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Riconoscenza del padre e sua pretensione
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CAPITOLO XI.
Riconoscenza del padre e sua pretensione.
Non lungi dal tempio de’ solitarj entro le maggiori ombre della selva era una grotta, in cui sgorgava una fonte sacra alle Ninfe. Limpida, fresca; diletto a vederla, ristoro a gustarla. Ivi solea nelle ore meridiane talvolta trapassarne alcuna Cleante. In lui qual spina confitta rimanea pur sempre nel cuore la ricordanza del figliuolo. E sfogandola alcuna fiata in querele, ivi alla fonte dicea: «Scendi placida mormorando, o sacra onda, da queste rupi. Te videro quelle generazioni, delle quali tace ogni più antica memoria. Sparvero i regni superbi, le bellicose imprese giacciono nella obblivione, e tu puro lavacro delle candide Ninfe sgorghi perenne. In te si refrigerò l’anelante guerriero: qui giacque il pastore nell’ardente meriggio: gemè quasi teco a questo placido tuo gorgogliare qualche amante, e n’ebbe conforto nella somiglianza del pianto. Deh calma queste cure ch’io ti reco, e cacciale nello averno donde mi furono sospinte.» A tai lamenti sottentrava la stanchezza del dolore, dal quale oppresso giacea sulle molli erbe sopito. Avea Cleante in officio di magistratura per giustizia condannato a multe pecuniali uno sciaurato di Corinto, giovane dissoluto, audace, perduto di costumi, e di fortune. Ora costui bramoso di vendetta insidiava Cleante, e scelse questo luogo a sfogarla, consapevole di quel suo divoto ritiro. Languiva appunto nel sonno Cleante quando il tristo nemico entrò nella grotta chino, tacito, cauto e riconobbe offerirglisi pronta occasione. Impugnò l’arco, appoggiò la manca ad un tronco per assestare il colpo, e incoccata la freccia già tendeva a vibrarla. Il fato allora trasse a quello speco Erostrato, il quale pur lo frequentava da poco per asilo delle sue contemplazioni. Vide l’agguato, e in procinto la offesa: sguainò la spada, percosse il dardo, e lo troncò. L’insidiatore soprappreso gettò l’arco, e fuggì confuso. Erostrato incalzava il fuggitivo, ma il delitto gli avea messo l’ali a’ piedi. Nè potendolo raggiungere, ritornato alla grotta ritrovò Cleante mal desto e incerto se caso vero, o illusione di sogno gli fosse avvenuto. Ma l’arco, la freccia ivi rimasti, la narrazione del giovane trassero Cleante di perplessità. E mentre egli avea tutto l’animo occupato a riconoscere così improvviso benefizio, tacque in un subito come impedito nella favella. Vide nel candido petto del giovane una striscia bruna, e insieme pendergli dal collo un monile d’oro. Balbettando gli chiese donde e da quando avesse tale ornamento: egli rispose «da che nacqui.» Pregollo Cleante mostrassegli quale insegna ne pendesse. Vide la immagine di Nettuno, lesse il motto «a Te sacro.» Chiarito omai con chi parlasse, contemplava il florido aspetto del giovane, considerava che il recente caso distruggeva i timori di parricidio, sottentrava a questi la diffidenza alle predizioni degli indovini riuscite spesso fallaci. Dalle quali interne discussioni al fine trasportato gettò le braccia sovra il figliuolo, il quale di questo improvviso impeto sentì gran maraviglia. Aperse quindi Cleante la fonte degli affetti paterni, e con affannose interrogazioni trasse da lui contezza della precedente sua vita. Nè si contenne in quella violenta commozione di manifestargli schiettamente a che lo avesse indotto il terrore di presagj divini. Parve al giovane acerba quella deliberazione, pure dissimulando onestamente si astenne di turbare, con alcuna doglianza, tanta allegrezza. Volea quindi Cleante incontanente condurre seco il giovane, nell’animo del quale benchè, a segni manifesti lo riconoscesse per padre, prevaleva l’affetto della benigna Agarista. Con riverenti parole chiese pertanto gli fosse conceduto scriverle questo avvenimento. Espose che l’abbandonare senza che lo consentisse così gran benefattrice sarebbe giudicato universalmente un esempio di estrema sconoscenza. Non ripugnò Cleante a tale sospensione. Spedito quindi messaggero a Lemno, fu percossa Agarista dalla improvvisa novella. Non cessava di esclamare appartenere a lei ospite affettuosa il giovane da lei raccolto: acquisto legittimo per le sue cure, per li benefizj suoi rinato, e vivo: e derelitto alle fiere da un genitore snaturato. Quindi ella spedì a Corinto senza indugio uno dei più esperti oratori di Lemno ad impugnare la richiesta di Cleante in solenne giudizio. Questi pur commosso da tale ripugnanza, scelse un difensore delle ragioni paterne. Si eccitò romor grande nella città per tale avventura, e le genti s’intrattenevano nel Foro disputando con diverse opinioni. Venne quindi il giorno assegnato a discutere la causa avanti i Pritani di Corinto con somma frequenza di uditori. Il primo a declamare fu l’oratore di Cleante in tale sentenza.
