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Portenti e nascita
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CAPITOLO I.
Portenti e nascita.
Quello che si narra di Ecuba quando avea Paride in grembo, avvenne ad Ippodamia madre di Erostrato. Perchè sognavasi continuamente di produrre faci, le quali incendessero or palagi, or templi, ond’ella spesso dal terrore destata invocava gli Dei, e si querelava col suo consorte. Ma Cleante, che tale era il suo nome, anzichè sfogare in lamenti infruttuosi, interrogava gl’indovini, consultava gli oracoli, offeriva vittime per investigare la mente de’ Numi, e placarli se fossero sdegnati. Le risposte di quelli minacciavano in sensi ambigui, che il fato destinava quel parto a far dolente la vita de’ genitori, che quelle visioni indicavano fuoco profanatore; che gli Dei già miravano con torvi sguardi quel tristo germe; e che le tenebre avrebbero ingombrata la sua fronte quand’egli avesse rivolte orgogliose le pupille al cielo. Per le quali formidabili, benchè oscure sentenze, prevalendo in lui il terrore agli affetti, deliberò evitare così fieri presagi, entro la nebbia de’ quali gli sembrava vaticinarsi che la prole sarebbe per fino parricida. Per la qual cosa quand’essa uscì alla vita la consegnò incontinente ad un servo fidato, e postolo in mare nel porto di Corinto sua patria e soggiorno, gli impose di esporla a quel lido, a cui il vento lo recasse. Avea dedicato il fanciullo vittima a Nettuno, cingendogli al collo una catena d’oro, da cui pendeva la immagine di quel Nume, e il motto «a Te sacro.» Oltre il qual segno la natura avea distinto il parto con una striscia bruna al collo. La traversìa fu varia diversi giorni, errando la nave per le isole dell’Egeo, ma in fine approdò a Lemno con tempesta. Era quella parte dell’isola, siccome alpestre e selvosa, priva di abitatori. La sua spiaggia si incurvava in ampio golfo nel mezzo di cui sboccava un fiumicello. L’impeto del mare superava quello della corrente, la quale retrograda trasse entro l’alveo lungo tratto la nave all’ingresso di una spelonca. Ivi parve al servo luogo acconcio a collocare il fanciullo sull’erbe e, calmata la procella uscì della foce, e volse la prua al ritorno.
Solevano i giovani più valenti dell’isola cacciare adunati in bande per quelle foreste. Avvenne pertanto che la luna seguente sendo alcuni principali di Lemno a tale diporto, risonavano le selve di latrati e di trombe, scorreano cervi palpitanti, fischiavano dardi. All’improvviso un nembo turbò l’aere, i fulmini squarciavano in serpeggiante fuoco le nubi, rimbombava il tuono fra le rupi, sopravvenne pioggia dirotta. I cacciatori o sotto alberi, o negli antri, si procuravano ricovero. Nel quale tumulto Menalippo giovane d’alto lignaggio pervenne ad una cavità non rimota dallo speco ov’era il fanciullo. Da quella vide entrare una cerva. Poichè fu placido l’aere, si avvicinò allo speco, e vide con maraviglia la cerva che pur timida palpitava, ma la ratteneva un bambino, il quale stringendo le sue poppe come le materne avidamente succhiava. Si trasse cautamente in disparte, onde non turbare quell’officio pietoso. Saziato il fanciullo, la cerva nodrice uscì dell’antro. Menalippo raccolse il fanciullo, seco recandolo sollecitamente gl’implorava dagli Dei fausta vita, poichè con tanta provvida cura l’aveano serbata.
