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Legalo con amore in un volume;
ciò che per l'universo si squaderna
Paradiso XXXIII
Tempo ed opera perduta è compararar co’ minori i sommi ingegni. Meglio compararli subito tra loro, cercando qual luogo appartenga a ciascuno nella storia universale dell’umanità. Quando nelle altre parti del presente lavoro noi ci sforzammo di ritrar Dante cittadino, giovane innamorato e compagnevole, rimator d’amore, studente di lettere e filosofia, uomo di parte od esule, ei ci bastò di compararlo con gli altri suoi compatriotti, e non usccimo d’Italia. Ma ora, avendo a parlar di lui come autor del Poema divino, già ci mancano in patria i paragoni, e ci è forza irne a cercare in tutti i paesi, in tutte le età. Nè così spaziando, troveremo forse più di due poeti, uno prima ed uno dopo di lui, Omero e Shakespeare, i quali sieno a lui comparabili in quella variata e compiuta dipintura dell’umanità, che è copia non da altrui ma dalla stessa natura; imitazione non d’alcun’opera umana, ma della stessa idea divina, sola forse che possa dirsi somma e creatrice poesia. Ma se noi paragoneremo l’altezza e l’universalità de’ ritratti lasciati da’ tre sommi, quello di Dante, che comprende tutta l’umana destinazione durante e dopo questa vita terrena, ci parrà forse senza eguali, e così egli senza emuli. Nè questi sono giudizii miei, ma di molto migliori di me; e non solo dati da molti sommi poeti, ma da parecchi di quegli altri sommi in altre arti, che sono forse i soli giudici legittimi de’ loro pari. Sono, è vero, ricusati taluni, i quali restringendosi in un’arte sola, non tengono conto se non delle minutezze e delle regole fattizie ed esagerate di essa; giudicano de’ pensieri dalle sillabe; ed accarezzando le proprie ripuliture, van ripetendo che lo stile è tutto l’uomo. Ma anche nello stile, Dante si dee dir sommo; dovendosi ai molti passi minori o cattivi della Commedia opporre le bellezze tanto più frequenti. A chi, poi, volesse anzi opere meno ricche di bellezze, ma meno guaste di difetti, nulla sarebbe a rispondere, se non che varii sono i gusti, le ammirazioni, le voluttà intellettuali degli uomini. Ancora, noi seguiamo qui il gusto della patria, della età nostra; chè da quando Dante mandava la prima Cantica ad Uguccione, fino al dì d’oggi, non mai fu il Poema così sparso nè così letto o studiato di gran lunga; tanto che, ora solamente, si può dire, essersi fatto Dante popolare in Italia, come fu Omero in Grecia, od è Shakespeare fra i popoli di lingue germaniche. Lo stesso studio presente, qualunque sia, altro non è, se non un effetto di quella medesima popolarità, l’andar perduto d’uno tra la folla de’ coetanei.
Tutti e tre questi sommi hanno comune quella mescolanza di alcuni difetti fra molte virtù. Figli tutti e tre di etadi appena uscenti di barbarie, traggono quindi le loro virtù giovanili, spontaneità, libertà di genio, stile proprio, amore, nerbo e semplicità; ma quindi i loro difetti pur giovanili, mancando principalmente di quel gusto, di quella pulitura e proporzione, che nelle letterature e negli uomini sono frutto delle seconde età, come in ogni opera de’ secondi lavori. Ci urtano meno tali difetti in Omero, o per il gran rispetto accumulatogli dalla antichità, o per quello acquistatogli dall’ordine de’ nostri studii; ma urtarono Orazio, il più gran buongustajo dell’età più colta fra le antiche. Omero è il gran poeta dell’origine; Dante e Shakespeare insieme, sommi della cristiana. Dalle differenze, poi, delle età vennero senza dubbio le differenze de lor vizii e virtù. La sublimità soprannaturale non potea essere dell’età così sviata dal cielo, da far astiosa e libidinosa la divinità. Gli iddii d’Omero sono uomini, e non più; il cielo di lui è ancor terra. E tra i due poeti cristiani, doveva il vantaggio della sublimità rimanere al figliuolo del risorgimento primiero, italiano, cattolico; anzichè, a quello d’un risorgimento già derivato dal nostro, già lontano dal fonte primitivo e più poetico. Non sarebbe, se non innalzandoci dalla volgare alla più antica significazione della parola di poesia, e tal chiamando non solamente la divinazione, ma ancora la rivelazione delle cose divine, che noi troveremmo una poesia ancora più sublime di gran lunga che non tutte queste, ma una poesia che appunto in tale incomparabilità porta seco una delle prove di sua origine sovrumana.
