< Vita di Giacomo Leopardi
Questo testo è incompleto.
Capitolo V. I primi amori
Capitolo IV Capitolo VI

Capitolo IV.


I PRIMI AMORI.


1817-1819.


______


Sommario: Arrivo di Geltrude Cassi in casa Leopardi. — Giacomo se ne innamora. — Ritratto di lei. — Sodisfazione sperata, e scontentezza provata. — Partenza della signora. — Giacomo scrive il diario del suo amore. — La prima elegia. — L'elegia rispecchia il diario. — Seconda elegia. — Altre elegie. — Giacomo si guarda nello specchio col desiderio di trovare nel suo volto qualche cosa che possa piacere. — Illusione di potere essere amato, e disperazione quando l'illusione svanisce. — Silvia e Nerina. — Teresa Fattorini. — La vista di una donna basta ad elettrizzarlo. — La Brini. — Sogno di paradiso. — La Broglio e Serafina Basvecchi. — La donna vera di Giacomo. — Abbozzo di poesia Ad una fanciulla. — Amore puramente ideale.


L’ 11 dicembre 1817 è una data memorabile nella vita del nostro poeta.

La sera di quel giorno arrivò in casa Leopardi, proveniente da Pesaro, una parente piuttosto lontana, Geltrude Cassi, sorella al traduttore della Farsaglia, e moglie ad un conto Giovanni Lazzari, di cui oggi nessuno rammenterebbe il nome, se la moglie di lui non fosse stata inconsciamente L’oggetto del primo amore di Giacomo.

Questi sapeva l’ arrivo della signora, e benchè non l’avesse mai conosciuta, l’aspettava con piacere, perchè, avendo sentito dire che era bella, la credeva capace di dare qualche sfogo al suo antico desiderio di parlare e conversare con donne avvenenti.1 LA CONTESSA GERTRUDE CASSI NEI LAZZERI
e le sue due figliuole.

(Da una miniatura dell’Abate Niccòli)

Una bellezza giunonia, di ventisei anni, con un marito di oltre a cinquanta, grosso e pacifico, era naturale che avesse degli adoratori, e ne trovasse ovunque andava; ma era anche naturale non le passasse neppure per la testa che uno di questi potesse essere il pretino di casa Leopardi, pieno di dottrina, ma scriatello, sottilissimo e gobbo. Invece il giovine chierico s’innamorò furiosamente della signora, tanto furiosamente che un giorno, preso da un accesso di disperazione o di pazzia, picchiò violentemente la testa nel muro, a rischio di spaccarsela. Naturalmente la signora non ne seppe niente; come non si accorse (è probabile) dell’amore del poeta, perchè questo amore, in presenza di lei, non uscì mai dai limiti di una muta e fredda contemplazione.

La signora era andata a Recanati per mettere a educazione in un convento di quella città una sua figlioletta, per nome Vittorina. Il giorno che madre e figlia andarono al convento, accompagnate dalla contessa Adelaide, si unirono alle signore anche Giacomo e Carlo; e mentre quelle stavano per entrare nel parlatorio, Giacomo, rimasto indietro col fratello nel corridoio, si lasciò andare a quell’atto pazzesco di battere la testa nel muro.2

Chi fosse curioso di maggiori particolari intorno alla Cassi e alla famiglia di lei, può trovarli nello scritto di Giovanni Mestica sugli amori del nostro. Io parlando di questo suo primo amore, come egli stesso lo chiamò, prenderò per guida il Diario ch’egli ne scrisse, e mi servirò quanto posso delle proprie parole di lui.

Ecco il ritratto ch’egli fa della signora.

«Alta e membruta quanto nessuna donna ch’io m’abbia veduta mai, di volto però tutt’altro che grossolano, lineamenti tra il forte e il delicato, bel colore, occhi nerissimi, capelli castagni, maniere benigne, e, secondo me, graziose, lontanissime dall’affettato, molto meno lontane dalle primitive, tutte proprie delle signore di Romagna e particolarmente delle Pesaresi, diversissime, ma per una certa qualità inesprimibile, dalle nostre marchegiane.»3

La Cassi si trattenne due giorni e tre notti in casa Leopardi: arrivata la sera del giovedì, ne ripartì la domenica mattina 14 dicembre, per tempissimo, mentre Giacomo e gli altri fratelli erano ancora in letto.

