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Ritiro di consolazione
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CAPITOLO X.
Ritiro di consolazione.
Omai stanco delle ingiurie della fortuna, e prostrato l’animo suo da’ continui e varj sforzi per superarle, Erostrato come disingannato della tempestosa vita, sperava nella solitudine qualche riposo. Ivi nel tacito ozio rimosse le cagioni, e gli oggetti de’ commovimenti dell’animo, si proponea di godere alquanto di se, e non più vivere fuori di se medesimo. Ottenuto pertanto il congedo militare, scelse al divisato fine intento una villa nell’istmo di Corinto sovra colle imminente al mare, dalla cui vetta si spaziavano gli occhi nell’uno e nell’altro seno che lo circondano. Ampia e deliziosa vista piena d’isole feraci, fra le quali era continuo lo scorrere delle vele. A pochi stadj surgea entro una selva di platani un tempio marmoreo agli eroi dell’Eliso, ove soggiornavan per antico rito alcuni sacerdoti dediti a vita contemplativa. Erano sparsi per quelle sacre ombre monumenti con flebili memorie de’ trapassati. Ivi pertanto ne’ suoi diporti speculativi sendo pervenuto il solitario novello, ne gustò l’instituto, e il luogo siccome in tutto conformi all’animo suo. Nè andò guari che mediante la sua quando occorresse patetica, e moltiforme eloquenza, ottenne la dimestichezza di que’ solitarj. E però solea con loro al declinare del giorno sedere in adunanza nel prossimo lido del mare. Talvolta negli ardori estivi si dilungavano i gravi colloquj a notte. In una delle quali dopo alte discussioni la calma del silenzio ne preparava di nuove. Splendea la luna, e i flutti s’increspavano tremuli alla sua candida luce. Gli astri nell’empireo palpitavano come facelle. Glicerio di Tenedo giovane sacerdote, ascritto poc’anzi in quel consorzio, contemplava con tenera meraviglia il doppio spettacolo del cielo e del mare, dal quale commosso proruppe: «son pur dolci questi silenzj pensatori al paragone delle urbane garrulità!» Evsevaste custode del tempio a tale esclamazione soggiunse: «certo diviene muta ogni favella quando ci sta davanti gli occhi così eloquente spettacolo come l’universo. Ecco spazio infinito di sfere sparso d’innumerevoli meraviglie del supremo fattore: l’intelleto soccombe a questa immensità, consente ch’ella sia tale: comprendere non la può. Non altra è quindi la nostra scienza fuorchè uno smarrimento nella incomprensibile verità.» Mentre egli così ragionava i rosignoli con notturne querele gorgheggiavano conciliando vie più soave contemplazione. Mormorava l’onda spinta con lento moto alle arene. «Deh, soggiunse Glicerio ben vorrei mi fosse conceduto gustare l’armonia delle sfere, perocchè delizia ineffabile dee esser quella di tanto suprema lira, quando Orfeo potè con la sua vincere l’averno, ed Apollo con la sua spesso mitiga le tristezze umane. Non ha il cuore nel petto chi non vede nel cielo quella provida mano la quale gettò i pianeti tutti nella stessa via del sole, e contenne gli altri al centro del polo.» Mentre egli dicea, già le stelle impallidite cedevano il dominio del Cielo al padre della luce. Erostrato avea fino allora udite quelle sclamazioni a labbra chiuse, nè parea commosso da così nobile argomento. Lo che osservando Evsevaste incominciò: «Vorrei togliermi dall’animo un dubbio molesto, il quale alla benevolenza che per te nutro scema non mediocremente la dolcezza sua. Perocchè l’indole tua leale inclinata a sentire ed accogliere eccelsi disegni, l’ardore che ti strugge della gloria sono pregi che in te ammiro ed amo sinceramente. Ma non so per quale inesplicabile opposizione sendo tu in ogni tema di favellare rapito a trasporti sublimi di sentimento, ove poi ci occorre di ragionare dell’ordine dell’universo, intrepido spettatore di sue