Nè fra i tre, Dante è solamente il più sublime, ma ancora il più amabile poeta. Cantarono gli altri due per estro, per gloria, e fors’anche pel vitto; cantò Dante per amore, e per uno dei più gentili che sieno stati mai. Concepito prima il Poema in un’ambascia d’amore, sviluppatosi in un sogno, e confermato da un voto d’amore, lasciato all’allontanarsi, e ripreso otto anni dopo in un ritorno ad amore; trenta e più anni dura in quella mente, in quel cuore sì memore; e vi si trasforma, si rinforza e s’innalza sempre più, finchè, sciolto il voto, compiesi insieme l’opera e la vita del felice Poeta. Quì la storia è più elegante che ogni opera d’arte, più romanzesca che ogni romanzo; la verità più ricca che niuna immaginazione, la quale non potrebbe mai fingere tal prova, tal frutto d’amore come è il divino Poema. Quindi, certo fra le tante guastature, appiccature e diminuzioni fatte a questo, niuna è che desti all’ira, e debba determinatamente scartarsi da chiunque lo voglia intendere e bearsene, come quel continuo, talor falso e quasi sempre esagerato far sottentrare a Beatrice vera e viva in cielo, or la teologia, or la filosofia, or l’Italia, o che so io? Di queste tre allegorie prestese, le due ultime sono false assolutamente; e la prima non fa che appressarsi alla vera, non potendo Dante sotto il nome Beatrice che spazia per tutto il cielo, e di cui egli canta in tutto il Poema, aver velata la teologia, ch’egli colloca determinatamente e quasi confina al quinto cielo, e di che tratta espressamente nè Canti dal V al XXIV del Paradiso. Se vogliamo legger Dante secondo la intenzione di lui, prima d’ogni senso allegorico noi dobbiamo intendere il litterale; e così ogni volta che troviamo Beatrice, intendere la Beatrice vera, la gentil fanciulla de’ Portinari, la perduta donna di Dante. Ma è vero che al senso litterale è aggiunto uno allegorico. Non incresca, dunque, che ci fermiamo a cercarne. Il miglior frutto d’ogni Vita di Dante sarà sempre l’agevolare la lettura del Poema, solendo i leggitori aver la mira alla maggior grandezza di ogni uomo; e come legger le scritture di Cesare o di Napoleone, men per esse che ad illustrazione delle geste degli autori, così cercar le Vite di un Omero, di un Dante e di un Shakespeare, men per l’importanza dei fatti, che non per meglio intendere la loro immortal poesia.
