< Vita di Dante < Libro II
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Capo Ottavo - L'Inferno.
Libro II - Capitolo VII Libro II - Capitolo IX


Per me si va nella città dolente,
Per me si va nell'eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse 'l mio alto Fattore;
Fecemi la divina potestate,
La somma sapïenza, e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fur cose create
Se non eterne, ed io eterno duro;
Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate.

Inf. III


"Queste parole di colore oscuro" legge Dante sulla porta d’inferno, ed entra poi con Virgilio. Ma non continueremo quì a dar quì un sunto della Cantica. Uno tale, bello quanto è possibile, fu dato già dal Ginguené. Ma già si sa delle opere piene di bellezze non si può dare un sunto satisfacente; ed è noto quel detto d’Alfieri, quando volle far estratti delle bellezze della Commedia:"che a poco a poco ei la ricopiava tutta". Il medesimo succederebbe a chi ne volesse estrarre tutte le notizie storiche, e le opinioni di Dante sovra esse; io mi vi son provato più volte, e me ne riusciva un intero commento. Deh quando sarà fatta adeguatamente tal’opera? Intanto, basti quì dar cenno delle distribuzione e dei principali personaggi dell’Inferno, con qualche speranza sì d’introdurre, ma non con quella stolta di supplire alla lettura di esso. E chi già abbia per sè intesa bene e ritenga a mente la Cantica, passi questo capitolo inutile per lui.

E’ l’inferno tutti disposto sottoterra, ma a cielo aperto1, quasi pozzo ad imbuto, od anfiteatro; con nove ampii gradi o ripiani concentrici, discendenti e via via minuenti, fino al centro del nostro globo, occupato da Belzebù. E nove scaglioni ascendenti vedremo poi nel purgatorio, nove cieli in paradiso. Ad ognuno dei nove cerchi presiede un demonio principale, con nome e figura tolta dalle divinità pagane. E così, al primo cerchio trovasi Caronte, che sulla barca sua tragitta l’anime sul fiume Acheronte. Questo divide così il I° cerchio o limbo in due parti; vergognosissima l’una, quasi gloriosa l’altra2. La prima è occupata dagli angeli che non furono nè per Dio nè contro lui, e dagli uomini dubbiosi lor simili; quegli uomini, nè buoni nè cattivi, tanto dispregiati pur da Macchiavello, come da tutti gli animi operosi, e principalmente in tempi di parte. Fra essi è colui che fece il gran rifiuto, probabilmente Celestino papa3. Nella seconda parte del limbo, di là d’Acheronte, sono l’anime di coloro che non ebber difetto se non di fede; e così quelle de’ grandi antichi, in una città variata di campagne, difesa da sette mura, per cui s’entra da sette porte: certo, la città della scienza profana, a cui s’entrava per le sette arti del trivio e quadrivio. Ivi è il luogo di Virgilio; indi s’era egli mosso già per venire in ajuto a Dante; ivi tornando con lui, è accolto da Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, che ammettono Dante come sesto fra loro. Può far qui meraviglia, che i due ultimi sieno accennati come sommi, esclusi altri Greci e Latini pur conosciuti da Dante e pur ivi stanziati4; e può far credere che questi fossero da lui conosciuti solamente di nome, e non nelle opere, onde giudicarne.

Nel II° cerchio, ove incominciano i tormenti, sta Minosse, demonio codato, che giudica l’anime avvinghiandosi di sua cosa tante volte, quanto è il grado o cerchio a che ei condanna. Qui i peccatori carnali son tormentati da un vento o bufera che li trae seco, sbattendoli contro le ròcche ond’è cinto ed aspro il cerchio. E qui son Paolo e Francesca insieme in eterno portati5.

Nel III° cerchio, guardato da Cerbero, sono i golosi, fitti nel fango e battuti d’eterna pioggia. Ivi, fra gli altri, Ciacco, il Fiorentino non noto se non per la novella del Boccaccio6, a cui Dante domanda delle future sorti delle Parti che nel 1300 dividevan la patria; e Ciacco gliene fa quella predizione che dicemmo, e che si rivolge contro ambe le Parti. Evidentemente, l’aver messo in bocca a costui una così importante predizione delle Parti, mostra insieme e disprezzo di queste, e fretta di fare quella predizione7.

Nel IV° cerchio, in cui sta Pluto, si tormentano gli uni contro gli altri le due sorte di peccatori contrarii, gli avari e gli scialacquatori, scagliandosi a vicenda enormi pesi. Molte genti di Chiesa vi sono, ma niuno riconoscibile per la sconciatura fatta in essi da tal vizio e tal castigo8.

