimo di Gennajo 1775. Nota nianus. (1) La Cleopatra di cui qui fa menzione, e quella del Cardinal Delfino, che il Padre Paciaudi mi avea consigliato di leggere. a58 VITA DI VITTORIO ALFIERI. 1775 ingolfatomi davvero nello studio dei nostri ottimi poeti, tosto imparai a stimare codesto mio sonetto per quel giusto nulla ch’egli valeva. Professo con tutto ciò un grand’obbligo a quelle prime lodi non vere, e a chi cortesemente le mi donò, poiché molto mi incoraggirono a cercare di meritarne delle vere; Già parecchi giorni prima della rottura con la Signora, vedendola io indispensabile ed imminente, mi era sovvenuto di ripescare di sotto al cuscino della poltroncina quella mia mezza Cleopatra, stata ivi in macero quasi che un anno. Venne poi dunque quel giorno, in cui, fra quelle mie smanie e solitudine quasi che continua,buttandovi gli occhi su, ed allora soltanto quasi come un lampo insortami la somiglianza del mio stato di cuore con quello di Antonio, dissi fra me stesso: Va prcfseguita quest’impresa;rifarla,se non può star cosi;ma in somma sviluppare in questa tragedia gli affetti che mi divorano, e farla recitare questa primavera dai Comici che ci verranno. Appena mi entrò questa idea, ch’io (quasiché vi avessi ritrovata la mia guarigione ) cominciai a schiccherar fogli,rappezzare, rimutare, troncare, aggiungere, proseguire, ricominciare, «d in somma a impazzare in altro modo iiitor EPOCA TERZA. CAP. XV. aSq no a quella sventurata e mal nata mia Gleopatra. Nò mi vergognai anco di consultare alcuni de’miei amici coetanei, che non avevano, come io, trascurata tanti anni la lingua e poesia Italiana; e tutti ricercava ed infastidiva, quanti mi poteano dar qualche lume su un’arte di cui cotanto io mi trovava al bujo. E in que-, sta guisa, nuli’altro desiderando io allora che imparare, e tentare se mi poteva riuscire quella pericolosissima e temeraria impresa, la mia casa si andava a poco a poco trasformando in una semi-accademia di letterati. Ma essendo io in quelle date circostanze bramoso d’imparare, e arrendevole, per accidente; ma per natura, ed attesa l’incrostata ignoranza, essendo ad un tempo stesso agli ammaestramenti recalcitrante ed indocile; disperavami,annojava altrui e me stesso, e quasiché nulla venivami a profitto. Era tuttavia sommo il guadagno dell’andarmi con questo nuovo impulso cancellando dal cuore quella non degna fiamma, e di andare ad oncia ad oncia riacquistando il mio già si lungamente alloppiato intelletto. Non mi trovava almeno più nella dura e risibile necessità di farmi legare su la mia seggiola, come avea praticato più volte fin allora, per impedire in tal modo me stesso dal potere fuggir di casa, if,o VITA DI VITTORIO ALFIERI*775. e ritornare al mio carcere. Questo era anche uno dei tanti compensi ch’io aveva ritrovati per rinsavirmi a viva forza. Stavano i miei legami nascosti sotto il mantellone in cui mi avviluppava, ed avendo libere le mani per leggere, o Scrivere, o picchiarmi la testa, chiunque veniva a vedermi non s’accorgeva punto ch’io fossi attaccato della persona alla seggiola. E cosi ci passava dell’ore non poche. Il solo Elia, che era il legatore, era a parte di questo segreto; e mi sciogljeva egli poi, quando io sentendomi passato quell’accesso di furiosa imbecillità, sicuro di me, ci riassodato il proponimento, gli accennava di sciogliermi. Ed in tante e si diverse maniere mi ajutai da codesti fierissimi assalti, che alla fine pure scampai dal ricadere in quel baratro. E tra le strane maniere che in ciò adoperai, fu certo stranissima quella di una mascherata ch’io feci nel finire di codesto Carnevale, al pubblico ballo del teatro. Vestito da Apollo assai bene, osai di presentarmivi con la cetra, e strimpellando alla meglio, di cantarvi alcuni versacci fatti da me, i quali anche con mia confusione trascriverò qui in fondo di pagina. Una tale sfacciataggine era in tutto contraria alla mia indole naturale. Ma, sentendomi io pur trop EPOCA TERZA. CAP. XV. *6c po debole ancora a fronte di quella arrabbiata 1775. passione, poteva forse meritare un qualche COLASCIONATA PRIMA. Sendo mascherato da Poeta sudicio. Le vicende d’amor strane, ed amare Colla cetra rn’appresto a voi cantare; Non vi spiacciale udir dal labro mio Che sincero dirolle affé d’Iddio. Voi le provaste tutti, o le sentite, Onde se v’inganassi, mi smentite. Sventurato é colui ch’ama davvero^ Sol felice in amor è il menzognero. Ingannato è colui che non inganna, E le frodi donnesche ei si tracanna. Amor non è che un fanciullesco giuoco. ChiJ’apprezza di più, quant’è da poco! Eppur, miseri noi, la quiete, e pace C’invola spesso il traditor rapace. Pria che d’amar, pajono dolci i lacci, Così creder ti fan con finti abbracci, Cresce dappoi delle catene il peso A misura che il sciocco resta acceso. E quando egli è ben bene innamorato. Che dura é la catena ha già scordato j Alfieri, Vita. Voi. I. 17 »6a VITA DI VITTORIO ALFIERI. 1775 compatimento la cagione che mi movea a far# simili scenate; che altro non era se non se il O se la sente ancor, la scuote invano, Ch’allacciata le vien da accorta mano. L’innamorato stolto, un uom si crede, E ch’un uom non è più già non s’avvede. Delirando sen va sera, e mattina E da lui la raggion fugge tapina. Ogni giorno scemando il suo cervello. Già non discerne più, nè il buon nè il bello. Va gli amici fuggendo, e ancòr se stesso Fugge, per non sentir l’error commesso. Nè l’ardisce emendar, piange, sospira, Contro il perfido amor, stolto, si adira. La donna, ch’altro vuol ch’aspri lamenti, Con rimproveri accresce i rei tormenti; E nel fiero contrasto ognor più sciocca L’innamorato sta, come un àlocco. Legge in viso ad ognun la sua sentenza, E si rode il suo fren con gran pazienza. La pazienza, virtù denominata, Ma specialmente all’asino accordata. L’innamorato almen sembrasse in tutto Al lascivo animai, immondo, e brutto. Spesso lo muove poi fredda pazzia, EPOCA TERZA. CAP. XV. *63 bisogno eh* io sentiva in me stesso di frapporre *776 come ostacolo per me infrangibile la vergogna Quella nera passion di gelosia. Non sarebbe geloso, o il fora invano, Se palpasse la fronte con la mano. Anime de’mariti a me insegnate • Per non esser gelose, eh come fate? Ho capito, di ^ià stufi ne siete, Nè sempre invan recalcitrar volete. * Il coniugale amor vien presto a noja, E nel letto sponsal forza è che muoja, £ stuifarsi pur denno ancor gli amanti Di gettare per donna all’aure i pianti. In somma: L’innamorato fa trista figura. Quando di farla buona ei s’assicura. Ognun ride di lui, e n’ha ragione, L’innamorato sempre è un gran beccone. Io finisco col dirvi V amici cari. Voi ch’inghiottite ancor boccon sì aniari. Di spicciarvi al più presto che possiate Delle donne che vosco Strascinate. Io già rider vi ho fatto, e rido adesso Delle donne, di voi, e di me stesso.