Se io dovessi andar a cercare l’origine delle allegorie, e le ragioni di questa maniera di aggiunger l’uno all’altro senso, la quale trovasi già nelle più antiche scritture sacre e profane, la mia erudizione sarebbe del tutto insufficiente. Si contentino, quindi, i leggitori di non risalir qui oltre alle prime opere di Dante. Un cenno di tal doppiezza di sensi da lui cercata, s’avrebbe fin dalle prime parole della Vita Nova, se vi si avesse a leggere come suolsi "la gloriosa donna della mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, i quali non sapevano che si chiamare1". Ma confrontando questo passo con quello del Boccaccio "una figliuola il cui nome era Bice (come che egli sempre dal suo primitivo nome, cioè Beatrice la nominasse)2", e poi considerando che in tutta la Vita Nova non v’ha allegoria, e che Dante stesso nel Convito dice non esservi; io dubiterei che nel passo Dantesco Bice, e non Beatrice, s’avesse a leggere. Certo, non è improbabile cambiatura d’amanunensi; e così niun sospetto d’allegoria rimarrebbe a niun luogo della Vita Nova. Nel Convito, poi, chiaro è non che l’uso, pur l’abuso delle allegorie. Vedemmo la gentildonna pietosa della Vita Nova rivolta in Filosofia, i cieli in Iscienze ec. ec. Ma s’avvertano bene, prima quella protesta di Dante"di non intender però in esso Convito derogare in nulla alla Vita Nova;3" e poi, principalmente, que’ canoni di critica allegorica ch’egli pone prima d’entrare nella spiegazione delle sue Canzoni, e possono e debbono servire alle spiegazioni del Poema. "Si vuole sapere, che le scritture si possono intendere, e debbonsi sponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale....4; e questo è quello che si nasconde sotto il manto di queste favole, ed è una verità ascosa sotto bella menzogna; siccome quando dice Ovidio, che Orfeo facea colla cetera mansuete le fiere, e gli alberi e le piante a sè muovere; che vuol dire, che il savio uomo collo strumento della sua voce facea mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e facea muovere alla sua volontà coloro che non hanno vita di scienza ed arte; e coloro che non hanno vita di scienza ragionevole alcuna, sono quasi pietre. E perchè questo nascondimento fosse trovato per li savi, nel penultimo Trattato si mostrerà5. Veramente, li Teologi questo senso prendono altrimenti altrimenti che li poeti; ma perocchè mia intenzione è qui lo modo delli poeti seguitare, prenderò il senso allegorico secondo che per li poeti è usato. Il terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andar appostando per le scritture, a utilità di loro e di loro discendenti; siccome appostare si può nel Vangelio quando Cristo salìo lo monte per trasfigurarsi, che delli dodici Apostoli ne menò seco li tre: in che moralmente si può intendere, che alle secretissime cose noi dovremo aver poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico6, cioè sovra senso; e questo è quando spiritualmente si pone una scrittura, la quale eziandio nel senso litterale per le cose significate significa di superne cose dell’eternale gloria; siccome veder si può in quel canto del profeta che dice, che nell’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, la Giudea è fatta santa e libera. Che avvegna essere vero secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende; cioè che nell’uscita dell’anima del peccato, essa si è fatta santa e libera in sua podestade. E in dimostrare questo, sempre lo litterale dee andare innanzi; siccome quello nella cui sentenza gli altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile e irrazionale intendere agil altri, e massimamente all’allegorico è impossibile ec."7e segue a dire dell’irrazionalità di spiegare niuno di que’ sensi senza il letterale; onde resta provato, che vanno contro all’intenzione dell’Autore coloro che mettono l’allegoria sopra la lettera in qualunque delle opere di lui. Confrontisi poi, per venire alla Commedia, e finir in una volta siffatta questione, necessaria ma ingrata, delle allegorie, quel passo della dedica del Paradiso a Can Grande, dove dice di tutta l’opera: "che non v’è semplice il senso; ed anzi ella può dirsi Polisensa, cioè di parecchi sensi"; e poi viene a dichiarare i quattro sensi detti, sul medesimo testo In exitu Israel, e conchiude in ultimo: " Ciò posto, è manifesto che duplice debb’essere il soggetto su cui corrano i due sensi8. E così è da vedere del soggetto dell’opera, in quanto prendesi alla lettera, poi in quanto si vuole avere allegoricamente. Adunque, il soggetto di tutta l’opera presa solo litteralmente, è lo stato delle anime dopo morte preso semplicemente; imperciocchè sopra e intorno tale stato si rivolge tutta l’opera. Se poi si prenda l’opera allegoricamente, il soggetto è l’uomo, in quanto meritando e demeritando per via del libero arbitrio è assoggettato alla giustizia de’ premii e delle pene"9. Abbiano pazienza i leggitori, se, com’io, intendono poco o nulla di questa allegoria generale di tutto il Poema: chiaro è, questa è di quelle aggiunte dallo scrittore all’opera finita, e che si possono od anzi si debbono scartare da’ leggitori.