La sera dell’arrivo Giacomo la vide e non gli dispiacque, ma non ci si fermò col pensiero. Il giorno di poi le disse freddamente due parole prima del pranzo: durante il pranzo, taciturno al suo solito, le tenne sempre gli occhi sopra, ma con un freddo e curioso diletto di mirare un volto più tosto bello, alquanto maggiore che se avesse contemplato una bella pittura. La sera del venerdì i fratelli di Giacomo giocarono a carte con la signora; egli, invidiandoli, dovè giocare a scacchi con un altro. Lasciate poi le carte, la signora volle che Giacomo le insegnasse i movimenti degli scacchi: ed egli lo fece, ma insieme con gli altri, e però con poco diletto. Aveva gran desiderio di giocare con lei sola, per ottenere quel desiderato parlare e conversare con donna avvenente: però sentì con vivo piacere che sarebbe rimasta fino alla sera dopo. E la sera dopo fu appagato il suo desiderio; giocò con lei, ma invece di provarci quella sodisfazione che si aspettava, ne uscì scontentissimo e inquieto. «La signora, dice egli, m’avea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto ridere con le mie burlette una donna di bell’aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me e me perchè fossi scontento, non lo sapea trovare.... ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre più.»4 Nell’uscire da cena capì che la signora sarebbe partita l’indomani, nè l’avrebbe più riveduta. Andato a letto, vegliò sino al tardissimo, e addormentatosi sognò sempre, come un febbricitante, le carte, il gioco, la signora. Svegliatosi avanti giorno.... sentendo prima passare i cavalli, poi arrivar la carrozza, poi andar gente su e giù.... si accorse che i forestieri si preparavano al partire, ed aspettò un buon pezzo coll’orecchio avidissimamente teso, credendo a ogni momento che discendesse la signora, per sentirne la voce l’ultima volta; e la sentì. Né gli dispiacque la partenza, perchè prevedeva che avrebbe dovuto passare una trista giornata, se i forestieri si fossero trattenuti.

I sentimenti destati nel suo cuore dalla visita della bella parente erano in sostanza inquietudine indistinta, scontento, malinconia, qualche dolcezza, molto affetto, e desiderio non sapeva di che, nè anche fra le cose possibili vedeva niente che lo potesse appagare. Occupato continuamente dal pensiero di lei, non poteva fissare lo sguardo nel viso, sia deforme o sia bello di chicchessia, sfuggiva di sentir parlare, disprezzava molte cose da lui prima non disprezzate, anche lo studio, al quale avea chiusissimo l’intelletto, e quasi anche, benché non del tutto, la gloria. Ed era svogliatissimo al cibo, la qual cosa non gli era mai accaduta né anche nelle maggiori angosce. Dopo questa analisi di sé e del suo cuore soggiunge: «Se questo è amore, che io non so, questa è la prima volta che io lo provo in età da farci sopra qualche considerazione; ed eccomi di diciannove anni e mezzo, innamorato. E veggo bene che l’amore dev’esser cosa amarissima, e che io pur troppo (dico dell’amor tenero e sentimentale) ne sarò sempre schiavo.»5

Volendo, dopo la partenza della signora, dar qualche sollievo al suo cuore, né sapendo farlo altrimenti, tentato inutilmente il verso, si mise a scrivere il Diario, ad oggetto di speculare minutamente le viscere dell’amore, e di potere sempre riandare appuntino la prima vera entrata nel suo cuore di questa sovrana passione.

Anche la notte della domenica ebbe sonno interrotto e delirante; ma il verso, che alla mattina era stato restio, gli si mostrò docile, e nella notte stessa, vegliando, cominciò a descrivere in versi i suoi affetti; seguitò a scrivere tutto il lunedì, e terminò la mattina del martedì successivo stando in letto.

L’aver composto i versi, dei quali egli era molto contento, lo riconciliò con la gloria e gli sfruttò il cuore; e lo sforzo mentale da lui fatto per eccitare e richiamare gli affetti e le imagini dell’amor suo, fece sì che quelli non essendo più, spontanei s’infievolissero. La forza del tempo, che poteva molto nell’animo del poeta, contribuì più d’ogni altra cosa a calmare la sua eccitazione. Cominciò a tornargli l’amore allo studio, cominciò a tornargli il sonno e l’appetito; di che egli talora sentiva dolore; e per prolungare al possibile lo stato amoroso, seguitava a scrivere il Diario.