  • 64 VITA DI VITTORIO ALFIERI.

1775. del ricatìere m quei lacci che con tante pub-» blicità avrei vituperati io medesimo. E in queCOLASCIONATA SECONDA, Sendo mascherato da Apollo. Cortesi donne, amati cavalieri j Cui non spiacque ascoltar la rauca cetra Di sporchissimo vate, il qual nell’etra Percosse sol, con li suoi detti veri; Voi attendete già dal blando aspetto Ch’io ne venga a smentir quel vii cencioso Ch’ai sciapiti amator-fu si nojoso; No, diverso pensier racchiudo in petto. Io, ch’Apolline son; ma voi ridete? E sì lieve menzogna or vi stupisce? Quando parla di se ciascun mentisce, E ciò spesso v’accade, e non ridete. Io, ch’A polli ne son, cantar disdegno Con stucchevoli carrni il rancio amore; • Da più strano pensier, più grand’onore Conseguir ne vorrei, se ne son degno. Io m’acciiigo a gantar della sciocchezza; Quest’è Un vago soggetto, e non cantalo Benché spesso dai vati.^operato; Or sentite di lui l.’.alta bellezza. EPOCA TERZA. CAP. XV. *65 sto modo, senza avvedermene, io per non doVQjTmi vergognar di bel nuovo, in pubblico ’ Io comincio da voi, donne, e vi cbieggio, Se non fossero sciocchi, i dolci sposi; Come fareste poi cogli amorosi? Ecco che già fra voi sciocchezza è in preggio. E diiovvi di più, se un scimunito Non scorgeste in chi v’ama al sol parlare. Impazzireste già, per non sfogare Quello di civettar dolce prurito. Oh quanto giubilate, voi zitelle. Se vi trovate aver le madri sciocche! La scuola fate li di filastrocche. Che c’infilzate poi, leggiadre, e belle. Dunque, o donne, negar non mi saprete Che la nolstra sciocchezza vi fa liete.

