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Questo testo fa parte della raccolta Alcuni scritti del dottor Carlo Cattaneo, volume I


VITA DI DANTE

DI

CESARE BALBO1


Perchè mai mentre il cinquecento ebbe quaranta edizioni di Dante, il seicento, tutto addottrinato e fastoso di collegi e di academie, ne diede tre sole e assai meschine?

Perchè mai, col succèdere del settecento, Dante tornò in tanto favore agl’Italiani, che alla fine di quel sècolo se ne contavano già trentaquattro edizioni: ed ora, nei soli trentott’anni che córsero di questo sècolo XIX, se n’èbbero già più di settanta, ossia altretante a un dipresso quante se ne fècero nei trecento anni precorsi?

Nello snervato e tòrpido seicento un’edizione bastava al consumo di trentatrè a uni, ossìa d’un’intera generazione: nel sècolo seguente il bisogno era più di dieci volte maggiore; l’età vivente omài ne divora una ristampa in sei mesi. Nè ciò sarà forse tutto. L’Italia versa ogni anno entro le scuole di belle lèttere una nuova leva di forse diecimila giovinetti. Ove ognun di loro si munisse d'un Dante, per uso di tutta la vita, o almeno per apparato scolàstico, se ne richiederèbbero altre più migliaia di copie ogni anno. E non poniamo in conto le edizioni eleganti e costose, che lo studente, fatto mèdico, fatto avvocato, pone in luogo del sùdicio esemplare giovanile, e destina agli onori del marrocchino ed ai sonni inviolati della librerìa virile.

Parrà irriverenza e barbarie parlar di Dante con questo gergo numèrico. Eppure le ristampe non si farèbbero, se non accorrèssero costanti i compratori. Perlochè il nùmero di quelle edizioni segua certamente il favor pùblico e le propensioni di chi scrive ai nostri giorni, all'incirca come i gradi del termòmetro dinòtano i tormenti dell'inverno e gli affanni dell'estate, o come i pòllici del baròmetro annùnciano di quanto un luogo si appròssimi di livello alle alpi gelate o alle tèpide aspèrgini del mare.

Fin da quando il buon Muratori risvegliò la istoria del medio evo, e il Varano gettò fra le corrotte academie la prima imitazione dantesca, l'Italia infervorata a ristaurare le memorie del suo risorgimento, volle riannodare la catena della letteratura sociale, e da trastullo di scioperati tornarla strumento di vita civile. Gli scrittori non furono paghi omài di far millanteria d'ingegno in un crocchio d'iniziati; ma si dièdero maestri delle moltitùdini e nunci dell'ùtile e del vero. Parini e Gozzi sbeffarono l'inerzia adagiata nei cocchi lombardi e nelle gòndole veneziane; Beccarìa, Verri, Bandini, Filangieri scrùtarono le insituzioni civili; Baretti sgridò gl'Italiani, perchè non èrano Inglesi; e Alfieri pensò rifarli da capo, perchè non èrano più Romani. Egli allora li volle virili, torvi, frementi; altri cominciò poco di poi a volerli tutti eterei, melliflui e sospirosi; non manca chi li spera fra poco tutti neri di carbon fossile e di ferraccia. E allora e poi, gli scrittori si elèssero fini arditi, altìssimi, forse impossìbili, come se la nazione fosse una materia prima, senza opinioni, senza antecedenze, senza volontà; un frusto di ceralacca, che dovesse prèndere ogni impronta ad arbitrio degli scriventi.

Ma intanto tutta la nostra letteratura è trasmutata. Non più il culto del Petrarca e del Boccaccio; non più il terrore dei Salviati e dei Salvini; non più il dolciume degli Arcadi, o il grasso bollente dell'Aretino. La nostra gioventù si è appassionata d'Omero nella virile versione del Monti; rècita a mente d'Ugolino e d'Uberti; vanta Otello e Macbeto, Fàusto e Ivanhòe; e soprattutto si vanta ammiratrice alla grandiloquenza dei poeti ebrèi e alle tetre memorie del medio evo; nàusea nelle lèttere ciò ch'è meramente letterario, sdegna la lode dei dotti, affetta disprezzo delle forme. La somma ambizione d'uno scrittore novello è d'aver favore dagl'indotti, e secondo le viste della propria scuola, cacciar bene inanzi, o ricacciar bene indietro, la marmagli dei minori viventi.