maraviglie mi fai palpitare di terrore, che in questo argomento maggiore di tutti non sieno come negli altri condegne le sentenze tue.» Quegli benevolmente guardandolo rispose. «Ecco pascono gli armenti le rugiadose erbe alla aurora, lieto canta il bifolco mentre stimola i buoj nel solco ferace: guizzano festosi i pesci; spaziano tripudiando gli augelli per l’aere tranquillo, e noi spregiatori del volgo, divoratori d’ogni animale ingolfati nella investigazione dell’impenetrabile vero, stanchi in fine più che persuasi, rimanghiamo ignari quanto la plebe, e più miseri de’ bruti.» Così dicendo, chinò la fronte e tacque. Surgea intanto il sole dal mare con lento progresso, e spandea nel mondo la sua luce maestosa: «Mira, disse Evsevaste, con quale obbedienza costante alle supreme leggi si rivolga così gran mole nell’eterno ordine prescritto. Con le medesime vicende riconduce le stagioni, e penetra le vegetabili fibre co’ suoi raggi animatori. Certo egli è quotidiano ministro a noi del governo divino. Nè fia ch’io tanto mi sdegni contro li suoi adoratori, quanto contro quelli che possono ripugnare alla maraviglia che tale astro infonde. La sua presenza eccita ogni mente ad inalzarsi alla eterna cagione.» Non credo errare, interruppe Erostrato, sospettando che tal motto sia dardo per me scoccato. Sappi adunque di niuna cosa io dolermi quanto di una trista perplessità, la quale mi conturba in tali investigazioni. Imperocchè ora l’aspetto del cielo, del mare, delle fertili spiagge empie in vero l’animo di quiete deliziosa, e infonde nell’intelletto il senso di benigno e ordinato governo. Ma se il funesto eclisse ottenebra il sole, se le tempeste confondono e cielo e mare, sembra allora che un genio tiranno abbia usurpato l’imperio del mondo. Il pastore incenerito dal fulmine, la nave franta ne’ scoglj, i lamenti dell’agricoltore sulla desolata ricolta oscurano l’intelletto nel comprendere la giustizia di Giove. E vie più s’intrica quando si avvallano popolose città ingojate dagli abissi della terra crollante: quando i monti si squarciano per interne fucine: quando le pestilenze mietono le generazioni: quando fiere voraci, e rettili velenosi c’insidiano per istinto nostri persecutori: quando noi stessi con tirannidi, e con guerre sovvertiamo il sempre minacciato ordine sociale: quando le infermità ognor più rattristano il momento infelice di nostra vita: quando la morte incalza ogni vivente alla tomba: quando natura chiama a divorarsi gli animali fra loro, e l’uomo a saziarsi di tutti: quando taluni bruti perfino ingordi de’ loro parti recenti li consumano. Che più? Quando io veggo la farfalla ardersi nella fiamma della mia lucerna invitata da quel lume a consumarsi, mi dolgo del suo fatale istinto. «O supremo reggitore, sclamò sollevando le mani Evsevaste al cielo, ti muova a pietà l’infermo intelletto de’ mortali! Eccone uno fra molti avveduto, eppure vedilo innanzi Te cieco e barcollante.» Quindi rivolto a lui continuò: «Concedi tu che non si possono governare gli uomini senza gastighi? o hai tu veduto, o sai che vi fosse mai in ogni tempo compreso nella storia, alcuna città mantenuta in ordine e giustizia senza quelli?» Non vorrei al certo, rispose l’altro, «vivere neppure un sol giorno ove non fosse tal freno agli umani appetiti.» Or dimmi, instava quegli, come neghi tu al rettore dell’universo quel diritto che pur concedi agli Efori, ed agli Arconti anzi a chiunque pretore di villa? Il quale diritto ben riconosci derivare dalla necessità di opporsi all’impeto delle brame perniciose. Se pertanto il Nume governa pur egli non altri numi, bensì uomini quali noi siamo, come presumi che nel governarli non debba tenere que’ modi che per consenso di ogni legislatore e per esperienza universale sono da noi stessi riconosciuti per