Ma, altre allegorie particolari sono nel Poema, senza le quali sarebber men belle od anzi inintelligibili alcune parti di esso. E prima, tenuto ben a mente che per Beatrice debbe intendersi la fanciulla amata da Dante, certo è che sotto il nome di lei pur è un’allegoria. Ma im questa non è mestieri cercar altro, se non quella idealizzazione della donna amata, fatta non solo da Dante, ma poi dal Petrarca, e poi da tanti lor seguaci, e da tutti i poeti così detti Platonici, ed anzi da molti non poeti e non più che innamorati; i quali, in una donna virtuosa ed amata dissero di vedere e videro un mezzo di innalzarsi dal vizio alla virtù, dalla terra al cielo, dalla preoccupazione delle cose materiali e vili alla cognizione delle spirituali, delle divine e della stessa divinità. Questa cognizione, ammirazione, beatitudine o felicità in Dio, è quella che trovasi figurata sotto il nome di Beatrice. Così intesa l’allegoria, non distrugge nè copre la immagine vera di Beatrice; ma la innalza e rischiara in quella guisa che tentarono di fare altri poeti ed amatori di altre amate immagini, benchè non riuscisse a ciò niuno di essi come Dante. E non che scemarne, se n’accrescono le bellezze di tutto il Poema.
Siccome poi, Beatrice è a un tempo Beatrice e questa cognizione o beatitudine di Dio (imperciocchè il nome stesso di sua donna dovette ajutar Dante a tutte queste trasformazioni od esaltazioni di lei), così poi il Virgilio del Poema, certo è prima Virgilio vero, e quindi la poesia; e il sole è la scienza teologica; e via via. E tutto il Poema, dal principio al fine, è pieno di tali allegorie, quasi tutte belle, alcune mediocri, alcune (concediamolo pure) inutili, intralciate, oscure e cattive. Ma è delle bellissime, senza dubbio, quella prima o massima del Poema, troppo mal intesa sovente, per non averla voluta intendere polisensamente, ed in relazione alla vita dello scrittore; e che intesa così, secondo la mente e la natura dell’autore, è anzi introduzione opportunissima e necessaria in un’opera di cui esso scrittore si fa protagonista; è sunto, rassegna, storia retrospettiva di tutta la vita intellettuale di esso. Questo modo di far sè stesso protagonista della propria poesia, è superbo senza dubbio; nè perdonasi se non ai sommi, e per le bellezze ch’ei ne facciano derivare. Ma perdonatolo a Dante (e si perdona anche a Byron e Lamartine e tanti altri) era conveniente che, prima d’incominciare, ei dicesse della sua vita anteriore, dell’occasione della sua visione; e convenientissimo che, come fecer quegli altri poi, non direttamente, ma nell’ombra e sotto il velo delle allegorie ei ne dicesse.