  • Passo agli uomini adesso, e ben distinti

In moltissime schiere li ravviso. Oh quanta gioja appar dei figli in viso. Ch’aver stolidi i padri son convinti I ’ 1 lor vizj sen vanno nascondendo, E se avvien ch’un molesto creditore. Stufo di passeggiar mova rumore Il buon vecchietto allor paga ridendo. Ed all’incontro poi li padri avari a66 VITA DI VITTORIO ALFIERI; 1775. mi svergognava. Nè queste ridicole e insulsi Colascionate avrei osate trascrivere, se qon Quanto godon d’aver figliuoli «tolti, E vero che di questi non son molti, Che lor chiedan consìgli e non danari-. Da chi poi la stoltezza è più eli’ amata, La cetra oscuramente qui li addita, Sono que’meschinelli, a cui la vita La dabenaggin nostra ha già donata. Che diremo de’ brutti bacchettoni; Percotendosi il petto, e lagrimuccie Costor spargon fra gonzi; alle donnuccì» Di soppiatto facendo certi occhioni. E voi ricchi, ed ignari alti Signori Alla volgar stupidità dovete Di comparire ognor quel che non siete. Via ergetele un tempio, e ogn’un l’adori. Voi altri Zerbinotti casca-morti, Che nella testa, seppur-testa avete. Altro che freddi semi non chiudete. Se non vi fosser stolti, siete morti. Voi famelici autori, e che fareste? E se non fosse il volgo ignaro, e stolto Vi si vedria la fame pinta in volto. Chi sa, d’inanizion forse morreste. EPOCA TERZA. CAP XV. *67 mi paresse di doverle, come im autentico rao- *775. numento della mia imperizia in ogni conveVoi d’ogni autor peggiori, che spiate * Le faccende d’ognuno, e poi le dite. Ed a chi non le cura le ridite, Della stoltezza voi, quasi abusate. Voi che inimici al ver, già posto in bando Crudamente l’avete, a chi direste Le sciapite bugiuzze, tacereste Se i stolti non le stessero ascoltando. Le velenose lingue, e nou acute Che di mordere han voglia, e mal lo fanno Cangieriano mestier, se il barbagianno Non le trovasse poi pronte ed argute. Insomma canterei tre giorni interi, Nè del ricco soggetto la bellezza, Nè degli ornati suoi la Vaga ampiezza Io descriver saprei; voglionvi Omeri. In due versi però composti a stento Spiegheròvvi il fallace mio pensiero. Dico, e ho inteso a dir che il mondo intiero Da stolidezza è retto a suo talento. E voi che qui l’orecchie spalancate Per burlarvi di me, Censor severi E in vestigar miei carmi falsi, e veri, Se lo stolto non foMÀ^ allor che fate? a68 VITA DI VITTORIO ALFIERI. 1775. nienza e decenza, qui tributare alla verità. Fra queste si fatte scede io mi andava Ma tu cetra cantasti già di tanti, E chi strider ti fa vuoi tralasciare. No che sarebbe ingiusto, hai da cantare; Per la soddisfazion di tutti quanti. Dirò dunque di me, per mia disgrazia Che senza la stoltezza avrei tacciato, E forse molto meglio avria vaUuto, Per conservar di voi la buona grazia. O né poeti innata impertinenza! Biasimare mi vuó, m’innalzo al cielo, Eppur se penso a me io sudo e gelo. Ed abusando vó della pazienza. Lascio giudici voi; sassi gettate S’un Poeta vi pajo da sassate. Io confesso pian pian, che vado altero D’avervi detto scioccamente il vero. COLASCIONATA TERZA. Apolline già stufo di vagare, Nè sapendo che far, s’infinge adesso Che l’ha pregato alcun di ricantar*; EPOCA TERZA. CAP. XV. pure davvero infiammando a poco a poro del *77®* per me nuovo bellissimo ed altissimo amore Ma questo non è ver, se l’ha sognato. Chi conosce i Poeti ha già capito Ch’Apolline vuol esser corbellato. M’accingerò de’vizj a voi cantare. No, che reggono il mondo, e a me potrebbe Da ciò, biasimo e lutto ridondare. Della virtude adunque; è contrabbando, E tanta gli han imposta la gabella. Che quasi non si trova anche pagando.. Dirò della bellezza delle donne? Ah quanto dicon più quei dolci sguardi Che additan che son Angeli fra gonne. Canterò della vita ogni vicenda. Ma se la vita è un sogno molto breve, Le vicende d’un sogno, e chi le intende? Dé ricchi canterei se avessi fronte Come l’hanno i poeti tutti quanti, E poi già tai menzogne a voi son conte. Dirovvi della morte; oh quanto è trista Non ne vorreste udir neppur parola, Ma nel pensarci mai, nulla s’acquista. Dirò di quest’alloro qualcosetta Il qual cingemi il crin modestamente.. Zitto, ch’io mel donai, lo strappo in fretta. VITA DI VITTORIO ALFIERI; 1775 di gloria. E finalmente dopo alcuni mesi di continui consulti poetici, e di logorate grammatiche e stancati vocabolar), e:di raccozzati spropositi, io pervenni ad appiccicare alla peggio cinque membri ch’io chiamai Atti, e il tutto intitolai, Cleopatra Tragedia. E avendo messo al pulito (senza forbirmene) il primo atto, lo mandai al benigno Padre Pbr ciaudi, perch’egli me lo spilluzzicasse, e desseraene il di lui parere in iscritto. E qui pure fedelmente trascriverò alcuni versi di esso, con la risposta del Paciaudi. Nelle postille da Farovvi di miseria un quadro bello È ver che non è vizio eppur si fugge. Nè se ne parla mai; dov’ho il cervello? Della felicitade,*oh bel soggetto; La và cercando ognun, chi l’ha trovata Di grazia me lo dica, ch’io l’aspetto. Tema più bello ancor; volete udirlo? Quest’è la vanità; ma non lo canto Potrei parlar di me senza sentirlo. Dirò che sono un pazzo, e ben m’avvedo i Che lo dite voi tutti anche tacendo. Finisco, per non dir, ch’anch’io lo credo. EPOCA TERZA. CAP. XV. *71 lui apposte a que’miei versi, alcune eran mol- 1778. to allegre c divertenti, e mi fecero ridere di CLEOPATRA SECONDA. ATTO PRIMO. SCENA PRIMA. DIOMEDE, LAMIA. DIOMEDE. E fia pur ver’, che negghitosi, e vili Traggan gli Egizj, in ozio imbelle, i giorni Allor che i scorni replicati, e Ponte Dovrian destar Palnie a vendetta, e all’ireT Cleopatra, d’amor ebra, e d’orgoglio Del suo regno l’onor, cieca, non cura, O se pure l’apprrzza, incauta, giace Di rea fiduccia in seno, e forse, ignora Ch’a lieve fil, sta il suo destino appeso. M’affaiina il duolo, a sì funesto aspetto, E benché avezzo all’empia corte iniqua, Più cittadin, che servo, oggi compiango Le pubbliche sciagure. Un fìnto nome Quel di patria non è, che in cuor ben nato Arde, ed avvampa, qual divino fuoco, VITA DI VITTORIO ALFIERI; 1775. vero cuore, benché fosse alle spalle mie: e questa tra 1 altre. Verso 184»> il latrato del cor. Ed invano i tiranni, un tanto amore Taccian’di reo delitto; al falso grido S’oppon natura, e dice, ch’è virtude. LAMIA. Di Diomede son questi i sensi audaci, Ti diede il Ciel, forse per tua sventura Un’alma forte, generosa, e fiera: Inutil dono a chi fra Corti è nato. Poiché, dei Regi rispettando i falli Spesso adorar li deve; intanto i lumi Volgi men fieri, a mesta donna, inerme; Mira Cleopatra, impietosisci, e in pianto Scioglier ti vedo allor, gli amari detti. In pianto sì, nè rifiutar lo puote A sì fatte miserie un’alma grande: E rivendica ognor l’umanitade Gli antichi suoi sacri diritti, e augusti; Son gli infelici di pietà ben degni, Ancor che rei. DIOMEDE. Da me l’abbiano tutta; Ma quando sol desta pietà, chi impera, Si piange l’uom, ma si disprezaa il Rege. EPOCA TERZA. CAP. XV. >? Questa metafora è soverchiamente canina. 1776. M La prego di torla. «Le postille di quel primo atto, ed i consigli che nel paterno biglietto le accompagnavano, mi fecero risolvere a tornar rifare il tutto con più ostinazione ed arrabbiata pazienza. Dal che poi ne usci la cosi detAvvilita in Egitto è da molti anni La maestà del trono &c. &c. B basti di questa Seconda, per dimostrare che forse era peggio della Prima. LETTERA DEL PADRE PACIAUDI. Pregiatiss. mio Sig. Conte. Le rimando il suo originale, in cui ho scritte le mie sincere ed amichevoli osservazioni. Parlando in generale io mi sono compiaciuto dei primi tratti della Tragedia. Spicca l’ingegno, V immaginazione feconda, e il giudizio nella condotta. Ma con uguale schiettezzà le dirò, che non sono contento della poesia. lversi sono mal torniti, e non haniw il giro Italia^