La cosa non è facile; perchè i destini delle nazioni si sono complicati fra loro inestricabilmente; e le religioni, le guerre, le finanze, le lèttere, le mode, le carte pùbliche, le società industri, fècero di tutta l'Europa un solo vòrtice, che

Mena gli spiriti colla sua rapina.

Non v'è ormai pòpolo che abbia in sè solo la ragione del so moto e della vita civile, e che possa dirsi lìbero signore delle sue opinioni, e nemmeno delle forme di cui l'opinione si veste. E mal per lui se lo fosse, perchè in pochi anni si troverebbe fantoccio, e mummia, a trastullo dei popoli viventi.

Perlochè quando vediamo gli scrittori gonfiar pretese di missioni e d'apostolato, ne sembra vedere sul lago di Zurigo i poveri d'Einsìedin, messi dai maligni barcaiuoli a tirare una corsa per aiutare alla spinta dei rematori. Lo scrittore s'illude degli sforzi che fa tirando una nave la quale, cacciata inanzi da ben altre forze, lo trae seco verso regioni ch'egli non sa. Ma in questi vani tentativi d'Alfieri che rivuole i suoi Romani, di Bèranger che si consuma d'amore per la Vecchia Guardia, di Chateaubriand che vuol trarre dai sepolcri quell'antica baronìa francese, che viveva a crèdere e battagliare, v'è una generosa semplicità che conforta l'ànimo. Piace raffrontare queste nòbili illusioni al rozzo senso commune di coloro, che càmminano carponi verso i carnali e bassi fini della vita effettiva. Ma solo chi crede che i fiori fàcciano la primavera, e non la primavera i fiori, può crèedere che i versi e le prose fàcciano le nazioni, e non sìano meri frutti e indizii della loro vita politica e morale, e òpera sopratutto di quella sorte che nel fondo dell'Inghilterra, in casa d'un macellaio, fa nàscere il divino Shakespear.

Dacchè per la nostra letteratura ha dovuto per forza dei tempi assùmere dignità di ministerio civile, e questa sola persuasione basta a conferirle decenza e dignità, era naturale ch'ella cercasse soprattutto ricongiùngersi ad uno scrittore, che, oltre all'èssere più grande e più antico, era più profondamente impresso di quella splèndida persuasione che le lèttere sìano una irresistìbile arme civile.

È per ciò che nel nòvero degli illustratori di Dante o dei coltivatori delle controversie dantesche si riscòntrano i più illustri nome del sècolo. Pare che nessun bell'ingegno si rassegni a lasciar questa vita, senza legare all'Italia una nota istòrica, uno schiarimento scientìfico, una riforma almeno d'un punto e d'una vìrgola nel testo della Divina Comedia. È inùtile rammentare Fòscolo, Monti, Perticari, l'Autore del Veltro Allegòrico, e gli altri tutti, sacerdoti del Dio Dante; qi quali ora s'aggiunge Balbo di torino. Balbo, s'apprese al principio, omai posto in piena luce, che, essendo l'Alighieri poeta civile, non lo si possa apprezzare nè còmprendere, senza riferirlo agli eventi ed alle persone fra cui visse, e verso cui volse gli odii e le speranze. Laonde questa Vita di Dante è in parte un memoriale delle vicende di quell'età sanguonosa, che vide il supplicio dei tempari e la balestra di Guglielmo Tell, che inalzò il patibolo di Corradino e lo vendicò nei Vespri di Palermo.

Chi dall'aquilino e arcigno profilo, dalle rugose labbra e dall'austero capuccio di Dante se lo imàgina un'ànima dura e inàmabile, s'inganna a partito. Dante fu il vero cavaliere del medio evo; uno degli ùltimi di quella stirpe romanzesca, che viveva tra i tornamenti e i duelli; e cantando di gloria e d'amore andava a morire nelle crociate. Nella crociata di Currado Imperatore era morto l'antenato suo Cacciaguida, dopo avervi conquistato combattendo il cìngolo di cavaliero. Dante viveva nella più culta e gentile città di quei tempi, quando veniva risurgendo l'arte musicale, e Cimabùe e Giotto risuscitàvano la pittura; poco dopo che i trovatori provenzali e i siciliani avèvano ravvivata la poesìa. Perciò la sua gioventù cavalleresca fu divisa fra le armi e le arti, e nulla ebbe della ferocia castellana.