Adunque, dice Dante che nel mezzo di sua vita ai 35 anni, quanti n’aveva appunto nell’aprile dell’anno del Giubileo 1300, ei si trovò per una selva oscura, selvaggia, ed aspra e forte; e questa, al senso allegorico morale, certo è la selva de’ vizi umani. Ma certo è pure Firenze ch’ei chiama altrove trista selva, chiamando sè stesso pianta di essa, e selva pure altrove il regno di Francia; ondechè vedesi, che selva in generale ei chiamava il mondo di quaggiù, i regni, le città; e selva selvaggia Firenze perchè allora nel 1300 ella era in mano alla parte selvaggia de’ Bianchi. La selva, dunque, è selva de’ vizii, ma de’ vizii fiorentini. Segue a dire, che non può spiegare come v’entrasse, tanto era pien di sonno quando v’entrò, abbandonando la vera via, cioè la fedeltà a Beatrice, la vita virtuosa tenuta per amor di lei finchè ella visse; ed aggiugne, che la rimembranza di quel tempo tanto gli amara, che poco è più morte. Dalla selva in fondo a una valle, ei giugne appiè d’un colle, e lo vede rischiarato in cima dal sole levante; cioè dalla scienza o filosofia umana e divina, a che egli aveva aspirato fin dalla morte di Beatrice. Ma tale studio, tal desiderio essendo stato già abbandonato da lui nell’anno 1293 fino al 1300 per la vita lussuriosa e giovanile, per gli uffizii, per le parti, per tutti i vizii fiorentini, ei dice ora qui, che da essi sotto figura di tre fiere, una Lonza, un Leone ed una Lupa, gli fu impedita la salita al chiaro monte. Quindi, non par dubbia l’antichissima interpretazione, che queste significhino, al senso morale, la lussuria, la superbia od ambizione, e l’avarizia. Ma la lussuria è lussuria fiorentina, che fece pericolare Dante in quegli anni; la superbia è superbia principalmente de’ Reali di Francia, e particolarmente di Carlo di Valois, che già minacciava Firenze nel 1300; e l’avarizia è quella de’ Guelfi, che chiamansi Lupi in tutto il Poema. Così intese le tre fiere, ogni parola, ogni sillaba, non che intendersi, è fonte di bellezze. Tutte tre s’oppongono alla salita di Dante al monte rischiarato; ma la Lupa, la parte guelfa, è quella che gli dà la maggiore e l’ultima noja. Allora gli s’affaccia Virgilio, rappresentante della Poesia, anzi del pensiero stesso del Poema; il quale l’ammonisce, che per tal via diretta non gli riuscirà mai di salire al monte, impedito che sarebbe dalla Lupa; predice le malvagità e le vicende di questa, cioè di parte guelfa, finchè ella non sarà vinta da un Veltro, cioè un ghibellino dell’Italia meridionale, che certo volle dire Uguccione a cui è dedicata la Cantica. Adunque, continua Virgilio, gli è mestieri prendere altra via. Torni al pensiero del Poema; scenda con esso all’inferno, al purgatorio; salirànne egli poscia con un’anima più degna al paradiso. E a ciò consente Dante animoso, dandosi tutto a Virgilio, al Poema.
Ma essendo già passata la prima giornata e cadendo la notte, Dante si sgomenta; e sono quindi accennati i dubbii, le interruzioni al Poema. Volgesi egli al suo duce Virgilio, e gli rappresenta, che potè sì scendere all’inferno Enea, padre di Roma, prestabilita sede de’ papi; e scèsevi San Paolo, il vas d’elezione; ma egli non è da comparare all’uno o all’altro, e teme sia follia il suo ardire. Allora Virgilio, per incorarlo, gli apre come sia stato mandato egli stesso in ajuto a lui. Narra in versi divini, che dal Limbo ov’era egli, fu chiamato da Beatrice, Loda di Dio vera, beatitudine, cognizione di Dio; mossa essa da Lucia o la fede, mandata questa da una donna superiore, che non può essere se non Maria Vergine, Maria a cui Beatrice e poi Dante ebbero tanta e sì dolce divozione. Adunque perchè sgomentarsi? perchè, protetto da tre tali donne nel paradiso, ancora restare? E riconfortato, Dante si mette di nuovo in via col duce suo.
Tale è quella introduzione al Poema; la quale insufficientemente interpretata, fu talora dagli stessi interpreti vituperata come inestricabile, e da’ leggitori oltrepassata sovente con ribrezzo e con fretta di giugnere a più chiare bellezze; ma che meglio spiegata oramai per gli ultimi studii di varii critici e biografi, parrà sempre principio degno, ed una delle più belle parti del Poema. Non poco è da meravgliare bensì, che da parecchi anni dappoi furono sparsamente pubblicate quelle spiegazioni, elle non siensi per anco raccolte in niun commento. E quindi è, che dovendo come biografo riferire questo squarcio di propria biografia dato da Dante, ma non potendo nelle interpretazioni di esso nè riferirmi a niun commento fatto nè farne uno qui in note troppo moltiplicate, l’ho rimandato in calce al volume10. Ma con queste note mie o d’altrui o senza, leggansi ad ogni modo attentamente i due Canti da chiunque voglia adeguatamente inoltrare nella vita di Dante.