Il 21 dicembre, cioè una settimana dopo la partenza della Cassi, notava in esso: «Il tempo pigliò avant’ieri e tutto ieri gran vantaggio sulla mia passione, la quale va adesso veramente scadendo e mancando.» E il giorno dopo: «Chiudo oggi queste ciarle, che ho fatte con me stesso por isfogo del cuor mio e perchè mi servissero a conoscere me medesimo e le passioni; ma non voglio più farne, perchè non si sa quando io mi risolverei di finire, e ormai poco potendo dire di nuovo, mi pare ch’io perderei il tempo.» Il Diario fu poi finito il 23 dicembre. In fine di esso è questa nota: « Non avendo per l’addietro fatto parola né dato indizio della mia passione a chicchessia, la manifestai a mio fratello Carlo, fattigli leggere i versi e queste carte, ai 29 di decembre, durandomi nell’animo, come ancora mi durano oggi, 2 di gennaio 1818, le vestigia evidentissime degli affetti passati, ai quali non manca per ridar su altro che l’occasione.»6



Se il Diario non fosse lì ad attestare che i versi furono composti fra la notte della domenica in cui la Cassi partì e la mattina del martedì successivo, a leggerli ci sarebbe da dubitarne. Essi, come è noto, cominciano:

Tornami a mente il dì che la battaglia
D’amor sentii la prima volta e dissi:
Oimè, se questo è amor, com’ei travaglia.

Questi versi paiono a prima vista il principio d’una poesia composta, non già nel caldo dell’amore, ma a qualche distanza dal tempo in cui quello era entrato nel cuore del poeta. Egli è che l’amatore è un letterato, un poeta, il quale ha letto fra i lirici il solo Petrarca; e gli pare, dovendo scrivere cose liriche, di non poterle scrivere in altro stile, che simile a quello del Petrarca.7 La mattina si era provato, e non era riuscito. La notte, fra le sue reminiscenze, gli balza in mente il primo verso di uno dei più bei sonetti del Petrarca: «Tornami a mente, ec. », si ricorda che in un altro sonetto quel poeta disse: «Quando amor cominciò darmi battaglia »; ed ecco trovato il principio petrarchesco della sua poesia amorosa. «Tornami a mente il dì che la battaglia D’amor sentii, etc.» Quel Tornami a mente non risponde in modo esattissimo alla realtà del fatto, poiché l’amore era cominciato appena da due o tre giorni; ma ciò non vuol dire: poeticamente sta bene, e basta; il poeta quando mette in versi i sentimenti suoi non è mica obbligato a rispettare la cronologia e la verità come un cronista. Preso l’aire, l’autore seguita bravamente; e dobbiamo riconoscere che la sua poesia rispecchia con molta esattezza i fatti, i sentimenti e i pensieri esposti nel Diario. Tutto ciò che in questo è minutamente analizzato e descritto, riappare condensato nella poesia: ciò che conferma (se ce ne fosse bisogno) che Diario e poesia furono scritti contemporaneamente.

La poesia fu stampata fra i Canti nella edizione di Firenze del 1831,8 col titolo Il primo amore, che le è poi rimasto; ma era stata già pubblicata fino dal 1826 nel volumetto «Versi del conte Giacomo Leopardi; Bologna, dalla Stamperia delle Muse.» In questa prima edizione era intitolata Elegia I, ed aveva con sé una compagna, Elegia II, scritta posteriormente, ma sopra lo stesso argomento, cioè sopra l’amore per la stessa persona. Su ciò non cade dubbio; ma il dubbio comincia allorché si tenta di stabilire quando ed in quale occasione la seconda elegia fu composta.

Di essa il poeta non accolse nella successiva edizione dei Canti9 che un frammento di cinque terzine; ma tutti gli studiosi del Leopardi sanno che fu riprodotta intera nelle varie edizioni degli scritti giovanili, e che comincia così:

Dove son? dove fui? che m’addolora?
Ahimè ch’io la rividi, e che giammai
Non avrò pace al mondo insin ch’io mora.10