In un tempo nel quale le famiglie erano sanguinose custodi dell'onor delle donne, e il dovere della vendetta si tramandava nei figli dei figli, l'amore vestiva le forme d'un'affettuosa venerazione. E Dante innamorato, nella prima adolescenza, di donna bellìssima che morì giòvane, ammirato e additato dalle donzelle di Firenze come il più devoto e puro degli amatori, vivendo con cantori e poeti, fra giostre e armeggiamenti, pronto a cavallo nella prima fronte delle battaglie (e così vorremmo che alcuno una volta il dipingesse), non aveva grido di poeta se non per i suoi versi d'amore. Questa tempra appassionata dell'ànimo suo fu ben dipinta dal Balbo in un capìtolo ch'egli intitolò d'amore e poesìa; poichè queste due fiamme àrsero sempre eguali nell'ànima di Dante, e si spènsero solo colla vita.

Se tutto il libro del Balbo fosse dettato con siffatta libertà e scioltezza, sarebbe stato più breve e più bello; ma egli, pur proponèndosi di non volerlo, urtò in un medesìmo scoglio con tutti quelli che scrìssero di Dante. Volle seguirlo passo passo nei diecinove anni del suo esilio, quando da ministro dello stato e d'ambasciatore al Pontèfice, trovàtosi d'improviso sbandito, spogliato dei beni, condannato per calunnia di concussioni ad èssere arso vivo, ebbe a ripararsi qua e là nelle castella dei baroni ghibellini, in mezzo a continui perìcoli di tradimenti e di prigionìa, meditando un libro che redimesse la sua parte dalla taccia d'empietà e dalle maledizioni che gli si fulminàvano ogni anno sugli altari delle città guelfe, e rivolgesse l'odio e l'infamia sul capo de' suoi persecutori. Ora, nessuna menzione mai fece Dante di questo arcano suo Libro dove ne avesse composto le sìngole parti o avesse osato divulgarle. E siccome poneva d'aver fatto la sua visione nell'anno 1300, così v'andava innestando, a modo di predizione, tutti i grandi fatti che sopravènnero di poi, fino all'anno della sua morte. Laonde, nelle prime pàgine della Divina Comedia quasi tutti i commentatori vèdono le lodi d'un prìncipe di Verona, che divenne poi capitano formidàbile della lega ghibellina, e all'ombra del quale il Libro potè venire ala luce del giorno. Ma nel 1300 il gran capitano era fanciullo di nove anni; ed era giovinetto di diecisette quando, al crèdere del Balbo, quella càntica era già compiuta e data fuori. Questi minuti scrutinii di luoghi e di tempi sarèbbero sempre inùtili e tediosi, anche quando non fòssero fallaci; e perciò la lettura dei due volumi del Balbo, che sul principio e sulla fine scorre piacèvole e vivace, va intorbidando e languendo nel mezzo dell'òpera, e fa veramente desiderare che l'autore non si fosse messo in siffatte spine.

Pare eziandìo ch'egli sia troppo corrivo a tollerare tutte le lrorìole municipali, che addìtano a punto a punto l'anno e il mese, in cui Dante doveva èssere stato òspite a Fonte Avellana, a Castel Colmolaro, a Cividale, a Paràtico, a Tolmino, e in altri luoghi che forse non visitò mai, se non nell'itinerario del Troya. Come crèdere così leggermente, che Dante scegliesse di far vacanza nei castelli d'un Torriano, parente di quel Napoleone che i ghibellini avèvano fatto morire in una gabbia di ferro, e capo di quella fazione che aveva predato i beni e diroccata la casa di Dante e lo voleva arder vivo? Se non vi andò per avventura ambasciatore di qualche signore ghibellino, come crèdere che s'arrischiasse d'andarvi altrimenti, in una età di gabbie di ferro e di trabocchetti? Nessuno de' suoi parlò di questa sua gita e di questa ospitalità torriana, che, mirabilmente estorta a un nemico, sarebbe uno dei più splèndidi trionfi della poesìa, ma che agli altri ghibellini poteva parere un segnale di perfidia. Come crèdere che a Tolmino gli alpigiani; slavi, che pàrlano l'idioma cragnolino, poco diverso da quello dei Croati e dei Cosacchi, venìssero sì fattamente incantati ai versi di Dante, da tramandare ai loro pòsteri dopo cinquecento anni la memoria del sasso dove si era assiso, e dove componeva non so qual trattato della natura dei pesci? E la prova di questo sarebbe che in quelle Alpi vi sono «passi strettissimi», e giusta una crònica «si crede che Dante vi scrivesse alcune parti delle sue càntiche, per aver i luochi in esse descritti molta correspondenza con questi». Il che varrebbe altretanto a provare che Dante scrivesse le sue càntiche nei monti Pirenèi.