  • 74 VITA DI VITTORIO ALFIERI.
  • 775 ta Tragedia, quale si recitò in Torino a di

Giugno 1775: della quale pure trascriverò, per 710. Vi sono infinite voci, che non son buone, e sempre la ortografia è mancante, e viziosa. Condoni alla mìa naturai ingenuità, e all’interessa: riprendo a ciò che la rìsguarda, il presente avviso. Bisogna saper bene laflìngua in cui si vuole scrivere. Perchè non tiene ella sul tavolino la Ortografia Italiana,/liccio/ volume in ottavo? Perchè non legge prima glf Avvertimenti Gramaticali, che vanno aggiun~ ti? Intanto ella osserverà dalle mie moltepo~ stille, eh? io non ho voluto risparmiarle il tedio delle emendazioni Gramaticali. Sono in Lingua severo, scrupoloso, forse indiscreto. Ma questa volta il sono stato di più, perchè la proprietà della lingua è la sola cosa che manchi al di lei lavoro. Vi sono de’pensieri grandi, degli affetti ben maneggiati, de’ caratteri nohilmerUe sostenuti. Prosieguo con coraggio, ch’è difficile trovare chi scrivendo la prima volta cose tragiche vi sia meglio riuscito. Me ne congratulo seco nell’atto dì ras* segnarmi.. Tutto suo. EPOCA TERZA CAP. XV. *78 terza ed ultima prova della mia asinità nella 177S. età non poca di anni venzei e mezzo, i primi CLEOPATRA TERZA, Quale fu recitata nel Teatro Carìgnano. ATTO PRIMO. SCENA PRIMA. CLEOPATRA, I8MENECLEOPATRA. Che farò?... Giusti Dei....Scampo non veggo Ad isfuggire il precipìzio orrendo. Ogni stato, benché meschino, e vile. Mi raffiguro in mente; ogni periglio Stolta ravviso, e niun, fra tanti, ardisco Affrontare, o fuggir: dubbj crudeli Squarcianmi il petto, e non mi fan morire. Nè mi lasciano pur riposo, e vita. Raccapriccio d’orror; l’onore, il regno Prezzo non son d’un tradimento atroce; Ambo mi par d’aver peduti; e Antonio, Antonio, si, vedo talor frali’ombre ^ Gridar vendetta, e strascinarmi seco.