E seguita descrivendo gli effetti prodotti in lui dall’aver riveduto la donna amata, e disperandosi perch’ella lo abbandona di nuovo. — Ma quando e dove la rivide? — Carlo Leopardi raccontò al Mestica che la Cassi tornò a Recanati verso la fine del 1818, ma che allora l’amore di Giacomo per lei era già spento;11 mentre era rimasto preso lui Carlo alle lusinghe della bella parente. Non resta dunque se non supporre un ritorno anteriore della Cassi, del quale Carlo non si ricordò: e la supposizione è dimostrata molto ragionevole dal fatto che intorno al giugno di quello stesso anno 1818 Giacomo scrisse gli argomenti di tre nuove elegie. L’argomento della seconda fu proprio scritto il 28 giugno, quando il poeta finiva venti anni. Non c’è dubbio che queste nuove elegie si riferivano tutte all’amore per la Cassi, e dovevano far seguito alla elegia del dicembre 1817.

Nella prima delle nuove elegie il poeta esprime il desiderio di rivedere la donna amata, e gela e trema al pensare che cosa soffrirà nel comparirle dinanzi ora che sa veramente di esserne innamorato, poiché quando la vide la prima volta non conosceva l’amore. Nella seconda elegia si lagna di non aver fatto ancora nulla di grande per piacere a lei; ed associa all’amor suo l’amore per la patria, per la quale vorrebbe dare i suoi sudori, i dolori, il sangue. (Nel Diario è accennato il desiderio di compiere qualche cosa di grande, di diventare famoso, per essere accolto da lei con piacere e stima.) La terza elegia si aggira tutta intorno al concetto ch’egli l’ama e l’amerà sempre in segreto, contento di soffrire per lei, e di essere infelicissimo nell’amor suo.

Nessuna di queste tre elegie fu composta, cioè furono composte soltanto due terzine, che io credo il principio della prima; l’argomento della quale comincia con queste parole: « Io giuro al cielo, ec.» E le terzine dicono:

Io giuro al ciel che rivedrò la mia
Donna lontana onde il mio cor non tace
Ancor posando e palpitar desia.

Giuro che perderò questa mia pace
Un’altra volta poi ch’il pianger solo
Per lei tuttora e il sospirar mi piace.

Questo principio si può ragionevolmente credere dettato al poeta dalla notizia che la Cassi stava per tornare a Recanati; anzi la notizia, rinfocolando l’amore del poeta, dettò forse gli argomenti delle tre elegie, le quali perciò dovettero, come accennai, essere composte tutte intorno allo stesso tempo. La Cassi fece la sua breve apparizione a Recanati, e Giacomo compose la seconda elegia, la quale nell’autografo è intitolata quarta, perchè il poeta aveva certamente intenzione di comporre anche le altre di cui aveva scritto gli argomenti, o almeno due di esse; non saprei dir quali. Ma quella intenzione restò senza effetto; e così la quarta elegia diventò seconda nella stampa bolognese del 1826. Ch’ella fosse composta nel 1818, per quanto la stampa abbia innanzi a tutte due la data 1817, è attestato da un elenco di scritti compilato dall’autore nel 1826, nel quale accanto alle due elegie sono notati, come tempo della loro composizione, gli anni 1817 e 1818. In questo tempo il Leopardi, come si vede, vagheggiò per le poesie d’amore che gli ronzavano per la testa la forma della elegia. C’è ne’ suoi manoscritti anche il disegno di un’altra, che non ha, credo, nessuna relazione con l’amore per la Cassi, per quanto abbia in un punto una certa affinità con l’argomento dell’ultima delle tre elegie pensate per lei. Qui il poeta parla in terza persona: l’amante non è lui, ma un altro, che, come lui, ama senza nessuna speranza di essere corrisposto. «Donna, donna, io non ispero che tu mi possa amar mai: povero me, non mi amare, no, non lo merito; infelicissimo, non ho altro che questo povero cuore; non mi ami, non mi curi, non ho speranza nessuna. Oh s’io potessi morire!» L’innamorato sorpreso da una tempesta «si getta in mezzo ai venti e prende piacere dei pericoli che gli crea il temporale; va errando per burroni, ecc. Infine, rimettendosi la calma e spuntando il sole, e tornando gli uccelli al canto, si lagna che tutto si riposa e calma fuorché il suo amore.»12 Il poeta ha un bel nascondersi dietro un innamorato immaginario; questo innamorato immaginario è lui in persona. Escluso dall’amore, l’amore non può in lui trovare altra espressione che di angoscioso lamento. Così ha cominciato, così seguita, così finirà. All’elegia succederà l’idillio, all’idillio la canzone; ma il contenuto dei suoi versi amorosi sarà sempre lo stesso; se non quanto, perfezionandosi la forma, l’accento della disperazione diventerà più straziante.