Nel quinto o sesto anno dell'esilio suo, Dante recossi a Parigi, e v'attese a studii che tornàvano necessarii a dar nervo scientìfico all'òpera sua, che doveva èssere tutta piane di siffatti argomenti. Boccaccio, che gli visse assai vicino di tempi, dice solo che «passati i monti che divìdono l'Italia dalla provincia di Gallia, COME POTE' se n'andò a Parigi». Ma il Balbo a quei monti soggiunse: cioè gli Appennini delle due riviere fino a Provenza. Ora gli Appennini non sono invero i monti che divìdono l'Italia dalla provincia di Gallia. E se Dante nòmina qua e là nel suo poema tre o quattro luoghi delle marine di Liguria e di Provenza, chi può sapere se li abbia visti mai? o se li vide piuttosto nella gita che nel ritorno? o se non li aveva visti prima, giacchè i sepolcri di Arle si tròvano nominati nell'Inferno, che, al dir di Balbo, era già finito e publicato prima di quel viaggio? E sappiamo ch'egli soggiornò a lungo nei vicini feudi dei Malaspina, che si vàlsero di lui per ambasciatore; ed a quei tempi le loro squadre e quelle dei Fieschi loro congiunti corrèvano tutti quei monti, e ssalìvano Gènova, e prendèvano Parma.

Pure il sig. Balbo afferma che «andando a Parigi ei NON POTE' PASSAR ALTROVE che per Provenza, e molto probabilmente per la via antica, e nuova, e quasi sola, d'Avignone». Ma Genova ed Avignone èrano nidi di guelfi caldìssimi, mentre varie città e signorìe di vassalli imperiali, potèvano conduslo salvo fino al sommo delle Alpi. E il Balbo stesso per condur Dante in Lunigiana trovò che «NIUN'ALTRA VIA gli era quasi aperta in mezzo alle guelfe Ferrara e Bologna, se non per Màntova e Parma città ghibelline, ondechè NON SI PUO' DUBITARE CHE PASSASSE PER ESSA?». Ma perchè mai chi aveva strada aperta fra i guelfi di Genova e d'Avignone, non poteva averla fra i guelfi di Ferrara e di Bologna? Perchè mai nell'un caso non potè Dante passar altrove che fra i guelfi, mentre nell'altro non si può dubitare che passasse altrove che fra ghibellini? Queste èrano tutte stèrili triche da saltarsi a piè pari, perchè nessuna luce ne rivèrbera sul cuore di Dante e sulla sua mente; e il C. Balbo saprà farne accorto sacrificio in una novella edizione, che senza dubio verrà richiesta del suo libro.

Il dotto scrittore sembra lasciarsi trarre ad accògliere come òpera di Dante ogni troppo mìsera e troppo fiacca inezia, che gli venisse gratuitamente attribuita da eruditi senza tatto, parecchi sècoli dopo la sua morte. Chi può crèdere frutto della più matura età del gran poeta una terzinaccia come questa?

Difèndimi, Signor, da lo gran vermo,
E sànami; inmperò ch'io non ho osso,
Che conturbato possa omài star fermo.

In questi versi si vede una sconciatura di quella ràpida e pittoresca e fremebonda terzina:

Quando ci scorse Cèrbero, il gran vermo,
Le bocche aperse, e mostrocci le sanne.
Non avèa membro che tenesse fermo.