Nel V° cerchio è la palude Stige, di che Flegias è nocchiero; dentro essa, sopra acqua, gli irosi che straziano percuotendo d’ogni modo sè stessi, e sott’acqua gli accidiosi nel fango9. E fra i primi è Filippo Argenti, pur disprezzato ed odiato nimico dell’autore10.

Il VI° cerchio e i tre inferiori sono chiamati la città di Dite, da tal nome pur dato a Belzebù. Qui s’aggravan le colpe e i tormenti, e qui incomincian le fiamme. L’ingresso per la porta della città è proibito a Dante dalle tre furie che lo minacciano del volto di Gorgona; e Dante è prima difeso da tal vista per le mani stesse di Virgilio postegli dinanzi agli occhi, e poi introdotto per intervenzione d’un messo dal cielo od angelo, che viene e vince altieramente. E tutta questa contesa, questa nuova e massima difficoltà a progredire giu per l’inferno, a continuare il Poema, è descritta così a lungo e per minuto, che già si desta il dubbio, sia qui qualche importante allusione storica ai fatti personali, alle difficoltà incontrate da Dante; ma dee sparire ogni dubbio all’udir lui stesso avvertirne della dottrina ascosa negli versi strani11. E chi poi, credendo, come si deve, al Boccaccio, e così alla ripresa del Poema al Canto precedente nell’anno 1306 0 1307, pur rammenti le nuove difficoltà sofferte in quegli anni, e le interruzioni che ne dovettero venire al Poema, non dubiterà guari che a quelle appunto qui s’alluda. Ad ogni modo, in questo VI° cerchio sono i superbi, cioè gli eresiarchi e miscredenti12, puniti in tombe infiammate13; e fra essi (oltre Federigo II imperadore, una cardinale innominato ed Anastasio papa) sono il gran ghibellino della generazione anteriore, Farinata degli Uberti; e Cavalcante Cavalcanti, il padre di Guido, primo amico di Dante. Inesorabil poeta, ei mette così secondo che era portato dalle antiche e dalle nuove opinioni e reminiscenze, Guelfi e Ghibellini, amici o nemici antichi e nuovi, e quelli medesimi a lui rimasti sempre cari. E qui è il mirabil dialogo tra Dante e Farinata, interrotto dal Cavalcanti14.

Il cerchio VII°, che io crederei doversi dire degli invidi violenti, è diviso in tre gironi pur concentrici e scendenti. Nel 1° sono tuffati in una riviera di sangue, e tenutivi dentro dai Centauri che li saettano, i violenti contro il prossimo; e sonvi tiranni antichi e moderni, Ezzelino da Romano, Obizzo d’Este, ed altri uccisori o ladroni; Guido da Monforte che uccise Arrigo d’Inghilterra in chiesa a Viterbo, e Rinier da Corneto e Rinier de’ Pazzi, due masnadieri toscani15. - Nel 2° girone sono trasformati in secchi sterpi i violenti contro sè stessi. E’ fra questi Pier Delle Vigne, il famoso cancellier di Federigo II, uccisosi per dolore d’esser calunniato presso il suo signore; ed è uno dei bellissimi tutto quest’episodio, con l’invettiva contro gli adulatori, che mostra il poeta ghibellino, non prostrato perciò dinanzi agli idoli di sua parte. Ancora sono costì un Lano sanese, che sconfitto coi concittadini dagli Aretini alla Pieve del Toppo, si fece uccidere per disperazione; un Jacopo da Sant’Andrea padovano, ed un Fiorentino innominato che s’appiccò nella propria casa16. - Nel 3° girone, sono in una nuda landa tormentati da una pioggia di fiamme i violenti contro Dio, come Capaneo17; e quelli contro natura, come Brunetto Latini. Il quale fa a Dante la predizione del vano affaticarsi di lui tra le Parti; e gli accenna poi i proprii compagni nelle pene, Francesco d’Accorso, famoso fiorentino giureconsulto, ed un innominato vescovo di Firenze18; e poi Guido Guerra famoso guerriero toscano dei tempi giovanili di Dante, e Tegghiajo Aldobrandi, e Jacopo Rusticucci, e Guglielmo Borsieri, altri Fiorentini conosciuti di persona o di nome da Dante, che si duole pietosamente di essi19. Finalmente, sull’orlo di questo cerchio de’ violenti, con quello che segue de’ frodolenti, sono un Gianfigliazzi ed un Ubbriachi di Firenze; ed uno Scrovigni di Padova, che annunzia la futura venuta di un Vitaliano suo concittadino, e di Giovanni Bajamonte o de’ Lirti, tutti usurai20.

