< Vita di Dante < Libro II
Questo testo è incompleto.
Capo Sesto - Malaspina. La morte di Corso Donati. L'Inferno ricominciato e finito.
Libro II - Capitolo V Libro II - Capitolo VII


CAPO VI

_____


i malaspina. la morte di corso donati
l'inferno ricominciato e finito.




(Ottobre 1306-1308)





O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
INF. II


La Lunigiana era ab antico come una sorta di terra neutra, consueta dimora a confino o rifugio dei fuorusciti fiorentini d’ogni parte. Già vedemmo confinativi Guido Cavalcanti e gli altri Bianchi, durante il priorato di Dante; vedremvi esulare Uguccione della Faggiola; ed è noto, dopo la gloria del loro gran pronipote, che ab antico vi si stabilirono esuli pur di Firenze i Bonaparte1. Chi sa se Guido Cavalcanti non aveva ricevute già tali accoglienze dai Malaspina, da trarre ora l’amico di lui al medesimo rifugio? Ad ogni modo, da Padova alle terre di Franceschino Malaspina di Mulazzo in Lunigiana, presso cui ritroviamo Dante, niun’altra via gli era quasi aperta tramezzo alle guelfe Ferrara e Bologna, se non per Mantova e Parma, città ghibelline2; ondeche non si può dubitare che passasse per esse. E perchè, poi, in Mantova era principale Francesco de’ Buonaccolsi, cognato di Giberto da Correggio signor di Parma, cognato questo di Franceschino, potrebbesi credere che Dante fosse onorevolmente raccomandato dall’uno all’altro di questi congiunti.

Ed ora, traendoci l’argomento, ci convien dire di questa famiglia de’ Malaspina, la più onorata che sia dalla immortal gratitudine di Dante. Poco importa qui com’ella vanti comune l’origine con gli Estensi e i Pelavicini, dagli antichi marchesi di Toscana de’ secoli X ed XI; e come al fine del XII, ella si partisse in due rami, detti dello spino fiorito e dello spino secco3. Questo e il solo di che abbiamo a parlare; e vi è primo per noi osservabile un Corrado detto l’antico, gran guerriero, e signor di Lunigiàna al principio del secolo XIII; poi un Corrado II, figlio d’un figliuolo dell’antico, buon guerriero ancor egli e signor liberale, il quale ospitò quella Madonna Beritola e i Capece suoi figliuoli, di che narra così gentilmente il Boccaccio4. Corrado II diede, poi, la vezzosa Spina, unica figliuola sua, al primogenito di que’ fratelli5, e morì prima del 1300, senz’ altri eredi maschi. Ma altri numerosi discendenti rimanevano di Corrado l’antico; fra’ quali a noi importano principalmente un altro nipote di lui, Franceschino; e i due pronepoti, fratelli l’ un dell’altro, Moroello e Corradino, figli di Obiccino, e, come francescamente si direbbe, nipoti alla moda di Bretagna di Franceschino6. Ora, questi tre, zio e nepoti, sono quelli di cui trovasi Dante ambasciadore ed ospite; quelli, poi, che ospitandolo, procacciarono con tal liberalità alla loro schiatta un’illustrazione più divulgata e più nazionale, che non qualunque altra lor venuta dalle ricchezze, dalla potenza, o dalle stesse virtù politiche, nautiche o guerriere.

Un atto, od anzi due atti autentici ci restano della legazione di Dante. "Dice il primo: Il magnifico signore Franceschino marchese Malaspina fece suo procuratore Dante Alegeri di Fiorenza, a ricevere e dar la pace da farsi tra il venerando padre il signor don Antonio vescovo di Luni da una parte, e il signor Franceschino in nome proprio, e di Moroello e Corredino fratelli marchesi Malaspina, dall’altra parte; ed a promettere, che il signor Franceschino detto procurerà la ratifica del detto signor Corredino per sè e li suoi fratelli". Segue il secondo: "Nel 1306, addì 6 ottobre, all’ora terza, fu fatta la pace tra il venerabile padre il signor don Antonio vescovo per una parte, e Franceschino marchese Malaspina, e Corradino del fu Obizzino marchese Malaspina, e ancora Moroello marchese Malaspina, che il detto Franceschino procurerà indurre alla ratifica. » Dai quali due atti di procura e di pace si vede: 1° che Franceschino fu il primo de’ Malaspina ospite di Dante, e quello che il fece conoscere agli altri, i quali non erano nemmeno presenti al primo atto di procura, anteriore al 6 ottobre: 2° che alla conchiusione della pace in questo dì, fu sì presente Corradino, non il fratello di lui Moroello: 3° che con questo, poi, ebbe Dante per tutto ciò, e per la ratifica da procacciarsi e che fu forse procacciata da esso, un’occasione di strignere conoscenza, ed anzi famigliarità ed amicizia; ondeche, trovando noi memorie di tal’amicizia di Dante con un Moroello Malaspina, non sembra da dubitare punto, che fosse con questo.