E il tener fermo è ben altro modo che lo star fermo; e Dante non era così stremo di parole che, traducendo un salmo, potesse ripètere di sè stesso quelle voci che nell'Inferno aveva applicate a un cane, e potesse cader nel brutto equìvoco di lagnarsi di non avere un osso.

Tutto ciò non accade perchè al conte Balbo manchi gusto di poesìa o delicatezza di sentire, ma per uno strano propòsito di rappresentar Dante come Dante non fu. Il che proviene da spìrito di parte, e da due supposti, nei quali non è facile convenire; il primo dei quali si è che il poema di Dante, perchè dettato a lui da passioni civili e religiose, possa avere oggidì un'efficacia civile e religiosa che veramente non ebbe mai; e il secondo si è che le fazioni dell'età nostra pòssano riguardarsi come raffigurate in quelle del tempo di Dante.

È perciò che l'autore si affaccenda a provare, che Dante non intese dir male della corte di Roma, ma solo di quella d'Avignone, come quella che fosse dannosa all'Italia ed alla chiesa. Ora Bonifacio, tanto bersagliato dalla Divina Comedia, era pur papa di Roma e nato in terra romana; e il soggiorno dei pontèfici in uno od altro luogo non tolse mai nulla nè aggiunse alla loro autorità.

Dante scrisse da ghibellino; e Balbo si protesta guelfo; il che davvero non aggiunge valore a ciò ch'egli può scrìvere per chiarire il vero ànimo di Dante. Balbo vuole che la parte guelfa sia la parte nazionale in Italia; eppure nei vespri siciliani, che fùrono un fatto di nazione quant'altro mai, non si fece strage se non di guelfi.

Invero non si vede parte nazionale, dove l'una invoca Arrigo di Lussemburgo e l'altra Carlo di Francia, e tutta l'Italia vien corsa da Provenzali e Angioini e Svevi e Fiamminghi e Inglesi e Catalani e Caorsini e Guaschi.

La mente si affatica a dipanare quella scarmigliata matassa che il tempo fece dei guelfi e dei ghibellini, quando vènnero a intrecciarsi le rivalità marìttime, le ingiurie confinali, li avvolgimenti dei trattati e delle leghe, li interessi delle famiglie, le ambizioni dei capitani e i casi delle battaglie. Troviamo ghibellina la più valorosa di quelle repùbliche, Pisa; troviamo guelfi i Signori d'Este e molti baroni d'Apulia. Nondimeno a chi prende le cose dai loro principii e le corre d'un guardo generale, appar chiaro che tutta quella mischia proveniva dalla resistenza che i feudatarii delle provincie dovèvano opporre al rinascente potere delle corporazioni cittadine. Erano due mondi diversi, due leggi, due vite; la società rurale e la società urbana, distese in lungo e in largo per tutta la penìsola a combattersi e divorarsi; èrano come una stoffa in cui la trama e l'orditura sono fili di diverso fiocco, e il più duro rode l'altro e lògora sè stesso.

Ed ora in te non stanno senza guerra
Li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
Di quei che un muro e una fossa serra.
...................................................................
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
De' tuoi gentili.

Romagnosi, nel suo volume sull'Incivilimento, notò che l'agricoltura è il fondamento dell'economia, come la possidanza territoriale è il fondamento del potere; e che i municipii italiani nel loro risurgimento cominciàrono dal ramo industriale e mercantile per giùngere al territoriale; e perciò ripigliàrono l'incivilimento antico in òrdine inverso. E v'èbbero a trovare gravìssimi ostàcoli, che non li lasciàrono gettare le radici naturali e salde del civile ordinamento. Così Romagnosi; ma questa verità non fu vista da Sismondi, il quale non riguardò la caduta delle repùbliche comunali come una fusione dei due principii avversi, ma come una ricaduta della civiltà.

Tre elementi costituìvano il principio ghibellino: beni feduali, unità imperiale di tutta l'Italia, e avversione alla chiesa. I tre opposti elementi formàvano il principio guelfo: beni mercantili, repùbliche municipali, e avversione all'imperio. I fondamenti erano questi; il resto era variazione fortùita e secondaria.