Ma nel terminare quello che mi parve importante a dire rispetto al Poema in generale, io m’avvedo d’aver del tutto trasandata ogni disputa che suol farsi da quanti ne discorrono: se, e quanto abbia Dante prèsane la idea da altri poemi anteriori, più o meno somiglianti. Vogliono gli uni, che sia presa l’idea dal Tesoro di Brunetto Latini; altri da certa fiaba oltramontana ed oltramarina del Pozzo di San Patrizio; altri da certe visioni di Frate Alberico, o di non so quali altri Frati, ignote, oscure, dimenticate; opere tutte, delle quali quando fosser provate l’anteriorità e le somiglianze, ed anche l’essere state conosciute da Dante, non sarebbe provato altro, se non che elle poterono essere una delle tante reminiscenze, uno de’ mille pensieri, onde si conformò il gran pensiero, l’idea ben altrimenti bella, sublime ed amorosa di Dante. Anche Omero ebbe a precursori o compagni altri cantori di patrie geste; anche Shakespeare altri poeti drammatici; nè Omero, Dante o Shakespeare furono assolutamente primi, ma primi grandi. In poesia, anzi nelle lettere, anzi in tutte l’arti, i grandi non sogliono inventar mai un genere nuovo; non han mestieri di ciò; si fan grandi nel genere dato loro dall’età; e l’originalità non suol essere se non pretensione dei piccoli. Lasciamo dunque, e quelle erudizioni dette da alcuni pellegrine, ma dai più inutili od importune; e più importuna ancora, le dispute di priorità.
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Note
- ↑ Vita Nova, Pesaro 1829, p.1.
- ↑ Bocc. Vita di Dante, p.17.
- ↑ Conv. p.6.
- ↑ Qui è una lacuna nel testo, che l’editor della Minerva supplisce con certezza di senso così: e questo è quello in cui le parole non escono del senso proprio rigoroso. Il secondo si chiama allegorico, etc.
- ↑ Ma non fu mostrato poi, non essendo stati scritti se non quattro de’ quindici Trattati che erano nella mentre dell’Autore.
- ↑ Invece di quest’anagogico od anagorico di che disputano gli editori, piacerebbemi veramente qui poste analogico, come trovo nella Epistola a Cane (Ed. Venet. Tom.IV., P.I, p.402,linea 48) - Ma non l’oso più, trovando restituito Anagogicum nel detto luogo dal dotto signor Witte, nelle Epistole, p. 80, lin. 10.
- ↑ Conv., pp.56, 58.
- ↑ Non faccia specie veder qui divisi in due i quattro sensi. La variazione è solo apparente. Qui ei divide i sensi prima in due, Litterale ed Allegorico; e questo poi in tre: Allegorico propriamente detto, Morale ed Anagogico. E così sono sempre gli stessi quattro.
- ↑ Epist.Kan.Grand., Ed.Ven., Tom.IV, par.I°, p.402; e Witte, p.67. E di nuovo, nell’ultimo periodo ho seguito il dotto Tedesco; e così tolto tutto un membro di quello è nell’Ediz.Veneta - E sì che questa, come è data, non si capirebbe. Tuttavia (sia detto per memoria e non più), se alla parola Allegorico della linea 32 si sostituisse Anagogico, ne verrebbe la spiegazione d’un terzo de’ 4 sensi, e mancherebbe quella sola del quarto senso; e il testo, non che interpolato, avrebbe a dirsi mancante.
- ↑ Vedi nota aggiunta in calce.