Solenne memoria abbiamo, poi, di tale amicizia dal primo e sempre il più autorevole biografo e commentatore di Dante, dico il Boccaccio; il quale, e nella Vita di Dante da lui scritta in sua gioventù, e nel Commento della Commedia da lui scritto in vecchiezza, due volte coi medesimi particolari narra, come l’abbozzo del Poema, anzi precisamente de’ sette primi Canti, ritrovato cinque anni dopo l’esilio, e così nel 1307, in Firenze, fosse mandato a Dante, ospite del marchese Moroello. Così, non è, per vero dire, altra particolarità della vita di Dante meglio documentata e più conforme a quanto altro si sappia di lui; massimamente se s’intenda, che questo abbozzo ritrovato e mandato, fosse l’abbozzo latino; il quale Dante, caldo ancora de’ suoi studii e delle sue lodi dell’idioma volgare, s’accinse tosto a volgere, o, meglio, a riscrivere in questo. "È da sapere, che Dante ebbe una sorella, la quale fu maritata ad uno nostro cittadino chiamato Leon Poggi, il quale di lei ebbe più figliuoli. Fra’ quali ne fu uno di più tempo che alcuno degli altri, chiamato Andrea, il quale maravigliosamente nelle lineature del viso somigliò Dante, ed ancora nella statura della persona; e così andava un poco gobbo, come Dante si dice che faceva. E fu huomo idioto, ma d’assai buon sentimento naturale, e ne’ suoi ragionamenti e costumi ordinato e laudevole. Dal quale, essendo io suo domestico divenuto, io udii più volte de’ costumi e de’ modi di Dante; ma tra l’altre cose che più mi piacque di riservare nella memoria, fu ciò ch’ esso ragionava intorno a quello di che noi siamo al presente in parole. Diceva, adunque, che essendo Dante della setta di messer Vieri de’ Cerchi ed in quella quasi uno dei maggiori caporali, avvenne, che partendosi messer Vieri di Firenze con molti degli altri suoi seguaci, esso medesimo si partì e andòssene a Verona. Appresso la qual partita, per sollecitudine della setta contraria, messer Vieri e ciascun altro che partito s’era, e massimamente de’ principali della setta, furono condennati, siccome ribelli, nell’avere e nella persona; e tra questi fu Dante: per la qual cosa seguì, che alle case di tutti fu corso a remore di popolo, e fu rubato ciò che dentro vi si trovò. E vero che, temendosi questo, la donna di Dante, la quale fu chiamata Madonna Gemma, per consiglio d’alcuni amici e parenti, aveva fatti trarre della casa alcuni forzieri con certe cose più care, e con iscritture di Dante, e fattili porre in salvo luogo. Ed oltre a questo, non essendo bastato aver le case rubate, slmilmente i parziali più possenti occuparono chi una possessione e chi un’altra di que’ condennati; e così furono occupate quelle di Dante. Ma poi, passati bene cinque anni o più, essendo la città venuta a più convenevole reggimento, che quello non era quando Dante fu condennato, dice, le persone cominciarono a domandare loro ragioni, chi con un titolo e chi con un altro, sopra i beni stati dei ribelli, ed erano uditi. Perchè fu consigliata la donna, ch’ella, almeno con le ragioni delle doti sue, dovesse de’ beni di Dante raddomandare. Alla qual cosa disponendosi ella, le furon di bisogno certi strumenti e scritture, le quali erano in alcuno de’ forzieri ; li quali ella, in sulla furia del mutamento delle cose, aveva fatti fuggire, nè poi mai gli aveva fatti muovere del luogo dove deposti gli aveva. Per la qual cosa, diceva quest’Andrea, ch’essa aveva fatto chiamare lui, siccome nepote di Dante; e fidategli le chiavi de’ forzieri, l’aveva mandato con un procuratore a dover recare delle scritture opportune; delle quali mentre il procuratore cercava, dice, che avendovi più altre scritture di Dante, tra esse trovò più Sonetti e Canzoni, e simili cose. Ma tra l’altre che più gli piacquero, fu un quadernetto nel quale di mano di Dante erano scritti i precedenti sette canti; e però, prèsolo e recàtosenelo, ed una volta e l’altra riléttolo, quantunque poco ne intendesse, pur diceva gli parevano bellissima cosa; e però diliberò doverli portare, per sapere quello che fossero, ad un valente huomo della nostra città, il quale in quelli tempi era famosissimo dicitore in rima, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio Frescobaldi, il qual Dino, essendogli maravigliosamente piaciuti, e avendone a più suoi amici fatta copia, conoscendo l’opera piuttosto iniziata che compiuta, pensò che fossero da dovere rimandare a Dante, e di pregarlo che, seguitando il suo proponimento, vi desse fine: ed avendo investigato e trovato, che Dante era in quei tempi in Lunigiana con uno nobile huomo de’Malaspini, chiamato il marchese Moroello, il quale era huomo intendente, ed in singolarità suo amico, pensò di non mandarli a Dante, ma al marchese, che glieli mostrasse; e così fece, pregandolo che, in quanto potesse, desse opera o che Dante continuasse l’impresa, e, se potesse, la finisse. Pervenuti, adunque, li sette canti predetti alle mani del marchese, ed essendogli maravigliosamente piaciuti, li mostrò a Dante; ed avendo avuto da lui, che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare la impresa. Al qual dicono che Dante riprese : Io estimava veramente che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero nel tempo che rubata mi fu la casa, perduti; e però del tutto avea l’animo e ’l pensiero levato. Ma poichè a Dio è piaciuto che perduti non sieno, ed hàmmegli rimandati innanzi, io adopererò ciò ch’io potrò di seguitare la bisogna secondo la mia disposizion prima. E quinci, rientrato nel pensiero antico, e reassumendo l’intralasciata opera, disse in questo principio del canto ottavo: ’l dico seguitando, alle cose lungamente intralasciate. Ora, questa istoria medesima puntualmente, quasi sanza alcuna cosa mutarne, mi raccontò già un ser Dino Perini, nostro cittadino ed intendente huomo, e, secondo che esso diceva, stato quanto esser più si potesse familiare ed amico di Dante: ma in tanto muta il fatto, che esso diceva, non Andrea Leoni, ma esso medesimo essere stato lui il quale la donna avea mandato a’ forzieri per le scritture, e che avea trovati questi setti canti, e portatili a Dino di messer Lambertuccio. Non so a quale io mi debba più fede prestare; ma qual che di questi due si dica il vero o no, mi occorre nelle parole loro un dubbio, il quale io non posso in maniera alcuna solvere che mi soddisfaccia; ed il dubbio è questo. Introduce, nel sesto Canto, l’autore Ciacco e fagli predire: come, avanti che il terzo anno dal dì ch’egli dice finisca, conviene che caggia dello stato suo la setta della quale era Dante; il che così avvenne. Perciocchè, come detto è, il perdere lo stato la setta Bianca, ed il partirsi di Firenze, fu tutto uno; e però, se l’autore si partì all’ ora premostrata, come poteva egli avere scritto questo? e non solamente questo, ma un Canto più?". Alla quale sola difficoltà ( imperciocchè, avendo potuto essere mandati amendue insieme, o l’uno dopo l’altro ai forzieri, il Poggi e il Perini, il vanto che se ne davano tutti e due non fa una seconda difficoltà) già è risposto per noi, che teniamo questi Canti trovati essere stati i Latini; non certo poi tradotti parola per parola , che ciò noi consente di niun modo la natura, l’ingegno, il genio di Dante; ma liberamente rivolti in volgare, e in tal rivolgerli mutati ed accresciuti. E certo, vedremo poi, che non il solo episodio di Ciacco, ma tutta l’allegoria del Poema ne’ primi Canti non può essere stata scritta prima dell’esilio, in Firenze. Adunque, ai Malaspina, e particolarmente a Moroello, dovette Dante e que’ conforti, che non sono inutili nemmeno ai più spontanei scrittori, a riprendere tutto il Poema, e il rifugio in che scrisse, forse tutta, certo gran parte della prima Cantica dell’ Inferno. E perchè, poi, ad uomo che scriva, niun benefizio maggiore si può fare che dargli tal pace confortatrice, Dante si mostrò grato di questo più che d’ogni altro benefizio; e non solo lodò i Malaspina senza que’ veli e quelle restrizioni o quelle disdette che usò più o meno con tutti gli altri lodati; ma per non guastare tale onoranza lor fatta, ei si trattiene da ogni vituperio a qualunque persona ad essi, più o meno, appartenente. Ed anche noi partecipi al benefizio del Poema definitivamente ricominciato, dobbiamo con piacere partecipare alla gratitudine. Introduce Dante nel Purgatorio il secondo Corrado Malaspina tra una qualità di peccatori i meno odiosi; posciache per ciò solo sono ivi, che distratti dalle signorie, differirono a pentirsi. Chiamato Corrado dal gentile giudice Nino di Gallura, amico di Dante, a questo guarda tacendo prima a lungo, e poi gli dice:

Se la lucerna che ti mena in alto,
Truovi nel tuo arbitrio tanta cera,
Quant’è mestiere infin al sommo smalto,
Cominciò ella, se novella vera
Di Valdimagra o di parte vicina
Sai, dilla, a me, che già grande là era.
Chiamato fui Currado Malaspina;
Non son l’antico, ma di lui discesi:
A’ miei portai l’amor che qui raffina.
O, diss’io lui, per li vostri paesi
Giammai non fui; ma dove si dimora
Per tutta Europa, ch’ei non sien palesi?
La fama, che la vostra casa onora,
Grida i signori, e grida la contrada,
Si che ne sa chi non vi fu ancora.
Ed io vi giuro, s’io di sopra vada,
Che vostra gente onrata non si sfregia
Del pregio della borsa e della spada.
Uso e natura sì la privilegia,
Che, perchè il capo reo lo mondo torca,
Sola va dritta, e ’l mal cammin dispregia.
Ed egli: or va, ch’il sol non si ricorca
Sette volte nel letto che ’1 montone
Con tutti e quattro i pie cuopre ed inforca,
Che cotesta cortese opinione
Ti fia chiavata in mezzo della testa
Con maggior chiovi che d’altrui sermone,
Se corso di giudicio non s’arresta.

PURG. VIII. 112-159.


Certo, non poteva mai più Dante aggiugner nulla a così vive e tenere lodi; ma egli fece forse più altrove, trattenendosi dall’ira. Oltre ai tre Malaspina che abbiamo veduti più o meno ospiti ed amici di Dante, Franceschino, Corradino e Moroello, ed oltre ad altri numerosi di tal famiglia a noi non importanti, era, e per vero dire più famoso allora che non tutti questi, un altro Moroello, nipote ancor egli di Corrado l’antico, e così cugino germano del Franceschino, e zio alla moda di Bretagna del Corradino e del Moroello di Dante. Era guerriero illustre, ma tra’ Guelfi; a differenza del restante di sua famiglia, che sembra ab antico ed allora essere stata per la maggior parte ghibellina. Tanto che, questo Moroello lo zio, dopo parecchie fazioni guelfe in Lunigiana ed un capitanato in Milano, fu nel 1301 fatto capitano de’ Lucchesi e di tutta la lega de’ Neri ; a capo della quale egli fu che, nella state del 1302, die a’ Bianchi fiorentini ne’ campi Piceni presso a Pistoja una gran rotta, che precedette di poco e agevolò la rivoluzione fatta da messer Corso Donati e da Carlo di Valois in Firenze. Nè bastò ciò, ma ultimamente, nel 1306, egli era stato di nuovo questo Moroello lo zio, che avea ricondotta la lega Nera (compresavi ora Firenze) contro la nemica Pistoja; egli che l’avea presa pe’ Lucchesi, egli che n’era rimasto primo podestà dato dagli alleati. Vedesi quindi che se niuno mai fece danno a Dante, e doveva chiamare a sè l’ira di lui , e massime in un luogo dove rammenta la rotta de’ suoi ne’ campi Piceni, certo era questo Moroello. E tuttavia, con parole moderate, e quasi ammiratrici, trovasi rammentato nella feroce predizione di quel fatto gettata a Dante in Inferno dal ladro Vanni Fucci, furioso d’essere stato veduto e riconosciuto:

Ma perchè di tal vista tu non godi,
Se mai sarai di fuor de’ luoghi bui,
Aprì gli orecchi al mio annunzio, ed odi:
Pistoia in pria di Neri si dimagra;
Poi Firenze rinnova genti e modi.
Tragge Marte vapor di Valdimagra,
Ch’è di torbidi nuvoli involuto,
E con tempesta impetuosa ed agra
Sopra campo Picen ha combattuto;
Ond’ei repente spezzerà la nebbia,
Si ch’ogni Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ho perchè doler ten debbia.

INF. XXXIV. 140-151

Finalmente, era questo Moroello lo zio, il vapor di Valdimagra, marito da parecchi anni di Alagia de’ Fieschi di Genova; una famiglia che avea dati alla Chiesa due papi, l’ultimo dei grandi Innocenze IV, e poi Adriano V, seduto pochi mesi del 1266. Dante, nemico de’ papi, de’ quali niuno grande introduce mai nelle tre Cantiche, introduce Adriano nel cerchio degli avari nel Purgatorio; e con esso conversando poi, non brevemente, ma più moderatamente che al solito, è da lui congedato così:

Vattene omai; non vo’ che più t’arresti;
Che la tua stanza mio pianger disagia,
Col qual maturo ciò che tu dicesti.
Nipote ho io di là ch’ha nome Alagia,
Buona da sè, pur che la nostra casa
Non faccia lei per esempio malvagia;
E questa sola m’è di là rimasa.

Purg. XIX. 139-145

La qual menzione non necessaria là, ma evidentemente cercata ad onore, non può non far pensare, che anche con questa marchesa Malaspina, e forse collo stesso marito di lei Moroello, il Vapor di Valdimagra, avesse Dante famigliarità ed amicizia; potendo forse più che lo spirito di parte, in uno la liberalità nativa di quel sangue, e nell’altro la larghezza di sua gratitudine a tutta quella schiatta. Ma non si confonda mai, come altri fece, questo Moroello di Manfredi, lo zio e il Vapor di Valdimagra, col nipote di lui Moroello d’Obizzino, per cui Dante firmò la pace del 1306, presso cui ospitava e scriveva il Poema nel 1307, mentre lo zio era podestà di Pistoja. Quanto poi alla dedica del Purgatorio, che vedremo fatta da Dante a un Moroello Malaspina, dubiti chi vuole tra i due, allegando in pro dello zio, essere stato più illustre: io sto pel nipote, allegando che le dediche d’un Dante non sogliono farsi al più illustre, ma al più caro, al più benefattore; e che tale fu a lui più probabilmente il nipote. Ma prima di vedere il séguito de’ casi di Dante, rivolgiamoci a quelli intermediarii d’Italia e Firenze. Scoppiò nel 1307 la guerra preparata l’anno innanzi; guerra insueta del cardinal legato Napoleone Orsini a capo de’ Ghibellini e Bianchi, seguiti da Scarpetta degli Ordelaffl’ capitano de’ Ghibellini di Romagna, e da Federigo Feltrio, contra Firenze, sempre capo de’ Guelfi puri o Neri, ajutata da Bologna, Lucca e Siena. Raccoltisi i Pontificii Ghibellini ad Arezzo, mossero quindi contro i Fiorentini fino a Bibbiena; dove rimasti qualche tempo in presenza, si ritrassero verso 11 fine dell’anno, prima i Fiorentini poi i Pontificii, o sbigottiti gli uni degli altri, o per trattare. Ma i trattati non riuscirono a nulla più che le armi; e il cardinale se ne tornò senza frutto a corte, come dicevasi allora, e non era più quella di Roma, ma della Babilonia oltremontana. E Cosi rimasero, il Papa mal contento del suo legato, e gl’Italiani tutti mal contenti di lui; i Guelfi, come di nemico naturale e così traditore; i Ghibellini, come di amico nuovo, molle, e fors’anch’essi come di traditore.