Ora come può il signor Balbo parlare di guelfi e ghibellini moderni? I tre elementi che costituìvano quei principii si sono disciolti affatto e in sempiterno. La proprietà fondiaria non ha più natura feudale, nè avversione al Pontèfice, nè dipendenza da altro potere civile che dello Stato entro cui vive. I grandi e gentili non vìvono più nei feudi; non hanno armi proprie; non hanno fortezze in campagna; nè torri in città; nè avanti ai tribunali dichiàrano, a guisa di stranieri, di vìvere secondo la legge sàlica o la legge longobarda. In ogni Stato una legge sola e un solo giùdice attribuìscono i diritti; e una sola forza pùblica li sanziona. E quando il signor Balbo si chiama guelfo, anzi ci vuole in Italia tutti guelfi, siamo tentato di guardarlo attònito, come uno dei Sette Dormienti, che si sveglia a finire un discorso incominciato cinquecento anni fa. Il nome di guelfi suppone il riscontro dei ghibellini; il nome di guelfi non può mai convenire a una nazione, nella quale chiunque ha cento scudi vuol divenir possidente; la quale si adagia quasi tutta nell'agricoltura; e guarda le procellose meraviglie del commercio e dell'industria come cose accessorie, a cui vorrebbe partecipare soltanto quantum sufficit, e in via di decorazione e di moda. Se nel tempo dei guelfi la civiltà italiana fece troppo poco fondamento sull'agricultura, potrebbe dirsi oggidì sia trascorsa all'opposta estremità, e ora mai sia davvero troppo lontana da quel vivere venturoso e intraprendente dei guelfi, che allevò Enrico Dàndolo e Marco Polo e Colombo e Americo.

Dante, essendo possidente d'antica famiglia, studioso, guerriero, e per nulla trafficante, tuttochè nato in Firenze aborriva la mercatura e la banca, e sprezzava «la gente nuova»; sprezzava «i villani che venuti da Aguglione, da Signa e sa Semifonte, dove il loro àvolo andava alla cerca, s'èrano, cambiando e mercando, levati ai sùbiti guadagni ed agli onori della città, della quale deturpàvano i costumi». Quindi il suo cuore fu sempre per gli usi cavallereschi, pieni d'amore e cortesìa; e affettò perfino di sprezzare ogni linguaggio di pòpolo, e lo stesso suo toscano, vantàndosi di scrìvere solo in quella lingua àulica purificata nelle corti e nelle università. Laonde quando fu magistrato di Firenze, quantunque professasse attenersi al giusto mezzo, che allora si chiamava la parte bianca, fu tenuto fautore dei capitani ghibellini. E appena i caporioni neri giùnsero a farlo bandire, egli si gettò affatto coi ghibellini, e scrisse il libro della Monarchia e la Visione, affinchè i guelfi non avèssero più vantaggio di diritto sacro nè di profano. Perlochè fu errore il dir guelfa l'educazione di Dante, e lo studiarsi di tornarlo guelfo prima della morte, e l'attribuirgli quella incòndita versione dei salmi penitenziali, e farlo sepellire coll'àbito di S. Francesco; poichè ben si sa che i guelfi tentàrono di tòrre il suo cadàvere dal sepolcro e àrderlo e dispèrderlo ai venti, come avèvano arso la sua casa e rapito i suoi beni. Così corrèvano i tempi.

Il conte Balbo sembra aver paura di Dante, e riguardarlo come acceso di passioni contagiose e capaci di agitare la nostra età, ch'egli imàgina piena di guelfi e ghibellini. E perciò sta intorno a Dante con mille ansiose precauzioni, come se volesse redìgerlo in usum Delphini. Si faccia pure ànimo il conte Balbo; noi non abbiamo più signori ghibellini, che, ricinti dai roghi dell'inquisizione e attorniati da plebi infuriate a smantellare le loro torri, àbbiano mestieri d'una Visione dei tre Mondi, la quale annunciata in vulgare al pòpolo, li mostri in commercio essi pure col cielo, e volga in loro pro i terrori della vita avvenire. Perlochè nè noi crediamo alle visioni di Dante, nè ai decreti coi quali manda all'inferno i morti ed i vivi; nè riguardiamo le invettive sue contro Firenze o contro Gènova o contro i Pontèfici d'Avignone e di Roma, se non come un capo d'arte. Noi ascoltiamo con quieta meraviglia quella maschia eloquenza, che sgorga improvisa dal mezzo d'una nazione novella e quasi balbettante, come riguardiamo con quieta meraviglia le lave fiammeggianti d'un Vesuvio dipinto. Perciò mettiamo pure i nostri giòvani alla lettura di Dante; e Dante, rischiarato dalle sèmplici leggende di Dino Compagni e di Giovanni Villani, li introduca al gran tesoro istòrico di Muratori. Così cresceranno accompagnando all'esempio della bella e viva forma il dominio della materia istòrica; così non avremo tanti scrittori vacui del pensiero, prolissi e affettati della parola, pezzati di ribòboli da piazza, antiquati, ineguali, esitanti.