Dirupato e senza discesa l’VIII° cerchio, detto specialmente Malebolge, Virgilio e Dante son calati sulle spalle di Gerione, mostro alato figurante la frode; e gl’invidi frodolenti sono puniti in questo cerchio, diviso in dieci bolge o fosse, pur concentriche e tra sè unite con ponti di rôcca, tranne uno de’ varchi dove è rotto il ponte. Sono poi le dieci bolge - 1° degl’ingannatori di donne, sferzati dai demonii; e fra essi, con altri Bolognesi, Venedico Caccianimico, che indusse la bella Ghisola, sorella sua, alle voglie del marchese d’Este; poi Giasone, ingannator di Isifile e di Medea21. - 2° degli adulatori, immersi nello sterco, fra cui Alessio Interminelli da Lucca, e Taide la meretrice22 - 3° de’ simoniaci, fitti capo rovescio ne’ pozzi; fra cui riconosce solo Niccolò III, ma morde insieme i venturi Bonifazio VIII e Clemente V23 - 4° degli indovini, che hanno il capo vôlto alle rene; fra cui gli antichi Anfiarao, Tiresia, Aronte e Calcante, con un altro augure Greco; e Manto fondatrice di Mantova, due cittadini moderni della quale, una Casolodi ed un Pinamonte de’ Buonaccossi, sono morsi passando; e sonvi poi i moderni Michele Scoto, Guido Bonatti, ed Asdente24 - 5° de’ barattieri, invischiati in un lago di pece, ove son tenuti da’ graffi de’ demoni; e qui è un Lucchese innominato; e segue tra que’ diavoli e i poeti e l’anime una scena di commedia che par bassa ad alcuni, ma non può non parere vivissima a ciascuno; e sonvi poi un Navarrese, un Frate Gomita da Gallura, e Michele Zanche, un altro di Sardegna25 - 6° degli ipocriti gravati di cappe dorate, ma di piombo; fra cui due Frati Gaudenti Bolognesi, l’uno guelfo e l’altro ghibellino, presi già insieme per podestà dai Fiorentini. E vi son poi crocefissi in terra, Caifasso, Anna, e i sozii loro nella condanna di Gesù Cristo26 - 7° de’ ladri, aggruppati variamente da variissime serpi; e fra essi, Vanni Fucci da Pistoja, che fa a Dante la predizione della sconfitta de’ Bianchi pel Malaspina detto vapor di Val di Magra; e poi l’antico Caco virgiliano; e poi cinque Fiorentini, onde il feroce fuoruscito si congratula colla sua patria della gloria infernale di lei27 - 8° de’ consiglieri di frodi, involti tutti, anzi rivolti essi stessi in fiamme: e qui Dante ammonisce sè stesso di frenare l’ingegno, e di non mettere troppi di costoro in inferno per vendetta; ondechè, non mettendo niun concittadino, nomina Ulisse e Diomede antichi, e solo fra’ moderni Guido da Montefeltro, che die’ il mal consiglio a papa Bonifazio28 - 9° de’ seminatori di parti nelle famiglie, negli stati o nella religione, che ne portano stracciate le proprie membra; fra cui Maometto, che predice la fine di fra Dolcino eresiarca novarese succeduta nel 1307, che è la più avanzata memoria dell’Inferno; e poi Alì, poi Pier da Medicina che fa altre predizioni italiane, e Curione che consigliò a Cesare di passare il Rubicone; e Mosca Lamberti, quel che disse cosa fatta capo ha, nella deliberazione contro il Buondelmonte; e Bertram del Bornio, che fece ribellare un principe inglese contro il padre; e finalmente Geri del Bello, il consanguineo o consorto non vendicato di Dante29 - e 10° degli alchimisti (dannati così con dottrina superiore all’età) , de’ falsarii, de’ falsi monetatori e de’ mentitori puniti con ogni sorta di malattie; fra cui un Aretino innominato, che s’era vantato di volare, e Capocchio sanese, e Gianni Schicchi fiorentino, e l’antica Mirra, e Mastro Adamo da Brescia, che fa un’invettiva contro i conti da Romena, per cui aveva falsificati i fiorini di Firenze; e poi la moglie di Puttifarre, e Simon Greco30.