  • 76 VITA DI VITTORIO ALFIERI.

1775. versi, quanti bastino per osservare i lentissimi progressi, e Timpossibilità di scrivere che tutTanto dunque, o rimorsi, è il poter vostro? ^ ISMENE. Se hai pietà di te stessa, i moti affrena D’uu disperato cuor; d’altro non temi. Che non più riveder quel fido amante? Ma ignori anoor, se vincitore, o vinto, Se viva, o no.... CLEOPATRA. E s’ei vivesse ancpra, Con qual fronte, in qual modo, a lui davanti Presentarmi potrò, se l’ho tradito? Della virtù qual è la forza ignota, Se un reo neppur può tollerarne i guardi? ISMENE. No, Regina, non,è sì reo quel core, Che sente ancor rimorsi...., CLEOPATRA. Ah! sì, li sento: E notte, e dì, e accompagnata, e sola, Sieguonmi ovunque, e il lor funesto aspetto Non mi lascia di pace un sol momento. Eppur, gridano invan; neU’alma mia Servir dovranno a più feroci affetti; EPOCA TERZA. CAP. XV. *77 tavia sussisteva, per mera mancanza dei piò 177S. triviali studj. Nè scorgi tu questo mio cuor qual sia. Mille rivolgo atri pensieri in mente, Ma il crudel dubbio, d’ogni mal peggiore, Vietami ognor la necessaria scelta. I s M E E. (a) Cleopatra, perchè prima sciogliesti L’Egizie vele all’aura, allor che d’Azio N’ingombravano il mar le navi amiche? E allor che il Mondo, alla gran lite intento, Pendea per darsi al vincitore in preda, Chi mai t’indusse a così incauta fuga? C1.E0PATBA. Amor non è, che m’avvelena i giorni; Mossemi ognor l’ambizion d’impero. Tutte tentai, e niuna in van, le vie, Che all’alto fin trar mi dovean gloriosa; Ogni passione in me soggiacque a quella. Ed alla mìa passion le altrui servirò. (a) Codeste interrogazioni d’Ismene, più assai proprie di un Giudice fiscale, che non di una dipendente amica, mi hanno pur rallegrato un pochino, e sollevatami col riso la noja di questa copiatura. Alfieri, Vita. Voi. I. 18 47«VITA DI VITTORIO ALFIERI. 1775* E nel modo stesso con cui avea tediato il buon Padre Paciaudi per cavarne una censura Cesare il primo, il crin mi cinse altero Del gran diadema; e non al solo Egitto Leggi dettai, che quanta Terra oppressa Avea già Roma, e il vincitor di lei, ’ Vidi talora ai cenni miei soggetta. Era il mio cor d’alta corona il prezzo. Nè l’ebbe alcun, fuorché reggesse il Mondo, Un trono, a cui da sì gran tempo avea La virtude, l’onor, la fé, donata, Non lo volli affidar al dubbio evento, E alla sorte inegual dell’armi infide.... Serbar lo volli *, e lo perdei fuggendo; Vacilla il piè su questo inerme soglio; E a disarmare il vincitor nemico, Altro più non mi resta che il mio pianto.... Tardi m’affliggo, e non cancella il pianto Un tanto error, anzi lo fa più vile. ISM KN E. Regina, il tuo dolor desta pietade In ogni cor, ma la pietade è vana. Rientra in te, rasciuga il pianto, e mira Con più intrepido ciglio ogni sventura; Nè soggiacer; ch’alma regale è forza . EPOCA TERZA. CAP. XV. *79 di quella mia seconda prova, andai anche te- 1775. diando molti altri, tra i quali il Conte AgostiSi mostri ognor de’mali suoi maggiore. I mezzi adopra che parran più prónti Alla salute, od al riparo almeno Del tuo regno. ’ CLEOPATRA. Mezzi non vedo, ignoto (a) Della gran pugna essendo ancor l’evento; Nè error novello, ai già commessi errori Aggiunger sò, finché mi sia palese. D’Azzio lasciai l’instabil mar coperto, Di navi, e d’armi, e d’aguerrita gente, Sì che l’onda in quel dì vermiglia, e tinta Di sangue fu, di Roma a danno ed onta. Era lo stuol più numeroso, e forte, ’ Quel ch’Antonio reggea, e le sue navi, Ergendo in mar li minaccievol rostri, Parean schernir coll’ampia mole i legni Piccioli, e frali del nemico altero; Si, questo è ver; ma avea la Sorte, e ì Numi («) Anco un verso falso di accenti, e da non potersi strascinare con sei par di buoi, mi toccò di far recitare nella mia prima comparsa su le scene Italiane. »8o VITA DI VITTORIO ALFIERI; 1775. no Tana mio coetaneo, e stato Paggio del Re nel tempo ch’io stava nell’Accademia. L’eduDa gran tempo per lui Augusto amici; E chi amici non gli ha, gli sfida invano. Or che d’Antonio la fortuna è stanca, Or che d’Augusto mal conosco i sensi, Or che, tremante, inutil voti io formo, Nè 8Ò per chi; della futura sorte Fra i dubbj orror, sola smaniando, e in preda Ad un mortai dolor, che più sperare Mi lice ornai? tutto nel cuor mi addita, Che vinta son, che non si scampa a morte, E a morte infame. ISMENE. Non è tempo ancora Di disperare appien del tuo destino. Chi può saper, s’alle nemiche turbe Non avrà volto la fortuna il tergo; Ovver se Augusto vincitor pietoso A te non renderà quanto ti diero Un dì, Cesare, e Antonio. CLEOPATRA. Il cor nutrirmi Potrò di speme, allor che ben distinti ’ Ravviserò dal vincitore il vinto; EPOCA ’TERZA. CAP XV. a8* «azione nostra era perciò stata a un di presso 1775. consimile, ma egli dopo uscito di Paggio avea Ma in fin che ondeggia infra i rivai la sorte Trapasserò i miei dì mesti e penosi In vano pianto; e dì dolor non solo Io piangerò, ma.ancor di sdegno, e d’onta. Ma Diomede s’appressa;... il cuor mi palpita. SCENA SECONDA. DIOMEDE, CLEOPATRA, ISMENE. CLEOPATRA. Fedel Diomede, apportator di vita,. 0 di morte mi sei?... cke rintracciasti? Si compì il mio destin?.... parla. DIOMEDE. Regina, 1 cenni tuoi ad adempir n’andava, Quando scendendo alla marina in riva Vidi affollar l’insana plebe al porto; Confuse grida udii, s’eran di pianto, r Di gioja, o di stupor, nulla indagando, V’andai io stesso, e la cagion funesta» Di tal romor, purtroppo a me fu nota. Poche, sdruscite, e fuggitive navi, Miseri avanzi dell’audaci squadre, a8a VITA DI VITTORIO ALFIERI.