Le condizioni e i travagli d’Italia in sul finir del 1307 e il principio del 1308, si trovano così ben descritti con mira a Dante e a quanti entrano nella vita di lui, da uno de’ biografi, che questi mi perdonerà, e i lettori mi saranno grati di trovar qui quella descrizione che non saprei pareggiare. "Partito il cardinal degli Orsini, la guerra tacque in Toscana, e continuò per alcun tempo in Romagna; donde s’apprese d’intorno intorno al Ferrarese, al Parmigiano ed alla Liguria. Guido III da Polenta già vecchio, e il decrepito Malatesta di Verucchio aveano lasciato il peso dei pubblici affari, l’uno ai suoi figli Bernardino ed Ostasio, l’altro al crudele Malatestino dell’Occhio. Ferocemente questi nuovi signori odiavano gli Ordelaffi, ed erano gelosi fra loro. La morte d’Azzone VIIi di Este, cui Dante di molti vizi ed accusa e deride, accese fra i sucessori di lui cotanto fiera discordia, che alcuni fra essi posero Ferrara in potestà di Clemente V e della Chiesa romana. Giberto di Correggio, vinto dai Guelfi ai quali era stato infedele, fu costretto ad uscire di Parma coi Ghibellini. Mantova era il più fidato rifugio di costoro, grazie ai Buonaccolsi. Can Grande pervenuto all’anno decimosettimo, con solenne pompa era chiamato a parte del governo di Verona da suo fratello Alboino; l’altro loro fratello Giuseppe reggea la badìa di San Zeno, inteso unicamente a darsi piacere, o ad arricchire i due suoi figli naturali, Bartolammio ed Alberto. Signoreggiavano in Genova Branca Doria ed Opicino Spinola; e frequente incursione contro essi facevano gli esuli Fieschi, parenti di Alagia Malaspina. In questo mentre morì Alberto d’Austria imperatore trafitto da un suo nipote; ciò che accrebbe il rigoglio alle fazioni d’Italia. Franceschino Malaspina rapido corse in aiuto del cognato Gilberto, e il rimise in Parma; meno avventurosi gli altri suoi congiunti del Fiesco assaltarono Genova, e furono aspramente percossi dallo Spinola e da Branca Doria. Intanto i Romagnuoli con miglior consiglio tornarono alla pace interrotta dalla spedizione del cardinal degli Orsini. Bologna, Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Rimini e Bertinoro spettatrici della guerra che ardea fra gli Estensi a cagion di Ferrara si congiunsero nuovamente con amichevoli patti; e Scarpetta degli Ordelaffi cessò dall’ufficio di capitano"7. Dopo i quali eventi, non un mese andò, e ne successe un altro anche più importante nella sempre inquieta Firenze or divisa tra Messer Corso Donati co’ grandi da una parte, e Rosso della Tosa co’ popolani dall’altra. Così ne narra il Villani:A messer Corso et suoi seguaci, pareva essere male trattati degli honori et uffìcii, parendo loro essere più degni, però ch’erano stati principali ricoveratori dello stato de’ Neri et principali cacciatori della parte Bianca. Ma per l’altra parte si disse, che messer Corso si voleva fare signore della città et non volea essere compagnone. Quale si fosse il vero della cagione, l’altra parte che reggea il popolo l’haveano in odio et a sospetto, da poi s’era imparentato con Uguccione della Fagiuola Ghibellino, et nemico del comune di Firenze; et ancora il temeano conosciendo il suo grande animo, et seguito, et potere, dubitando di lui, che non levasse loro lo stato et cacciasseli della terra; et massimamente perchè trovarono che ’l detto messere Corso havea fatta lega et giura col detto Uguccione, mandato per lui et per li suoi seguaci. Per la qual cosa subitamente grande gelosia nacque nella città, et levossi il romore, et feciono sonare i priori la campana a martello, et fu tutta la città ad arme, a piede et a cavallo, et le masnade de’ Catalani col Maniscalco del re, ch’erano a posta di coloro che guidavano la terra. Et subitamente , com’ era ordinato per li sopradetti caporali, fu data una inquisitione ovvero accusa al podestà, ch’era alPhora messere Piero della Branca d’Agobio incontro al detto messere Corso, opponendogli come volea tradire il popolo e sottomettere lo stato della città, facendo venire Uguccione co’ Ghibellini et nemici del comune di Firenze. Et fatta la richiesta e datogli bando, condannato fu in meno processo; et fu condannato come rubello et traditore del suo comune, et incontanente mosso da casa i priori, il gonfaloniere della giustitia, col podestà, e capitano e esecutore con loro famiglie, e co’ gonfaloni delle compagnie col popolo armato e colle masnade a cavallo, a grido di popolo per venire alle case dove habitava messer Corso da santo Piero Maggiore. Messere Corso sentendo la persecutione, che li era mossa s’era asseragliato nel Borgo di san Piero Maggiore a piede della torre del Cicino et in Torcicoda alla bocca della via, che va in verso le Stinche, e alla via di san Brocolo con forti sbarre et con gente assai d’amici e di suoi consorti rinchiusi nel serraglio, et con balestra in suo servigio. Dissesi, che ciò fece per essere forte, attendendo Uguccione et sua gente, che n’era già giunti a Remolo. Il popolo cominciò a combattere i detti serragli da più parti; et messere Corso et suoi a difendersi francamente; et duroe la battaglia gran parte del dì, et fu a tanto che con tutto il podere del popolo, se ’l rinfrescamento della gente d’Uguccione et gli altri amici di contado invitati per messere Corso fossero giunti a tempo, il popolo di Firenze havea in quel dì assai a fare. Chè, perchè ’l comune et popolo fossono assai, erano male in ordine et non molto in accordo, perocchè a parte di loro non piacea. Ma sentendo la gente d’Uguccione, come messere Corso era assalito dal popolo, si tornò addietro, e’ cittadini ch’erano al serraglio cominciarono a partire, sì che messer Corso rimase con assai meno gente. In questo, certi del popolo ruppono il muro de! giardino incontro alle Stinche, et entrarono dentro con gran gente d’arme, et veggendo messere Corso et suoi che ’l soccorso d’ Uguccione era fallito, abbandonò le case et fuggì fuori della terra, le quali case dal popolo furono incontanente rubate e disfatte; et messer Corso et suoi perseguiti per alquanti cittadini a cavallo e Catalani mandati in prova che il pigliassono. Et per Boccaccio Cavicciuli fu giunto Gherardo Bordoni, il quale era stato et era della setta di messere Corso, et in uno picciolo fiumicello, ch’è nel piano di san Salvi, chiamato Affrico, l’uccise; et morto gli tagliò la mano, et conficolla nell’uscio di messere Tedice degli Adimari, per nimistà havuta con loro. Et messer Corso, tutto solo andandosene, fu giunto et preso di sopra alla villa detta Ravezzano da certi Catalani a cavallo; et menandolne preso a Firenze, come fu di costa a San Salvi, pregando quelli che ’l menavano, et promettendo loro molta moneta se lo scampassono, et i detti volendolne pur menare, siccom’era loro imposto da’ Signori di Firenze, messere Corso temendo di venire alle mani de’ suoi nemici et d’essere giustiziato dal popolo, essendo compreso forte di gotte nelle mani et ne’ piedi, si lasciò cadere da cavallo. I detti Catalani veggendolo in terra, l’uno di loro li diede d’una lancia nella gola uno colpo mortale; lasciollo per morto; i monaci del detto monistero il ne portarono nella detta badia di San Salvi; et diessi che, innanzi che morisse, si rimise nelle mani di loro in luogo di penitenza; et altri dissono che ’l trovarono morto, et l’altra mattina appresso fu seppellito con piccolo honore nella detta badia, et poca gente vi fu, per tema del Comune. Questo messere Corso fu il più savio, il più valente cavaliere, e il più bello parlatore, et meglio pratico, et di maggiore nominanza di grande ardire et d’imprese, che al suo tempo fosse in Italia. Fu bello della persona et di gratioso aspetto; ma molto fu mondano, et in suo tempo fece fare in Firenze molte commutazioni e scandali per avere stato et signoria, et però abbiamo fatto della sua fine sì lunga mentione, però che fu grande novità alla nostra città, e seguironne molte cose appresso, come per l’intendenti si potrà comprendere; et acciocchè sia esempio a quelli che hanno a venire". Il dì 15 settembre del 1308 fu il giorno della sciagurata morte di messer Corso. Della quale, all’incontro, traendo frutto presso i Ghibellini l’amico di lui Uguccione, fu pochi dì appresso fatto podestà d’Arezzo per la ottava volta8.