E qui finalmente termina il cerchio di Malebolge dove il Poeta accumulò i supplizi, i peccatori, e le satiriche rimembranze. Ma non finiscono i frodolenti. I pessimi de’ quali, e d’ogni sorta peccatori, quasi comprendenti in sè i maggiori peccati, i traditori, sono nel cerchio IX ed infimo. Al quale, già per la diminuzione d’ogni cerchio ridotto a stretto pozzo, non è discesa nessuna, ma le pareti del pozzo sono sostenute a guisa di cariatidi da Nembrotte e dai giganti antichi che mossero la guerra a Giove; ed uno di costoro prendendo i due poeti su all’orlo nell’VIII cerchio, li depone giù al fondo nel IX31. E qui i traditori son tutti puniti nel ghiaccio, ma con modi variati, in ciascuna delle quattro zone concentriche, ma tutte sul medesimo piano. La prima e più ampia chiamasi Caina, e contiene i traditori dei parenti; e vi sono Camicion de’ Pazzi, Alessandro e Napoleone degli Alberti, Mordrecco figlio d’Artù re d’Inghilterra, un Focaccia, e Sassol Mascheroni, e vi s’annunzia Carlino de’ Pazzi32. La seconda zona è detta Antenora, e vi sono i traditori della patria; fra cui Bocca degli Abbati traditor de’ Fiorentini a Monte Aperti, e Buoso da Doara traditor di re Manfredi, ed un Beccaria e Giovanni Soldanieri, e con Ganellone traditor di Carlomagno un Tebaldello da Faenza; e finalmente, l’un sopra l’altro, com’è noto a tutti, i due Pisani, l’arcivescovo Ruggieri ed Ugolino33. De’ quali leggendo qui a suo luogo, farà forse più ch’ogni altra cosa meraviglia, il trovar tanto vigore di descrizioni e favella, dopo tante accumulate e fin qui cresciute descrizioni. Incredibile, inconcepibile veramente è la forza creatrice di Dante; che scoraggiato, come tutti, più volte nel corso della lunga opera sua, si vede poi, come nessuno, giugnere al fine non che fresco e vivissimo, ma più forte che mai. Nè dicasi questa meditata arte di crescer forza sino al fine; fu natura, che quanto più va, più si tempra. La terza zona, o Tolommea, comprende poi traditori così perversi, che hanno il privilegio, come è chiamato dal Poeta, di precipitar costì ed esservi tormentate le loro anime, mentre restano i loro corpi sulla terra, dove, animati da un diavolo, paion vivi. E qui sono così un frate Alberico da Faenza, e ser Branca d’Oria Genovese, vivi ancora, ma con tal amarissimo artifizio introdotti giù in inferno dal peggio che mai satirizzante poeta34. E finalmente, giunge egli alla Giudecca, quarta ed ultima zona del nono ed ultimo cerchio; in mezzo alla quale sono tre massimi traditori (e nota qui il giudicio e la comparazione ghibellina), Bruto, Cassio e Giuda, tutti e tre maciullati nelle tre bocche delle tre faccie del demonio massimo Dite, o Belzebù. Alato questo, l’ali sue sterminate fanno, sventolando, il gelo di Cocito, o palude di tutto il cerchio. Egli stesso, il gran demonio, fittovi addentro, ha la metà del corpo immane nel nostro emisfero, l’altra nell’opposto. E per li peli smisurati scende Virgilio con Dante avvinghiatogli al collo; e giunti al mezzo del corpo, e così al centro della terra, Virgilio si volge sotto su, e risale con Dante prima su per le gambe del mostro, e poi per un foro o caverna dell’altro emisfero, finchè giungono a rivedere le stelle, un giorno dopo la loro entrata per la porta eterna35.