  • 77^ costantemente poi applicato alle lettere si Italiane

che Francesi, ed erasi formato il gusto, massimamente nella parte critica filosofica, e non grammaticale. L’acume, grazia e leggiadria delle di lui osservazioni su quella mia infelice Cleopatra farebbero ben bene ridere il lettore, se io avessi il coraggio di mostrargliele; ma elle mi scotterebbero troppo, e non saEran l’oggetto de’perversi gridi Del basso volgo, che schernisce ognora Quei, che non teme. CLEOPATRA. E in esse era vi Antonio? niOMEDE. Canidio, Duce alla fuggiasca gente Credea trovarlo &c. &c. E su questo andare proseguiva tutta luterà, piuttosto lunghetta, essendo di versi 1641. Numero al quale poi non sono quasi mai più arrivato nelle susseguenti Tragedie che ho scritte sino in venti, allorché forse mi trovava poi aver qualcosa più da dire. Tanto vagliano per V esser breve i mezzi del potet dire in un modo piuttosto che in un altro. EPOCA TERZA. CAP. XV. *83 rebbero anche ben intese, non avendolo rico- «775. piato che i soli primi primi 40 versi di quel secondo aborto. Trascriverò bensì la di lui letterina con la quale mi rimandò le postille, e basterà a farlo conoscere. Io frattanto avea aggiunta una Farsetta, che si reciterebbe immediatamente dopo la mia Cleopatra; e la intitolai LETTERA D£L CONTE AGOSTINO TANA. Aristarco all’Autore.. Voi m’avete scelto per lo vostro Aristarco,io contraccambio l’onore che m’avete fatto, col non ricusarlo. Preparatevi dunque alla, più severa ìnesorabil censura; e quale pochi hanno il coraggio di farla, pochissimi di soffrirla. lo sarò fra ì pochi, e (v>i fra i po*ehissimi annoverato. La Plebe lettéraria, lusinghiera, mendace, e tracotante, non è avvezza certamente a comportarsi in simil guisa: presenti, si lodano senza ritegno; lontani, si biasimano, e si tradiscono senza rossore. Tal cosa non potrà accadere giamataì fra l’amico Censore, e V autore di questa Tragedia.

  • 84 VITA DI VITTORIO ALFIERI.