Le smanie e le afflizioni dell’amore per la Cassi, come s’è veduto, finirono presto. Il poeta dopo pochi giorni tornò alla sua vita normale; riprese le sue letture di classici delle tre lingue, e seguitò la sua corrispondenza col Giordani.

In una lettera scrittagli il 22 dicembre 1817, un giorno avanti di finire il Diario, v’è qualche accenno allo stato dell’animo suo in quel tempo. «M’è accaduto per la prima volta in vita mia, scrive all’amico, di essere alcuni giorni, per cagione non del corpo ma dell’animo, incapace e non curante degli studi.»13

Ma nonostante il ritorno agli studi, nonostante l’amicizia del Giordani, nonostante che la salute, andando meno male, lo lasciasse un po’ lavorare, la sua malinconia cominciò in questo tempo a farsi più cupa, e cominciò a balenare alla sua mente quel concetto pessimistico della vita e del mondo, che, affermatosi più intensamente nel 1819, informò poi tutte le sue opere.

Finché era corso dietro al fantasma della gloria, e quello gli era sembrato il fine supremo della vita, quasi non si era accorto della sua deformità, o non ne aveva fatto caso. Voleva essere ammirato per le opere dell’ingegno, non per le forme del corpo; ma anche il corpo reclamava ora i suoi diritti, i diritti della gioventù, della vita.

Nel primo giorno dell’innamoramento per la Cassi, egli sfuggì a bello studio la vista e il pensiero della sua propria immagine; ma poi la tentazione lo vinse e si guardò nello specchio; si guardò, dice egli stesso, col manifesto desiderio di trovare nel suo volto qualche cosa che potesse piacere. Di tratto in tratto era preso come da un imperioso bisogno di persuadere a sè stesso che in lui c’era pure qualche cosa che poteva ispirare amore. Più tardi scrisse: «La mia faccia aveva quando io era fanciulletto, e anche più tardi, un non so che di sospiroso e serio che, essendo senza nessuna affettazione di malinconia, le dava grazia, come vedo in un mio ritratto fatto allora con verità.... Quest’aria di volto con le maniere ingenue e non corrotte nè affettate,.... ma semplici e naturali,.... mi fece amare in quella età da quelle poche signore che mi vedevano, in maniera così distinta dagli altri fratelli, che questo amore, cresciuto ch’io fui, durò poi sempre assolutamente parziale fino al 21° anno nel quale io scrivo (11 marzo 1819).»14 Chi non sente nelle parole del poeta un desiderio intimo e la quasi speranza di poter destare in qualche donna un sentimento che si avvicinasse all’amore? Era un’illusione che durava poco, salvo a rinascere alla prima occasione.

Fino dal 2 marzo 1818, cioè poco più di due mesi dopo l’innamoramento per la Cassi, Giacomo scrivendo al Giordani versava nel cuore dell’amico tutta l’amarezza dei pensieri che allora lo tormentavano. «Io mi sono rovinato, gli scriveva, con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più: e coi più bisogna conversare in questo mondo; e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima». «Come prima vedrò il mondo, soggiungeva, e sperimenterò gli uomini, certo mi dovrò rannicchiare amaramente in me stesso, non già per le disgrazie ec... ma per quelle cose che m’offenderanno il cuore: e massimamente soffrirò, quando con tutte quelle mie circostanze che ho dette mi succederà, come necessariamente mi deve succedere e già in parte m’è succeduta, una cosa più fiera di tutte, della quale adesso non vi parlo.»15

Scrivendo queste parole, il Leopardi pensava forse alla Cassi, ne’ cui benigni ma freddi sorrisi non vide certo brillare una favilla d’amore? O pensava forse a qualche altra? Alla figlia del cocchiere, Teresa Fattorini? A Serafina Basvecchi? Che pensasse a qualche altra può darsi: delle due mi pare più probabile la seconda che non la prima; ma potrebbe anche essere un’altra, o più d’una, sfuggite (che pare impossibile) alle diligenti e minuziose indagini del Mestica.