Quando gli Atleti si sentono inferiori a contendere con la forza la palma contro l’antagonista ricorrono alla supplantazione. Non mai più manifestamente ciò apparve quanto nella contesa presente. Una insidiosa eloquenza degli avversarj si sparge nel Foro, e tenta di preoccupare le menti vostre, giudici venerandi. Ma voi accorti non meno del sagace Re d’Itaca saprete quant’esso deludere il canto lusinghiero delle Sirene. Al quale paragonando io le garrulità de’ miei contrarj le esalto in vero più che non comportano i meriti loro. Imperocchè empiono i trivj e le piazze non essere ben provato il principio della presente azione di Cleante, cioè ch’egli sia padre del giovane da lui richiesto come suo. E certo è maravigliosa la intrepidezza di costoro, i quali disprezzano la evidenza. Eccovi i familiari di quel tempo consapevoli del caso. Attestano concordi che l’aureo monile, e il motto in lui inciso e allora, e poi udirono sovente che fu appeso al collo del bambino quando fu spedito alla nave. Ecco pur vive la nutrice, la quale riconosce la striscia bruna al collo. Dovrebbe pure a così manifesti contrassegni impallidire la calunnia. E qual mai sarebbe la stoltezza di Cleante nel chiedere ciò che la natura non gli avesse conceduto, cioè un giovane straniero, il bramarlo per figliuolo, gravarsi di sostentarlo, e farlo erede? Niuna utilità in vero può indurre un saggio a tanto nuova pretensione. Per l’opposito al più degli uomini riescono pur troppo così di noja i figliuoli siccome sconoscenti o insensati o dissoluti, che ben volentieri li cederebbero ad altrui. Vi sarà in Cleante solo questa semplicità inaudita, per cui vada cercando venturieri fanciulli come da lui generati, e li ami, li voglia nodrire, e beneficare del suo? O accorti sospetti dell’avversario!
Il fondamento dell’azione di Cleante è la natura. Ella diede, e tutti i legislatori confermano al genitore la patria potestà. Questa è il principio, il legame della società civile: per lei si conserva l’umano consorzio, per lei si sostengono i gravi pesi de’ coniugj, per lei gli uomini sicuri dell’obbedienza e rispetto de’ figliuoli e della sacra monarchia di famiglia, vi sperano vivere in pace fino agli estremi. Senza questa autorità sarebbero i talami freddi, il genitore esposto alla caparbietà de’ figliuoli, spregiato nella età virile, abbandonato in vecchiezza. Nè già or Cleante richiama una podestà severa o correggitrice, ma una benigna per amare, per accogliere, per beneficare. Avesse pur egli per inaudita ferocia o per qualunque disperato consiglio, abbandonato ne’ deserti la sua prole, se la richiede respinto a’ sentimenti di natura, ogni onesto animo aspetterà da così bella ammenda gli effetti più benigni. Ma tanto è suprema questa autorità che non già gli Antropofagi anzi gli Spartani, gente illustre fra noi, sogliono per legge abbandonare alla ventura i parti difettosi. Cleante però non si pente, perchè senza colpa: commise il fanciullo alla cura dei Numi, i quali con terribili segni gli denotavano la infausta sorte a cui era nato. Niun’altra voce che la divina manifestata in tanti modi, e così uniformi, fu quella che penetrò nell’afflitto animo paterno. Ella vi insinuava per fino l’orrendo sospetto di parricidio. Alla voce divina obbediscono le sfere e gli elementi: è una vana quanto esecrabile arroganza il repugnarvi. Solo un empio schernitore de’ Numi può biasimare chi l’ha seguita. I Tirj, i Fenicj, i Cartaginesi, nazioni celebrate con giusta fama, sogliono sacrificare a Saturno i loro bambini in alcune gravi calamità, affine di placarlo. Tutti sappiamo che Ifigenia fu conceduta dal magnanimo condottiero de’ Greci vittima loro. Tanto è l’imperio di natura, e di religione, il quale non è soggetto a prescrizione per qualunque avvenimento. Sempre è intero quanto sacro il diritto paterno, al quale non vi è consuetudine, legge, autorità alcuna superiore. Or chi fia che biasimi Cleante di avere non già sottoposto il figliuolo alla bipenne sacerdotale, ma di avere sperato anzi di sottrarlo al suo tristo fato? E che altro fece il provido genitore, se non porre in tutela de’ Numi quella prole che sembrava generata nell’ira loro? Ma poichè e’ si hanno preservato Erostrato e riposto nelle braccia paterne con tali vicende, che ben dimostrano placato lo sdegno loro, ecco il seno di Cleante ansioso di amplessi lungo tempo desiderati. Egli non altro brama che di cancellare con ogni prova di affetto, per tutto il rimanente di sua vita, la memoria di un sol giorno crudele. Sempre dolente da che sciolse dal lido la prua fatale, già da molti anni deplorava come spento il suo figliuolo. Ora che i Numi pietosi alle sue lagrime perenni inviano a tergerle la sua adulta prole: ora che l’obblio e il silenzio degli oracoli minacciosi invita a sperare destino migliore, chi è quel barbaro fra gli uomini, e quell’empio verso i numi, il quale si opponga a così giusta consolazione? Brama il padre che gli sieno chiusi gli occhi dal ben trovato figliuolo, il quale poi declini la guancia lagrimosa sulla tomba paterna. Oh sublime natura, oh soavi affetti, oh venerevoli desiderj! Questi sensi divini sollevano la dignità di nostra mente alla celeste origine sua.