1775. I poeti. Per dare anco un saggio della mia incompetenza in prosa, ne trascrivo uno squarcio. I POETI, COMMEDIA IN UN ATTO, RECITATA NEL TEATRO STESSO, UOPO LA CLEOPATRASSA. SCENA PRIMA. ZEUSIPPO. (a) Ah mìsero Zeusippo-! e a che ti serve di esserti nell’accademia degli stupidi alteramente denominato, il Sofoclèo, mentre si avvicina l’ora in cui ti sarà forse barbaramente discinto il coturno? io sudo e gelo nel pensare all’esito della mia povera tragedia. Ma che diavolo di capriccio fu. questo, di voler balzare d’un salto in cima al Parnasso, e scrivere il poema il più difficile a ben eseguirsi, prima quasi.d!aver finito d’imparare gli elementi grammaticali della toscana favella? ardir veramente poetico. - Ma queste riflessioni bisognava farle avanti; ora son tarde, e ridicole. - Eppure («) Solo. EPOCA TERZA. CAP. XV. a85 Nè la Farsetta però, nè la Tragedia, erano le sciocchezze d’uno sciocco; ma un qualche lampo e sale quà e là in tutte due traluceva. Nei non mi posso far animo, e tremo come se avessi fatto una bricconeria; ma è meglio assai di farla, che di scrivere una cattiva tragedia. Non tutti i bricconi tremano; è vero poi, che nè anche tutti i cattivi poeti. Zeusippo, segui tracotante le orme dei poetastri, e se spiacerà la tragedia concludi ad esempio loro, che il Pubblico non ha gusto, non ha discernimento; che giudica per invidia; e che tu sei un eccellente poeta. - Muse, castissime, benché da tanti profanate; biondo Apollo, la di cui cetra è assai miglior della mia; orgoglioso Pegaso, che si sovente inciampi quando sei carico dal soverchio peso d’un cattivo cavalcatore; tu che sì raramente spieghi per noi le tue ale per innalzarti a volo: tutti, tutti v’imploro in queste penosissime circostanze. Affascinate gli occhi e gli orecchi de’spettatori, si che l’infelice Cleopatra appaja loro degna almeno di compassione. - Ma voi, barbare Deità, sorde vi mostrate: io vi abbandono, non fo più ver‘ si; siete troppo ingrate: dirò del male di voi;

  • 86 VITA DI VITTORIO ALFIERI.

1775. Poeti aveva introdotto me stesso sotto il nome di Zeusippo, e primo io era a deridere la mia Cleopatra, la di cui ombra poi si evocava dall’infarò un madrigale; disonorerò tutta la ’vostra famiglia: trema’te: Apollo al par di me tristo, e meschino Dal cielo in bando, esule, e ramingo Ti festi pastorello, poverino, In Tessalia d’Admeto; e ognor solingo Non ne sapesti pur serbare il gregge;. Te l’involò Mercurio te l’involò Mercurio;.... te l’involò Mercurio.... ■diavolo, la rima in egge m’è mancata, e la npn vuol venire. Va, che sei felice, A]iollo; che se la rima veniva.... SCENA SECONDA. ORFEO, ZEUSIPPO. ORFEO. Amatissimo Zeusippo, che fai? mi par che tu sii turbato. Sempre nuovi pensieri, •h? componi, componi.... ^ ZROSIPPO. - Signor Orfeo straccione, la no* mi corbelli. lo già ho rinunziato alla poesia; • sta-* EPOCA TERZA. CAP. XV. *87 forno, perch’ella desse sentenza in compagnia *7?** d’alcune altre Eroine da Tragedia, su questa ro facendo qualche rime per vendicarmi d’Apollo; e poi finisco; non ne vo’più sapere. ORFEO. Farete male, male assai. E qual disgrazia v’obbliga a rotolar dal Parnasso? La vostra tragedia credo avrà un ottimo successo. Ho visto moltissima gente affollarsi all’entrata: questo è buon segno. Io ci sarei andato pure,

  • e mi aveste regalato il viglietto; ma ve ne siete

scordato. Eppure vi avrei potuto giovar molto, col battere delle mani a proposito, coll’esclamare con entusiasmo; Oh che bella parlata! Che scena! Che sentimenti! Siccome ho ancor io ( non fo per dire) un qualche grido nella letteraria repubblica, quei pochi •ciocchi che mi avrebbero circondato, avrebbero anch’essi caldamente applaudito; e forse, forse.... ZEUSIFPO. Nò, caro Orfeo; questi son mezzi troppo vili; c, dovendovi regalare, amico, non vi darei un viglietto d’ingresso; non avete bisogno di pascervi lo spirito; sono altre necessità più

  • 88 VITA DI VITTORIO ALFIERI.