Ma dacchè siam caduti a far menzione della lingua, vogliamo notar due cose nelle quali il conte Balbo ci sembra discostarsi troppo dal vero. Egli dice che «abonda l'elemento germànico tanto più in ogni lingua, quanto più fùrono probabilmente numerose le schiatte nuove stanziate in ogni paese, e così più che nelle altre nella lingua inglese.»

Prima di tutto, non in tutte le lingue romane si diffuse il principio germànico, perchè, a cagion d'esempio, nella lingua valaca entrò quasi unicamente il principio slavo. Inoltre le lingue potrèbbero assimigliarsi ai corpi, nei quali bisogna discèrnere le fibre vitali dalla linfa e dal polpaccio che le riempie. Nelle lingue romane questa tessitura rimase tutta latina; nella inglese rimase tutta germànica; perlochè la differenza fra loro non è cosa d'un di più o d'un di meno, ma una differenza fondamentale e orgànica. E in ciò non ebbe influsso il nùmero delle schiatte straniere, perchè un pòpolo radicale assimilò a poco a poco gli avventizii.

Avvenne bensì che i Tedeschi, e infinitamente più che gli Inglesi assùnsero molte voci latine senza mutare l'ordito delle loro lingue, come avvenne che gl'Italiani e i Francesi adottàssero qualche dozzina di voci gòtiche; ma non vi ebbe mai fusione negli elementi orgànici delle diverse favelle.

Tanto il latino, quanto il greco e il gòtico, si decompòsero nel dilatarsi, e nel divenire da idiomi di tribù lingue commerciali di vaste popolazioni. Si diradò quella selva lussureggiante di nèutri, di passivi, di medii, d'ottativi, di duali. Il greco moderno non ha futuri, mentre l'antico ne aveva una dozzina per verbo, attivi, medii, passivi, participiali. Paragonate la poverissima grammàtica tedesca alle dovizie della gòtica; paragonate la inglese, la più sèmplice di tutte, alla madre anglosàssone; la danese, sì gretta, alla pindàrica breviloquenza dell'Edda. Quando si sconcerta il delicato congegno delle inflessioni grammaticali, il vulgo si confonde e le abbandona; le lingue non règgono alla libera trasposizione, e assùmono per necessità un ordine fisso, diretto o inverso, dove la posizione aiuta a stabilire il senso della parola, come le colonne delle cifre numèriche. Laonde il latino parlato si dovè semplificare, nel propagarsi pel vasto occidente e nel divenir lingua mercantile di cento rozze popolazioni, dalle foci del Tago a quelle del Danubio. E in questo le tarde invasioni dei bàrbari, almeno in Italia e in Francia, lasciàrono le cose, poco più poco meno, com'èrano prima. Che importava qualche migliaio di Vàndali o di Goti, sparsi per entro un imperio, dove già da sècoli èrano a milioni i Celti, gli Iberi e gli Africani?

L'altra asserzione del conte Balbo si è che «nei dialetti italiani si osserva maggior mescolanza di parole e di desinenze tedesche, quanto più essi sono settentrionali. Il meno mescolato e più latino è il sardo.»