Come pietra si spicca da rupe eccelsa, e ne discende rapida, nè può rattenersi tratta dall’impeto suo, così il cicaleccio degli avversari poichè si è abbandonato a’ cavilli, quasi non più consapevole del valore della umana favella, si lancia alle calunnie insieme più vili e più strane. Eccovi illusione, e sogno febbrile esposto senza rossore nelle terme, negli atrj, ne’ portici, ne’ teatri, ne’ circhi, cioè che il benigno lo sconsolato Cleante covi nel petto il velenoso desiderio di ricuperare con lusinghe questo figliuolo per farne scempio. Se questa causa fosse discussa dalle tigri, sembrerebbe anco ad esse orrenda una tal congettura. Ma tralasciando le voci del cuore, alle quali è sordo chi propone e sostiene così nefandi sospetti, sarebbe in vero uno stolto quel padre, il quale o teme o abborre un suo figliuolo tanto di averlo esposto a morte: poscia scopertolo vivo, sia così smemorato degli infausti presagj che non tema or più questo giovane vigoroso, il quale tanto egli paventava bambino. Anzi invece di nascondere nelle tenebre del tempo così trista avventura di paterna atrocità, la espone con pompa allo strepito del Foro. Se tacea Cleante, rimaneva il giovane in Lemno come per lui non nato, e come già nella tomba. Se questo era il desiderio del padre egli lo avea dissimulando ora, pienamente soddisfatto. Ora com’egli si presenta a voi e svela questo ignominioso arcano? Che dico a voi? a tutta la Grecia contro ogni sua propria utilità. Ma vince natura, e trionfa delle calunnie. Ben vi è noto in qual modo avvenne il tenero incontro: quanto manifesti sieno stati i segni, anzi i prodigj dell’affetto paterno, i quali soli basterebbero a soffogare i latrati della impostura. Stendete pertanto omai le incorruttibili destre, o uomini venerandi, e imponetele silenzio eterno. Chi può infatti udire senza un gelido ribrezzo trasformarsi così la causa della natura in quella della perfidia?
Il padre vi chiede il suo figliuolo, non vuol cedere altrui il diritto consolante di nodrirlo ove nacque. Brama che nelle stanze degli avi divenga il sostegno della sua inferma età: di compensare i tristi eventi passati, e l’antico dolore con altrettanti conforti di scambievoli affetti. Contro una tale istanza, la quale altro non è che una sacra ed eterna ragione, alza or qui la fronte audace una estranea usurpatrice del nome di madre. Intimerà ella che sieno chiuse le porte della patria e del padre, al cittadino, al figliuolo perchè rimanga esule ed orfano in terra straniera? Se la matrona è sincera nel suo affetto come or vanta, divenga emula del paterno. Invece di contendere al padre quel dolce possesso, contro cui non v’è prescrizione, accumuli pur essa da madre gli effetti di sua benevolenza nel suo adottivo restituito al genitore. E tu Giove, e voi patrii Numi, dalla cui provvidenza tante acerbe avventure furono condotte ad esito così maraviglioso, reggete, siccome è vostra cura, le sagge menti di questi sacerdoti della giustizia: siate omai benigni verso il figliuolo, il quale con tanti disastri ha espiato il suo dubbioso destino, e cortesi verso un padre, il quale commise a voi stessi la sua prole: nè mai avvenga ch’egli per angoscia inesorabili vi appelli.