1773. mia composizione paragonata ad alcune altre tragediesse di questi miei rivali poed, le quali essenziali a noi poeti; e se fossi ricco, ricompenserei in altro modo la vostra sviscerata amicizia. Ma, credete, che pur troppo l’ingegno non fà fortuna; e nel vederci accoppiati, chiunque ci prenderebbe per la Discordia e l’Invidia, quali si dipingono dai poeti e pittori. Ah duro mestiere in vero è quello, che noi pratichiamo. Come fate voi, Orfeo, per aver una faccia così allegra e giojosa? credo, che nè il Tasso, nè il Petrarca, nè alcun altro fra i più celebri poeti d’Italia, avessero mai un viso un portamento così altero, e cosi contento di sè medesimo. Io all’incontro poi, pallido, smunto, macilento, ed egro, porto scritti in fronte tutti i più funesti attributi della poesia infelice. ORFEO. Questo a voi stà benissimo. Così dev’essere il poeta tragico; sempre pensieroso, guardar bieco, trattar la fame eroicamente; lodar poco, o di nascosto; domandar mercede nelle dedicatorie; scegliere i più alti Signori per indirizzarli i suoi componimenti, sì perchè me EPOCA TERZA. CAP. XV. *89 in tutto le poteano ben essere sorelle: col di- 1775. vario però, che le tragedie di costoro erano no degli altri gli intendono, sì perchè più. d’ogni altro si mostrano generosi. Io all’incontro, devo aver faccia di Lirico, e questa dev’essere gioviale, allegra, ridente, sardonica, ma non pingue,perchè non sarebbe poetica. Io con un sonetto mi rendo amico un innamorato sciapito che vuol lodar la sua Diva, ma che disgraziatamente non ha imparato nei suoi primi anni a leggere. Io con un epitalamio m’invito destramente ad un convito di nozze, e colà poeticamente mi sfamo per parecchi giorni. Io con un madrigaletto, con un epigramma, che sò io, con altre simili bagatelle, mi vò procurando giorni felici, riputazion mediocre; e dal mio basso inalzo ridendo gli sguardi temerarj sino alle più alte piume del cimiero de’tragici, e non li invidio. ZEUSIPPO. Ah, non insultate così il coturno. Io, non volendo abbandonar la poesia,preferirei di gran lunga il morir di fame in compagnia de’miei attori al quint’atto di una mia mediocre tragedia, all’arricchirmi componendo madrigali, e 290 VITA DI VITTORIO ALFIERI.

  • 775 state il parto maturo di una incapacità erudita,

e la mia era un parto affrettato di una igno-» ranza capace. sonettiMa qualcuno si appressa: io tremo di bel nuovo. Oh cielo! vien l’emulo Leone; egli ha un’aria soddisfatta; la Cleopatra non è piaciuta; io son perduto. SCENA TERZA. LEONE, ZEUSIPPO, ORFEO. LEONE. Amici, oh che felice incontro! Zeusippo, vi ho ascoltato con molto piacere: dovevate trovarvi anche voi al teatro, avreste fatto sobbissar la platea dagli applausi. Z EUSiPPO. Via, signor Leone, voi mi dite troppo; non vi credo; e non ho ancora il viso bastantemente sciacquato da Ippocrene, per presentarmi al pubblico senza arrossire: credo sarei morto d’affanno, se io mi trovava alla rappresentazione. LEONE. Eh, che rossore? questo non è color poetico; scacciate coteste fanciullesche imaginazio EPOCA. TERZA CAP. XV. *91 Furono queste due composizioni recitate 1715, con applauso per due sere consecutive; e richieste poi per la terza, essendo io già ben ravveduto e ripentito in cuore di essermi si temerariamente esposto al pubblico, ancorché mi si mostrasse soverchio indulgente, io quanto potei mi adoprai con gli attori, e con chi ni. Componete, rappresentate voi stesso, seguite gl’impulsi del genio Febeo, e non arrossite mai. ZE USIPPO. Seguirò il consiglio, che voi mi predicate ancor più. efficacemente con l’esempio, che colle vostre lusinghiere parole. Ma,alle corte; noi due ci corbelliamo l’un l’altro: siamo entrambi poeti, tragici entrambi, entrambi forse cattivi: noi non ci possiamo amare,potressimo però giovarci vicendevolmente, se volessimo francamente parlare l’uno dei componimenti deiraltro;e ciò, con quella pietosa fratellevole discrezione, che sogliono aver fra di loro gli autori &c. &c. E basta; perchè non ce n’entra più: e perchè troppo ce n’è entrato fin qui. 292 VITA DI VITTORIO ALFIERI. ’775 era loro superiore, per impedirne ogni ulteriore rappresentazione. Ma, da quella fatai serata in poi, mi entrò lìi ogni. vena un si fatto bollore, e furore di conseguire un giorno meritamente una vera palma teatrale, che non mai febbre alcuna di amore mi avea con tanta impetuosità assalito. In questa guisa comparvi io al publico per la prima volta. E se le mie tante, e pur troppe, composizioni drammatiche in appresso non si sono gran fatto dilungate da quelle due prime, certo alla mia incapacità ho dato principio in un modo assai pazzo e risibile. Ma se aH’incontro poi, verrò quando che sia annoverato fra i non infimi autori si di Tragedie che di Commedie, converrà pur dire, chi verrà dopo noi, che il mio burlesco ingresso in Parnasso col socco e coturno ad un tempo, è riuscito poi una cosa assai seria. Ed a questo tratto fo punto a questa epoca di giovinezza, poiché la mia Virilità non poteva da un istante piò fausto ripetere il suo cominciamento.

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