A Prospero Viani, che gli chiedeva notizie intorno agli amori di Giacomo per Silvia e Nerina, Carlo Leopardi rispose nel 1846: «Molto più romanzeschi che veri gli amori di Nerina e di Silvia. Sì, vedevamo dalle nostre finestre quelle due ragazze, e talvolta parlavamo a segni. Amori, se tali possono dirsi, lontani e prigionieri. Le dolorose condizioni di quelle due povere diavole, morte nel fiore degli anni, furono bensì incentivo alla fantasia di Giacomo a creare due dei più bei tratti delle sue poesie. Una era la figlia del cocchiere, l’altra una tessitora.»16 Questa (la Nerina del poeta) fu dal Mestica identificata in una contadina per nome Maria Belardinelli. Silvia sappiamo ch’era la figlia del cocchiere già nominata, Teresa Fattorini, tessitora anche lei.

Intanto per la testimonianza di Carlo possiamo dire che Giacomo non fu veramente innamorato di nessuna delle due. Egli non si innamorò mai, che sappiamo, di donne del popolo. I soli suoi amori certi, dopo quello per la Cassi, furono, come vedremo, per due signore.

Dato che avesse potuto innamorarsi della Fattorini, glie ne mancò il tempo. Nel giugno del 1818, quando durava ancora, come abbiam visto, il suo amore per la Cassi, la povera Teresa era malata gravemente di tisi, tanto che di lì a tre mesi morì. Questa disgraziata condizione della fanciulla doveva ispirare al poeta ben altri pensieri che d’amore. È ben vero che nella mente di lui il pensiero dell’amore si associò presto con quello della morte: può anche darsi che dopo che Teresa fu morta, egli sognasse di averla amata; ma dei sentimenti e pensieri ch’essa gl’ispirò vivente abbiamo testimonianze sue, le quali escludono ogni idea di amore.

Per quanto Teresa fosse la figlia del cocchiere, si capisce che Giacomo difficilmente potè avere occasione di avvicinarla e di parlarle. In una casa come quella dei conti Leopardi i servitori e i loro parenti dovevano essere tenuti a rispettosa distanza dai signorini. Non fa perciò meraviglia che il poeta abbia lasciato scritto ch’egli conobbe poco la storia di Teresa. Si interessò, è vero, di lei; ma se ne interessò, scrive egli stesso, come di tutti i morti giovani, in quello aspettare la morie per sè.17 E allora probabilmente cercò notizie e seppe che un bagno era stato cagione del male di lei; che spesso piangeva senza che, interrogata, sapesse renderne ragione: ma era chiaro, nota il poeta, che l’idea di morire così giovane (aveva la stessa età di lui) doveva essere la cagione del suo pianto. Egli nota anche altri particolari intorno alla malattia ed alla morte della giovane; questi, ad esempio, che la lunghezza della malattia generò l’indifferenza dei suoi, che mentre ella stava male, in casa sua si mangiava allegramente; e che non ebbe neppure il bene di morire tranquillamente, ma finì straziata da fieri dolori.18

Queste note non sembrano prese con l’intendimento di scrivere poesie d’amore. Per allora il poeta non scrisse niente; ma quando dieci anni più tardi l’immagine di Teresa gli rifiorì nella mente, ella non seppe dettargli altro che un gentile compianto sulla speranza sua giovanile, morta anch’essa anzi tempo come la povera tessitrice.

Il poeta dovè conoscere Teresa assai prima d’innamorarsi della Cassi. La famiglia del cocchiere abitava una povera casetta di faccia al palazzo Leopardi. È naturale che Giacomo facesse attenzione a lei fin da ragazzo, quando passava le intere giornate in biblioteca a studiare; ed è naturale che quando a diciotto anni si svegliò in lui il desiderio della bellezza femminile, si compiacesse a guardarla, tanto più se ella, oltre la freschezza della prima gioventù, aveva, come dicono, qualche cosa di gentile nell’aspetto. Ma guardava lei come tutte le altre donne che gli capitavano dinanzi; come guardava, in mancanza d’altro, delle figure di donna dipinte. Nei citati Appunti e Ricordi si legge: « Santa Cecilia considerata più volte dopo il pranzo, desiderando e non potendo contemplar la bellezza. »