Che queste varie e rinnovate speranze fossero quelle che avean tratto Dante in sul finir del 1306 in Lunigiana, non parmi possa dubitarsi. Che pure il trattenessero ivi, o in altre parti all’intorno, duran.i questi due anni, è probabile del pari. Ma che avesse partecipazione attiva, egli che da più anni s’era fatto parte da sè stesso, e, gustate le dolcezze dello studio, era tornato tutto a quell’opera ch’era tanto sfogo del suo amore, e della sua ira, oramai; e che così in questi due anni egli parteggiando operasse, e a un tempo scrivesse; e compiesse, come certo fece, tutta la prima Cantica dell’Inferno; io confesso non solo che ne dubiterei, ma che lo direi impossibile, se impossibile si potesse dire qualunque sforzo d’attività e d’ingegno in un Dante. Quel biografo di lui e d’Uguccione, ond’io mai non mi scosto se non con timore, sulla fede degli storici di Forlì e la testimonianza da questi addotta d’antiche scritture or distrutte, e sulle reminiscenze di Romagna che trovansi continue ne’ canti XXVII-XXX dell’Inferno, non dubita di por Dante come segretario di Scarpetta degli Ordelaffi tra il 1307 e il 1308, fino all’agosto di quest’anno, che Scarpetta cessò dall’ufficio di capitano9. Che se insufficiente parrà l’argomento delle reminiscenze di Romagna, le quali si potrebbero attribuire alla prima dimora di Dante in quelle regioni, e se impossibili sono oramai a verificare quelle testimonianze documentate degli storici di Forlì, difficili elle sono pure a rigettare. E, insomma, ne risulta probabile almeno, l’aver Dante scritto in due anni l’Inferno tra i viaggi, le parti e i negozi, facendo o no da segretario, o come allor diceasi notario dell’Ordelaffi. Trovasi poi rammentato dal Boccaccio un secondo viaggio di Dante a Verona, che l’autor del Veltro non dubita di por quì negli ultimi mesi del 1308, prima del ritorno a Lunigiana10. Ma non vedendosi ragione di tal viaggio in quest’anni e da così lungi, si potrebbe anzi credere che fosse fatto l’anno precedente, e dalla vicinissima Padova.

Ad ogni modo, in Lunigiana o riportò compiuta o compiè la Cantica dell’Inferno in sul finire dell’anno 1308, o al principio del 1309, come fu arguito dal non vedere in essa niuna reminiscenza posteriore a quell’anno. E compiuto questo primo terzo di sua grand’opera, deliberò Dante partirsi non pur di Lunigiana, ma d’intorno a Firenze oramai, per lui non più sperata; d’Italia, da lui già tanto percorsa, che n’era o se ne credeva avvilito agli occhi degli Italiani. Erano le condizioni da parte ghibellina poco men che disperate per la mala riuscita dell’ultima congiura di messer Corso e d’Uguccione, della quale Dante, amico del secondo, parente del primo, fu probabilmente almeno conscio. La morte dell’uno, la ritirata dell’altro alla sua podesteria d’Arezzo, furono quelle probabilmente, che spegnendo del tutto le speranze del fuoruscito, lo spinsero a questo nuovo, ed a sè stesso aggravato, esilio oltramontano11. Aggiungasi che nell’imprender il Purgatorio da cui incomincia la parte teologica del poema, sentì il poeta la necessità di nuovi studi di tale scienza non mai o non bene fatti fin da allora da lui; e che la prima scuola di Teologia in Europa era allora in Parigi; e ne resterà spiegata meglio che al solito degli altri fattidi Dante questa partenza di lui, confermata del resto, come vedremo, dalla testimonianza del Boccaccio, dalle reminiscenze del Purgatorio e da quanto segue della vita di Dante.