Il fatto torna contrario; poichè in nessuno dei nostri dialetti popolari si trovàno tante voci gòtiche quanto nella lingua scritta, ed anzi nella parte sua più poètica ed elevata. Le parole gòtiche arpa, brando, usbergo, agguato, strale, dardo, schermo, desco, elmo, daga, stormo, tregua, senno, smacco, gramo, foggia, spalto, e così via, sono pur tutte della lingua poètica; ben poche sono incorse nei dialetti, e alcune sono appena intese dal vulgo, Esse appartèngono alla lingua cavallèresca dei romanzi, e appàiono introdutte dai curiali di Carlomagno, o dai mercenari normanni che si pòsero qua e là per l'Italia, e vi acquistàrono signorìe; ma non vìssero nelle piazze col pòpolo, nè divènnero patriarchi di numerose plebi; e si facèvano ripètere quelle loro voci straniere nelle fiabe e nelle cantilene dei loro giullari, d'onde elle pervènnero a romanzieri e poeti, e con loro si rimàsero, non intese o non curate dai pòpoli.

I dialetti di Trento, di Veròna, di Vicenza, di Pàdova, di Treviso, città poste sul passo dei Goti, degli Eruli e dei Longobardi, dovrèbbero, secondo il conte Balbo, esser quasi gòtici, e radicalmente diversi da quello di Venezia, la quale non fu invasa mai. Al contrario, essi fòrmarono tutti la famiglia dei dialetti vèneti, e non senza molto sottile attenzione, giungiamo a distìnguerli dal dialetto proprio della città di Venezia; e ad ogni modo le loro desinenze sono cento volte meno tronche dei dialetti di Bologna e di Parma, che, invece di toccar le Alpi, tòccano l'Appennino. Il dialetto vèneto, il friulano, il lombardo, il lìgure, il toscano, hanno fra loro una differenza radicale, che in nulla dipende dal settentrione o dal mezzodì; ma proviene dalla differenza delle popolazioni primitive, le quali non si sradicàrono mai dal terreno nativo, nè dopo i Romani nè prima; e assumendo dai Romani il linguaggio latino, lo modificàrono a seconda del loro anteriore idioma etrusco, o cèltico, o vèneto, o càrnico, e della domèstica loro abitùdine di pronunciarlo. Le invasioni posteriori non introdùssero in uno o in altro dialetto il mìnimo elemento che non s'introdusse egualmente in tutti, e prima ancora nella lingua scritta.

Il dialetto sardo, così diverso dal vicino còrso che si parla sul lembo boreale della ìsola di Sardegna, si lega linguisticamente piuttosto allo spagnolo che all'italiano, dal quale si divide principalmente per quel suo distintivo di terminare i plurali in s alla maniera di tutta l'Europa occidentale. Un solo dialetto italiano in ciò gli assimiglia, ed è il friulano, il quale, secondo la dottrina del signor Balbo, ne dovrebbe essere precisamente il più lontano di tutti, E solo il grigione, se potesse dirsi dialetto italiano, si dovrebbe aggiùngere al friulano e al sardo; eppure vien parlato sull'altro pendìo delle Alpi. Del resto alla Sardegna non mancàrono invasioni straniere; anzi oltre ai Vàndali e ai Goti del settentrione, v'ebbero dominio anche gli Àrabi dal mezzodì; e solo un sècolo addietro vi si faceva maggior uso della lingua spagnola che non dell'italiana, e la città d'Alghero vi parla tuttavìa un dialetto spagnolo. Ben è strano che dopo cinquecento anni che Dante cominciò a trattare dei nostri dialetti, dobbiamo trovarci ancora oggidì in tanta oscurità su così fecondo argomento, e che in sì angusti e oscuri tèrmini fra noi si chiuda ogni ragionamento intorno alle lingue.

Nè le opinioni civili nè le linguistiche sembrano il campo più favorèvole al conte Balbo; ma, lo ripetiamo ancora, egli è un eloquente e delicato intèrprete ogni qual volta si dèbbano svòlgere quei gentili affetti, dai quali nasce veramente il valor vitale d'ogni bella poesìa. E le cose che mise nel suo libro, e quelle che sembrò sollècito di velare, lo mòstrano inteso sopratutto a conciliare a Dante gli studii della gioventù. Chi legge il suo libro non può non provare un senso di affezione e di pietà per la bell'ànima e la dolorosa vita del grande Alighieri, e un desiderio di penetrare vie più colla mente nella notte di quella agitata età.

  1. Nota. Publicato nel 1839, quando uscì a Torino presso Pomba quest’òpera del conte Balbo.
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