Tale è la lunga trama, lo scheletro della prima Cantica; scheletro, dico, spolpato di quanto gli dà vita, e nudato de’ suoi mirabili ornamenti; ond’io me ne scuso a Dante ed agli ammiratori di lui. Chè, quantunque grande e tutto proprio sia il merito del concetto generale, solo qui tentato accennare, di gran lunga maggiore è quello dell’esecuzione. Ne’ particolari della quale chi s’addentri, intenderà da sè, e perchè l’autore voglioso di adoprar tutte le figure, tutti gli stili, abbia chiamata Commedia l’opera sua; e come queste figure così varie e così vive, questo stile pur così vario, e massimo così proprio in ogni sua parola o sillaba ( tanto che supera forse in ciò ogni altra umana scrittura), abbiano, di generazione in generazione, tirata a sè l’ammirazione costante di quanti furono o sono non pigri lettori. Imperiocchè, vigorosa e ripetuta vuol esser la lettura d’ogni opera vigorosamente e lungamente fatta; ma di questa sopra tutte l’altre. Lo stile di Dante è simile a quelle forti composizioni musicali, che piene di melodie ed armonie, ci rapiscono l’anima al primo udirle bensì, ma confusamente, e senza lasciar tempo o respiro a distinguerne le bellezze; e non è se non dopo molte audizioni, e a poco a poco, che arriviamo a intenderle compiutamente. Disperi chicchessia di goder bene la Commedia leggendola troppo diversamente dal modo in che fu scritta.

Ma, fatta tutta la sua immensa parte all’ammirazione, non lasciamoci ingombrare l’intendimento, nè soverchiare il giudicio nemmeno da tanta grandezza; e scusiamo Dante che scrisse concitato d’amori e d’ire; amori ridotti a desiderii; ire, all’incontre, presenti e crescenti, e nell’età delle rovinate speranze: ma scusiamolo appunto perchè errò; errò d’ire municipali, personali e quasi femminili, contro ai concittadini, ai vicini, uomini pubblici e privati, in tal quantità che vedemmo, e nel modo più acerbo, più vendicativo, e men cristiano che sia, mettendoli d’autorità usurpata ed atroce fra gli eternamente dannati. Tale idea, tale scempio, non poteva essere se non d’un secolo barbaro ancora, e seguente la diva religion nostra nelle sue severità, ed anzi esagerandole, più che non nella sua misericordia e mansuetudine. Condannabile, certo, e vituperato sarebbe a nostra età, chi imitasse pur da lungi Dante in ciò. Nella sua, in tale età dove la crudeltà era quella che si chiamava giustizia, ei credè forse fare non più che giustizia.

Ma fecela certo, gridando contra le città disordinate, parteggianti ed immortali del tempo suo. Quattro invettive sono nell’inferno contra Firenze36, ed una per ciascuna contra Pistoja37, Lucca38, Siena39, Pisa40 e Genova41, quasi in un crescendo sino al fine della Cantica. In tutto, questa, non tanto forse per il soggetto, quanto per il tempo e le disposizioni in che fu scritta, riuscì la Cantica dell’ira, appena temperata da qualche dolce parola di Beatrice, da alcune a Virgilio, e dal Canto di Francesca. Ma non tutto o sempre ira fu perciò lo scrittore. Amore, inifnito amore era in lui, che non è in tanti imitatori ed ammiratori di lui. Coloro che non leggono se non l’Inferno, e non conoscono gli angeli e gli affetti del Purgatorio, e la Beatrice del Paradiso terrestre, e le gioje del Paradiso celeste di Dante, non conoscono se non la parte feroce, e lascian tutta la parte amorevole di lui. Chi non tema esaltare in sè le passioni amare, rilegga dunque continuamente l’Inferno; chi voglia temperarle co’ dolci affetti, proceda al Purgatorio; chi voglia innalzar l’animo alle cose soprannaturali, legga il Paradiso: ma chi voglia conoscere Dante veramente, studii tutto il Poema, nel quale tutto sono ora aperti ma talor nascosti, i tesori di quella ricchissima natura.