"Colà dove la Magra maestoso fiume termina il corso, a destra della sua foce, si prolunga nel mare Monte Caprione, antico retaggio dei vescovi di Luni e dei Malaspina. La punta estrema del Monte Caprione chiamasi del Corvo, qui comincia il golfo di Spezia, un dì porto di Luni sulla deliziosa ligure spiaggia. Nelle altezze delle quali si corona quel golfo, frequenti appariscono i castelli ove imperavano gli Spinola, i Doria, i Fieschi ed i Malaspina. Intorno al Corvo il piccolo porto di Lerice da una parte fa vaga mostra di sè; dall’altra ergesi un monticello sulla Magra; su questo nel 1176 Pipino vescovo di Luni fondò il monistero di Santa Croce del Corvo. Nel principio del secolo XIV i Romitani di santo Agostino l’abitavano e frate Ilario era il priore. Oggi della chiesa non sopravvanza che il coro; i naufraghi vi appendono i voti12". A questo frate Ilario amico probabilmente d’Uguccione venne dunque Dante; e che ne seguisse poi è narrato in una lettera latina dello stesso frate ad Uguccione, la quale volgarizzata dice così:

"All’egregio e magnifico uomo messer Uguccione della Faggiola, tra’ grandi italiani molto eminente, fra Ilario umile monaco del Corvo alla foce della Magra salute in colui che è salute vera di tutti. Siccome il Salvator nostro evangelizza, l’uomo buono produce bontà dal buon tesoro del cuor suo; e in ciò son compresi due insegnamenti, cioè che noi dai fatti esteriori possiam conoscere l’interno altrui; e che per le parole nostre noi abbiamo a manifestare altrui il proprio interno. Imperciocchè sta scritto dal frutto loro voi li conoscerete; e benchè dicasi ciò de’ peccatori, lo possiamo intendere molto più universalmente dei giusti, essendo questi sempre mossi a mostrarsi, e quelli a nascondersi. Ne è solo il desiderio di gloria che ci muove a far fruttare fuori ciò che abbiamo di buono internamente, ma lo stesso comando di Dio ci proibisce di lasciar oziose le grazie che sieno a noi concedute.Imperiocchè Dio e la natura condannano l’ozio, e dannasi al fuoco quell’albero che nega frutte in sua stagione. Or questo che è qui detto della produzione dell’interno tesoro, da niuno italiano sembra essere stato sì bene osservato fin dalla puerizia, come da quest’uomo, la cui opera colle esposizioni da me fatte intendo qui indirizzarvi. Chè (secondo io intesi da altri ed è mirabile) già prima di sua pubertà tentò dir cose non più udite; e (più mirabile ancora) quelle cose che appena in latino si possono da’ migliori spiegare, egli si sforzò di chiarirle in volgare. In volgare dico, non semplice, ma musicale. E per lasciare le lodi di lui alle di lui opere, dove più chiare senza dubbio appariranno ai sapienti, io vengo brevemente al proposito.

Ecco dunque che intendendo quest’uomo d’andare alle parti oltramondane, e facendo transito per la diocesi di Luni13 sia per devozione al luogo, sia per altra cagione ei ne venne al detto monistero. Il quale avendo io veduto e sendo egli ancora a me ed a’ miei fratelli sconosciuto, l’interrogai che domandasse? E non rispondendo egli parola, ma pur guardando la costruzione del luogo, di nuovo l’interrogai, che domandasse o che cercasse? Egli allora, guardati attorno a me e i fratelli disse: pace14. Quindi m’accesi via via più di conoscere, di qual condizione fosse tal uomo; e trattolo in disparte dagli altri, e fatto colloquio con esso il conobbi. Chè quantunque io non l’avessi prima di quel giorno veduto, la fama di lui già da gran tempo era a me pervenuta15.

Quando poscia ei m’ebbe veduto a lui tutto attento, e conosciutomi affezionato alle sue parole, egli con modo famigliare si trasse di seno e mostrommi liberalmente un libretto; ed ecco dissemi, una parte dell’opera mia; che mai forse16 tu non vedesti. Io vi lascio tal monumento, affinchè serbiate di me più ferma memoria. Ed avendomi porto un libretto, ed io con gratitudine accettatolo in grembo, l’aprii ed in presenza di lui vi affissi gli occhi con affetto. Ed avendo veduto ch’eran volgari le parole, e mostrando in certo modo di maravigliarmi17 egli mi domandò la cagione di tal sostare. A cui io risposi maravigliarmi di tal qualità di sermone; sia perchè difficile, anzi inimmaginabile mi pareva ch’egli avesse potuto esprimere in volgare un assunto così arduo; sia perchè non conveniente parevami vestir tanta scienza in abito popolare. Secondo ragione tu pensi certamente rispos’egli e quando da principio (mosso forse dal Cielo18) il seme infuso germinò a tal proposito, io prescelsi a ciò sua legittima favella. Nè solamente la prescelsi, ma in essa, al modo usato poetando, incominciai:

Ultima regna canam fluido contermina mundo.
Spiritibus quæ lata patent, quæ præmia solvunt
Pro meritis cuicumque suis.

Ma quand’io considerai la condizione dell’età presente, vidi essere del tutto abietti i Canti degli illustri poeti; e per questa ragione appunto gli uomini generosi19, che a tempi migliori scriveano tali cose, lasciarono (oh dolore!) le arti liberali a’ plebei. Per lo che, deposi la povera lira di che era io provveduto, e un’altra ne apparecchiai adattata ai sensi de’ moderni; vano essendo porger cibo da mangiare a bocche di lattanti.