giusti! E per qual discordanza ne’ tuoi pensieri pretendi che l’uomo può essere colpevole al cospetto dell’Areopago e non del cielo? Ma pur quanto non sono miti i rigori suoi in paragone de’ suoi benefizj? Vedi il pelago immenso percuotere il confine a lui prescritto dal dito superno nè ardire di trapassarlo. Mira nelle eccelse rupi vapori condensati in nubi, in nevi, in nembi e scendere in fiumi fecondatori. Germogliano le piante, le erbe, i fiori: generano gli animali infiniti nella varietà, ma costanti nella specie loro, nelle forme, nei colori, negli istinti, nel canto, nelle grida. Questa è quella maravigliosa concordia; la quale fa risonare ne’ nostri petti la voce eterna e divina. «Misero chi non la ode, sclamò Glicerio, perocchè non è già questo un vero che si dimostri con sottilità di argomenti, ma è celeste persuasione; ha il suo trono nel cuore, si sente più che non si esprime, muove l’animo, lo convince più con maraviglia di opere, che con artifizj di eloquenza, svelle il consenso dell’attonito intelletto, fa umide le palpebre, palpitante il cuore....... E muta la lingua, disse Erostrato prontamente Perocchè l’intelletto smarrito nella vastità di queste contemplazioni, cerca in vano alcun modo atto ad esprimersi nella favella umana, e gli è negata la divina. Pertanto in così eccelse meditazioni concedetemi che io segua la disciplina de’ Pittagorici alunni, i quali soleano udire con lunga perseveranza nel silenzio i ragionamenti de’ loro institutori.» Con modo cortese, disse Glicerio, tu declini la presente discussione, nella quale però niuno di noi presume ergersi in maestro, anzi tutti ci professiamo alunni del cielo. Allora Evsevaste con autorevole benignità «se fossero, disse, due sentenze eguali nella probabilità, l’una che attribuisce l’imperio dell’universo a mente provvida e sapientissima, e l’altra che lo abbandona al caso, certo la prima sarebbe consolante, e luttuosa la seconda, e però in pari valore da evitarsi l’una e l’altra da seguirsi. Ma che il sublime canto di Omero, la commovente lira di Terpandro, e quella mirabile eloquenza ch’or suona in Atene nelle labbra di Eschine, di Lisia, e di Demostene; e il divino ingegno di Platone, e l’animo composto di cento anime di Alcibiade, e Sofocle lagrimoso, e i portenti di Fidia, e di Apelle sieno effetti di atomi adunati alla ventura, è sentenza vergognosa. E però se delle illustri opere di nostra mente niun’altra che sublime ed incorporea cagione ascrivere se ne può, come ardiremo assegnare a tanto ordine dell’universo il disordinato capriccio del caso? Or via sarà abbandonato il mondo alla malvagità, alle sciagure; dominato da Nume crudele. Vanne pur con questa orrenda conclusione, disperato lacera le chiome, percuoti il petto anelante, immergivi lo stile, agonizza nelle tue funeste angosce. Noi allo aspetto dello stellato empireo, e della terra ferace, lieti e sommessi adoriamo la suprema intelligenza, e dal suo grembo usciti, in quello speriamo di ritornare.» Mentre egli così dicea, qualche stilla grondava dagli occhi suoi. Strinse la mano ad Erostrato e si avviò all’eremo tranquillo. Glicerio lo seguì, perocchè il lungo vegliare già invitava le palpebre al sonno. Erostrato con onesto modo si accomiatava ma con labbra taciturne. E mentre quelli si dilungavano per la selvosa via ragionavano dolenti che indole tanto straordinaria, e spinta a grandi mete, fosse poi rattenuta al basso da così infauste dubitazioni. Perocchè tal animo non pago di sè mai, e scontento dell’universo, quando non fosse moderato dalla speranza dell’Eliso, e dai terrori dell’Erebo dovea qual torrente senz’argini trascorrere in violente operazioni. Mentre questi così ragionavano Erostrato già ritornato alle sue stanze giacea nel sonno, in cui avea sommersi que’ turbati pensieri.