In questo tempo, poco prima o poco dopo l’amore per la Cassi, egli era, si può dire, innamorato di tutte le donne, senza amarne in particolare nessuna, senza che forse dicesse a nessuna una parola d’amore. Gli bastava di vederle, di guardarle, di riceverne un sorriso o un saluto, quando le conosceva. So passavano senza fare attenzione a lui, ne sentiva dispiacere: se invece lo salutavano, era felice; o quella felicità gli popolava di dolci visioni le notti. Delle donne e dei fatti che gli procuravano queste visioni si trova più d’un ricordo nelle sue carte giovanili. Nominata due volte, e più a lungo dello altre, è una Brini, della quale il Mestica raccolse lavoce che avesse un figliuolo da Giacomo. Ma la vocenon avendo alcun fondamento serio, è da rigettaresenz’altro come falsa ed assurda, e come indegnamente oltraggiosa per il poeta.19

So bene che Giacomo era uomo, e che egli e Carlo, in fatto di donne, facevano insieme dei discorsi molto liberi; cioè, credo che Carlo li facesse e Giacomo li stesse a sentire. Con tutto ciò l’opinione mia intorno a Giacomo rispetto alle donne è ch’egli non abbia mai osato fare a nessuna, non che altro, una dichiarazione d’amore, salvo che in sogno. Ma la vista di una donna, che fosse o gli paresse bella, bastava ad elettrizzarlo, gli innalzava l’animo, lo faceva, scrive egli stesso, capace di azioni eroiche, capace di tutto, anche di uccidersi.20

Una sera, mentre passeggiava in compagnia d’altri, rivide la Brini, che lo salutò dolcemente, o gli parve. Non s’era accorto ch’era lei: quando lo seppe, stava sulle spine per lasciare la conipagnia, e andare in luogo ove potesse incontrarla: non fece a tempo, e non ne aveva più speranza, quando a un tratto la rivide. La notte ne ebbe un sogno, ch’egli stesso dice di paradiso. Le parlò, ne fu interrogato e ascoltato con viso ridente; le domandò la mano a baciare, lei glie la porse guardandolo con aria semplicissima e candidissima, e lui la baciò senza ardire di toccarla «con tale diletto, dice, ch’io allora solo in sogno per la primissima volta provai che cosa sia questa sorta di consolazioni, con tal verità che svegliatomi subito e riscosso pienamente vidi che il piacere era stato appunto qual sarebbe reale e vivo, e restai attonito e conobbi come sia vero che tutta 1’anima si possa trasfondere in un bacio, e perder di vista tutto il mondo, come allora mi parve.»21

Di un’altra giovine, di bassa condizione, bella ma molto allegra, un altro appunto ci fa sapere eh’egli la vedeva spesso e che poi la notte la sognava interessantemente. Costei era solita salutarlo. Una mattina, dopo ch’egli nella notte l’aveva sognata, la incontrò, e non ne fu salutato; ciò gli recò molestia.Ragionandoci sopra scrisse: «Eh pazzo! ella aveva altri pensieri ec.: e se non ti piace, se non le ho detto nò le dirò mai sola una parola. Eppure avrei voluto che mi salutasse.»22

Ragazze popolane, ed anche non popolane, il Leopardi ne dovè probabilmente vedere e conoscere anche altre, sfuggite, come ho detto, alle ricerche del Mestica; al quale però non isfuggirono né una giovane Broglio, della quale il poeta lasciò scritto: «Mio amore per la Broglio monacantesi,»23 nè Serafìna Basvecchi; la quale è probabile sia, come il Mestica crede, la donna dell’idillio La sera del dì di festa, e della canzone Per donna malata di malattia lunga e mortale. Coteste due ragazze appartenevano a famiglie aventi relazione con la famiglia Leopardi: cosicché a Giacomo non doverono mancare occasioni di vederle. Che la Basvecchi gli fosse cara, oltre che dal fatto che tutte le giovani gli erano care, si può desumere, come fece il Mestica, da un accenno di una lettera dì Paolina a lui quando la Basvecchi si maritò;24 che la ragazza non si curasse di lui, risulta dalle due poesie che ad essa si riferiscono, specie dall’idillio:


. . . . . . . . Or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rituembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già ch’io speri,
Ai pensier ti ricorro.