"Dette le quali cose, molto affettuosamente soggiunse, che se mi fosse conceduto vacare a tali cose, io fornissi tal opera di certe postillette, ed accompagnata da queste a voi la trasmettessi. Che se io interamente enucleai quanto s’asconde nelle parole di lui, io pur fedelmente e con animo liberale mi vi adoperai; e come da quell’amicissimo uomo mi fu ingiunto, destino l’opera domandata20. Nella quale se alcun che sembreràvvi ambiguo, imputatelo solamente all’insufficienza mia; dovendosi, senza dubbio, il testo stesso tenersi d’ogni maniera come perfetto".

"Se poi delle altre due partidi quest’opera cercasse una volta la vostra magnificenza (siccome quegli che gli propone d’integrarla dalla unione delle parti), cercate la seconda parte seguente a questa dall’egregio uomo il signor Moroello marchese; e potrà l’ultima trovarsi presso l’illustrissimo Federigo re di Sicilia21. Imperciocchè, siccome quegli che è l’autore mi asserì d’aver destinato in suo proposito, dopo aver considerata tutta Italia, voi tre prescelse a tutti per offerirvi la presente opera tripartita"22.

Ai fatti di questa lettera, tutti concordanti con gli altri che si sanno di Dante, e coi modi di lui, poco è da aggiungere. L’autenticità di essa fu combattuta, è vero, da un uomo letteratissimo; ma gli fu risposto da uno non minore; e a mettersi in tal questione sarebbe necessario un volume; ondechè, chi si contenti dell’opinion mia, tenga pur questa come una delle meno incerte cose della vita di Dante; e chi dubiti, ricorra ai combattenti23. Una sola difficoltà io trovo ne’ fatti ivi narrati, ed è quella della dedica del Paradiso a Federigo re di Sicilia; non solo perchè tal dedica fu poi fatta non a lui ma a Cangrande della Scala (mutazione che sarebbe spiegabile in mille modi), ma perchè questo medesimo Federigo è vituperato nel Convito e nel Volgare Eloquio24, scritti poco prima di quest’epoca; e poi nel Purgatorio25 e nel Paradiso26, scritti dopo: onde non pare probabile, che Dante volesse far tale onore a chi così disprezzava prima e dopo. Ma notisi bene, tolta la lettera, non sarebbe tolta la difficoltà che rimane anche più forte nella Vita di Boccaccio, il quale dice, tenersi da alcuni per definitivamente dedicato il Purgatorio a Federigo27. Nè sarebbe tolta la difficoltà dicendo la lettera supposta dietro la Vita; e chi dicesse il passo della Vita fatto sulla lettera, crescerebbe a questa l’autorità. Ondechè, o convien lasciar questa fra le difficoltà insolvibili della vita di Dante, o dir ch’egli, nè prima nè dopo, non istimando Federigo, ebbe pure alcun tempo qualche speranza su lui, ma che non vedutala verificarsi, rimutò proposito, ed ai vituperi antichi altri n’aggiunse. Ed ajutano a tal congettura, prima la forma alquanto dubitativa in cui è parlato di tal dedica Frate Ilario; e poi le gesta di Federigo, piene più di speranze che d’effetti: le quali vedremo a luogo loro.

Note

  1. Gerini, Memorie storiche di Lunigiana.
  2. Veltro, p. 81.
  3. Gerini, Tom. II, Tavola genealog. I.
  4. Giorn. II.Nov. VI.
  5. Gerini, II, p. 29.
  6. Vedi Gerini, Tav. Geneal. II°, dove questo Moroello è segnato col. n. V, benchè nel testo dell’opera, p.38, sia chiamato III°.
  7. Veltro, pp. 91, 92.
  8. Rer. Ital. XII., pp. 432, 434, e si confronti con Dino Comp. Rer Ital. IX, 522, per li particolari. Veltro, pp. 93-95.
  9. Veltro, pp. 89-92.
  10. Veltro, pp. 93-97; Bocc. Ediz. Fir., p. 20.
  11. Ferretto Vicentino, Rer. It. IX, p. 979, attribuendo l’esilio di Dante alla morte di messer Corso, fa un errore che ha pur qualche parte di verità, e mostra ciò che ne dissero i lontani e meno informati. Non il primo sforzato esilio da Firenze, ma il secondo volontario dall’Italia fu effetto probabile della morte di messer Corso.
  12. Veltro, pp. 97 e 98.
  13. Da queste parole l’A. del Veltro arguisce che Dante pochi giorni si soffermasse in Lunigiana e così che venisse di fuori.
  14. Vede ognuno quanto tutto ciò s’accordi co’ modi e con le poche parole usate da Dante.
  15. Dante non ignoto per li suoi uffizi e per le sue prime poesie, dovea essere notissimo da due anni in Lunigiana.
  16. La parola forse fa sospettare che di alcuni canti dell’Inferno poteva già prima essersi tratta qualche copia (nota dell’A. del Veltro).
  17. Tal maraviglia mostra che se i primi canti erano conosciuti, erano quelli scritti già in latino.
  18. L’Autore del Veltro attribuisce la parentesi al Frate; ma parmi compresa nelle parole di Dante, che fin dalla Vita Nova esprime questo medesimo pensiero.
  19. Leggo homines, non hominis, che non intenderei.
  20. Questa parola opus postulatum, farebbe egli sospettare che Uguccione stesso avesse domandato al Frate l’opera, ch’ei sapesse presso lui deposta?
  21. Notisi la forma dubitativa di tal terza dedica del Paradiso.
  22. Veltro, pp. 208, 214.
  23. Vedi principalmente l'Antologia di Firenze, anni 1826 e seguenti.
  24. Vulg. Eloq. Lib. I, Cap. 12.
  25. Purg. VIII, 119.
  26. Parad. XIX; 130, XX, 63.
  27. Ed. Fir., p.52.

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.