Intanto ad Ippodamia in Corinto veggendo la culla vota, la nodrice sconsolata, sparito il fanciullo, di cui niuno dava contezza, sendo Cleante nel foro occupato negli Offizj civili, una oscura angoscia ottenebrò gli occhi. Scompose i crini, le bende, percuoteva il petto, e il grembo ov’era generata prole così infelice, poi tacea immota qual tomba che chiude la morte. Sopravvenne Cleante. Ella già sospettosa che per terrore dei portenti divini si fosse indotto a qualche trista risoluzione, lanciandosegli incontro con disperate grida gli chiedea il suo Erostrato, lo incolpava di atrocità, di superstizione, d’insania, e chiamava fatale quel giorno in cui gli si era congiunta a generare un figliuolo dal cielo, e dal padre a gara maledetto. Cleante intanto lasciava ch’ella sfogasse il suo cruccio in lamenti. Ma quando fu stanca la sua favella, e diè luogo alla altrui, egli con simulazione, già preparata col servo, le narrò che avea spedito il fanciullo al tempio di Giove in Dodone, e consegnato a que’ sacerdoti, perchè sconosciuto a sè medesimo vi fosse educato nel ministerio di quell’oracolo: diviso dalla patria da lungo tragitto, dedicato a placare il suo fiero destino, potea forse evitarlo, e non sentire desiderio di altra condizione di vita. Lo che udendo ella, incominciò a moderare lo sdegno suo e consolarsi. Erano però entrambi ansiosi del ritorno della nave, e vie più quanto ella indugiava apparire, talchè di continuo volgeano al mare gli occhi, e ogni vela speravan quella. Giunse perfine, e il servo conforme l’ordinato inganno espose avere consegnato il figliolo sano a’ sacerdoti, affettuosamente da loro accolto, affermando essi ne avrebbero tal cura da supplire quella de’ più teneri genitori. Ippodamia fe’ pausa a’ garrimenti.
Intanto Menalippo nella Selva di Lemno poich’ebbe raccolto il fanciullo s’inoltrava per essa, quando fu assalito da una famelica orsa improvvisamente. Rade volte quelle fiere scendevano dalle alpestri lor tane rattenute dalle continue insidie de’ cacciatori: ma i nembi aveano così sconvolte le foreste, che gli animali stessi vi erravano atterriti. Il giovane valoroso vie più strinse nel braccio sinistro il fanciullo, e trasse con la destra un dardo dalla faretra, ed animosamente lo conficcò in un occhio dell’orsa. Ella dolente si contorceva urlando e tentava co’ piedi anteriori, usandone a guisa di mani, svellere la freccia; ma quello sforzo lacerava l’occhio di più sendo la punta oncinata. La fiera perciò incollerita di spasimo rizzandosi su’ piè posteriori, e spalancata la vorace gola si spinse contro lui, il quale con altra freccia la trafisse nel petto, e la prostrò supina. Pur ella agonizzando si avventò di nuovo, e nell’occhio non spento ardeva doppia ira. Ma cadde nello sforzo estremo. Quindi coll’avventuroso carico uscito della foresta venne ove i suoi seguaci e famigli lo aspettavano, ai quali consegnatolo, ed egli salito il suo palafreno con quelli ritornò al suo soggiorno. Era questi non remoto da Lemno trenta stadj, marmoreo, lieto, circondato da orti fra’ quali scorrea un rivo. Non lungi un boschetto invitava a silenzj tranquilli. Agarista sorella di Menalippo fattasegli incontro come solea al ritorno di cacciare con lieta fronte, quando vide il fanciullo, e udì il caso, n’ebbe tenera pietà. Ella era giovane vedova, facoltosa, senza figliuoli, prese di quello una materna cura, e incontanente lo ricoverò nelle sue stanze. Ivi nell’avvolgerlo in nuovi e candidi lini osservò la collana, e il motto, e fece congettura che fosse quel parto abbandonato non per miseria, ma come furto d’amore o per tristi presentimenti. Quindi bene incominciando la vedova illustre così benefica impresa ordinò solenne pompa di sagrifizj a implorare al bambino la provvidenza de’ Numi. Fra’ quali ivi sendo specialmente venerato Vulcano, ella celebrò nel tempio di lui una ecatombe. Ma quando il sacerdote all’ara alzava con le braccia il fanciullo in atto di consegnarne la difesa al Dio, e insieme lo accompagnavano cori di fanciulle e giovanetti incoronati, e flauti, e timpani, e fumo d’incensi, una fiamma fugace lambì la fronte del bambino senza offesa. Si turbò da prima il sacerdote; gli spettatori anelarono temendo il fulmine di Giove. Ma poichè niuno tremendo indizio apparve, confortati anzi gli animi, giudicarono quel prodigio come segno di benevolenza del Nume del fuoco. Prevalendo il fausto augurio nella moltitudine, fu da quella accompagnato il fanciullo al palagio di Agarista. Spargeansi per la via sovr’esso fiori, e le donne pietose invocavano gli Dei, ed esaltavano la ricettatrice. Questa non trovando indizio del nome, gl’impose quello di Possideo sendo sacro a Nettuno come dalla collana era manifesto.