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Note

  1. Le più, o forse tutte le descrizioni della fabbrica dell’inferno, e le figure di esso, lo fanno coperto di una crosta di terra, o volta. Ma parmi che s’opponga a ciò il vedersi gli astri dai due poeti (VII,98;XI,113-115;XX,124; XXIX,10). Bensì, quanto si scende più giù, tanto le nebbie e i fumi oscurano l’aere più e più.
  2. Anche questo è diverso dalle fabbriche e figure dell’inferno da me conosciute; che tutte fanno due cerchi del luogo dell’anime triste, e del limbo de’ grandi antichi. Ma 1° i poeti non iscendono dall’uno all’altro luogo, anzi passano su un’acqua; 2° il limbo è detto primaio, e gli altri secondo, terzo, e via via (V,1,2). Quindi parmi chiara la disposizione di livello de’ due luoghi; e che le due parti del cerchio I° sieno tutte e due limbo.
  3. Canto III.
  4. Canto IV, aggiungendovi gli altri grandi antichi qui stanziati, ma accennati nel Purg. XXII, 97.
  5. Canto V.
  6. Vedi Parte 1, cap. XIII.
  7. Canto VI.
  8. Canto VII.
  9. Gli argomenti e commenti non sogliono porre nel V° cerchio se non gli irosi. Ma vedesi nel Canto VI, 117, che colle parole Ed anche vuo’ , distingue gli irosi che stanno a galla, da altri peccatori fitti nel limo (verso 121), che si vedono esser gli accidiosi dal verso 123.
  10. Canti VII, VIII.
  11. Canto IX, 60
  12. Che gli eresiarchi e miscredenti sieno qui puniti come superbi, me lo fa credere, prima la terzina 91-94 del C.IX; poi, principalmente la ragione poetica, o se si voglia dire simmetrica, per cui i sette peccati mortali purgati in purgatorio debbono essere puniti in inferno. Il che ammesso, già vediamo puniti ne’ cerchi II° e IV° Lussuria, Gola ed Avarizia; e nel V° i due altri Ira ed Accidia. Restano quindi Superbia, che credo punita qui nel VI°; ed Invidia (presa nel senso latino di odio) che genera ingiuria, punita poi nei due inferiori VII° ed VIII°; restando il IX° a Lucifero e ai tre traditori massimi. Del che vedi Canto IX, 22 e seg.
  13. Queste tombe sono paragonate (Canto IX, 112, 114) a quelle di Arlì in Provenza, e di Pola in Istria. Dovremo noi quindi dir qui come altrove, che quando Dante scrisse ciò, egli avesse vedute di proprio occhio quelle due città; e que’ lor sepolcreti! Ne dubitai a lungo; ma cercati meglio i commenti della Minerva, e trovatovi che nella Vita di Carlomagno attribuita a Turpino si fa menzione di quel cimitero d’Arli, mi par chiaro il fonte di questa citazione, fatta, del resto, di corsa da Dante. E quanto a quella di Pola, fatta al medesimo modo, ella potè pur esser tratta da qualche libro allor noto, ma forse anco dal luogo stesso meno inverisimilmente visitato da Dante.
  14. Canto VIII, IX, X, XI.
  15. Canto XII.
  16. Canto XIII.
  17. Canto XIV.
  18. Canto XV.
  19. Canto XVI.
  20. Canto XVII.
  21. Canto XVIII.
  22. Ibi.
  23. Canto XIX.
  24. Canto XX.
  25. Canti XXI e XXII. Io non aggiungo note storiche su personaggi accennati, che sarebbero troppe s’io volessi far conoscere ognuno di essi, o correggere gli errori de’ commentatori. Qui poi non mi so trattenere di citarne uno, ad esempio. Dante, parlando di questi Sardi del secolo XIII, usa due modi di dire di lor paese lasciar di piano, e Donno(C. XXII, 85 ed 83, 88); ed è curioso veder qui (Ediz. Min.) un commentatore spiegare questi due modi di dire colla lingua spagnuola, la quale non potè entrare in quell’isola se non con gli Aragonesi, al tempo appunto (al più presto) in che Dante scrivea.
  26. Canto XXIII.
  27. Canti XXIV e Canto XXV. In questa congratulazione, cioè anzi imprecazione a Firenze, Dante parla dei mali desideratile, non che da altri, ma da Prato stessa; e ciò ha relazione senza dubbio all’inasprimento delle parti fiorentine per quelle di Prato nel 1304, quando il cardinal da Prato venuto per piacere in tutte e due, fu prima ignominiosamente cacciato da questa, e tornato a Firenze non vi potè far frutto, e lasciòlla.
  28. Canti XXVI, XXVII.
  29. Canti XXVIII, XXIX. Quantunque io fugga anche più che l’altre note filologiche, non mi pare da lasciar questa. Dice Maometto a Dante: Ma in chi se’ che ’n su lo scoglio muse, Forse per indugiar d’ire alla pena (XXVIII, 43, 44); dove musare è evidentemente muser francese, star a bada, star a guardare; che nol trovo nè commenti nè in Monti. Biagioli lo tra da s’amuser, che è affine, ma diverso.
  30. Canti XXIX, XXX.
  31. Canto XXXI.
  32. Canto XXXII.
  33. Canti XXXII, XXXIII.
  34. Canto XXXIII.
  35. Canto XXXIV.
  36. Canto VI,49, XV, 73, XVI,73, XXVI,1.
  37. Canto XXV,10.
  38. Canto XX,41.
  39. Canto XXIX, 121.
  40. Canto XXXIII,79.
  41. Canto XXXIII,151.

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