Fra quelli Appunti dai quali ho tratto le notizie delle fanciulle recanatesi che attiravano l’attenzione e facevano battere il cuore del giovane poeta, c’è questo: «Detti della mia donna, quella vera, circa la povertà della famiglia ond’era uscita, e le sue malattie, e la famiglia ov’era, ec.» Non credo che sul debole fondamento di queste parole si possa fabbricare nessuna supposizione. Se questa sconosciuta fu in qualche tempo la donna ch’ebbe nel cuore del poeta la preferenza sulle altre, ciò starebbe contro quello ch’io dissi in questo stesso capitolo, ch’egli cioè non si innamorò mai di donne del popolo. Comunque sia, di questo amore, se veramente esistè, non ne sappiamo niente.

Ad un’altra sconosciuta, pure popolana, è indirizzata una poesia, di cui esiste questo abbozzo nelle carte napoletane:


Ad una fanciulla.


«Deh non sii tanto di tua faccia avara, o fanciulla mia ec, passo e ripasso avanti la porta della tua casa ove solevi stare e non ti trovo mai ec, oh perchè? Certo non sai che io ti desidero ec, tu sei ancora innocente oh cara ec, lo sarai sempre? ahi ahi ch’io non lo credo ec, ohimè tanta beltà diverrà colpevole e trista per lo scellerato mondo mentre ora nella giovinezza è così candida ec. Oh padre padre, (a Dio) salvala ec, ch’è tua fattura ec. Ahimè tu non ti euri di me. né sai niente, né io te ne dirò mai niente. Oh se vedessi ec, che core è il mio. È un core raro, o mia cara, ardente ec. Non temer di me. Oh se sapessi come ti rispetto ec Dimmi se sei virtuosa, benefica, compassionevole, innocente. Ah se sei lasciami ch’io mi ti prostri, santa cosa, a baciarti le punte de’ calzari. Esortazione alla virtù per cagiono della sua bellezza.»

Tutte quelle figure di donne che passavano fugaci dinanzi al poeta per le vie di Recanati, o ch’egli incontrava in casa sua o altrove, imprimendosi per gli occhi nella sua mente, perdevano la loro volgare realtà, e trasformate in fantasmi gentili, gli ricomparivano davanti lungo il giorno nei silenzi della biblioteca, rompevano di notte le tenebre della sua cameretta. In quei fantasmi egli ammirava e adorava poeticamente la bellezza e la gioventù femminile, che idoleggiò e idealizzò in questo gentile ritratto: «Una giovane dai sedici ai diciotto anni ha nel suo viso, nei suoi moti, nella sua voce un non so che di divino che niente può agguagliare.... Quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù; quella speranza vergine, incolume, che si legge nel viso e negli atti; quell’aria d’innocenza e d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; fanno in voi un’impressione cosi viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardare quel viso; ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea di angoli, di paradiso, di divinità, di felicità.» 25 Così fatto fu l’amore del Leopardi nei quattro o cinque anni che successero alla prima comparsa della Cassi a Recanati; ma quelle visioni amorose erano per lui amore vivo e vero, poiché lo facevano palpitare, gli facevano sentire la vita.« Io non ho mai sentito tanto di vivere, scriveva nei Pensieri, quanto amando, benché tutto il resto del mondo fosse per me come morto.»26




______________




  1. Le parole in corsivo qui e appresso sono del Leopardi, dal Diario d’amore nelle carte napoletane, ora in corso di Stampa.
  2. Vedi Mestica, Studi leopardiani; Firenze, Le Monnier, 1901, pag. 64.
  3. Diario citato
  4. Diario citato.
  5. Diario citato
  6. Diario citato.
  7. Vedi Pensieri di varia filosofia ec., IV, pag.95.
  8. Canti del conte Giacomo Leopardi; Firenze, presso Guglielmo Piatti, 1831, a pag. 85 e seg.
  9. Firenze, Piatti, 1836, a pag. 162
  10. Vedi Studi filologici di Giacomo Leopardi, raccolti e ordinati da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani; Firenze, Le Monnier, 1845, a pag. 161 e seg.
  11. Vedi Mestica, op. cit., pag. 66.
  12. Nelle carte napoletano ora in corso di stampa.
  13. Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. I, pag. 115.
  14. Appunti e Ricordi nelle citate carte napoletane.
  15. Epistolario, vol. I, pag. 127, 128.
  16. Idem, vol. III, pag. 428.
  17. Citati Appunti e Ricordi nelle carte napoletane.
  18. Citati Appunti e Ricordi nelle carte napoletane
  19. Il Mestica si contenta di dire (nei citati suoi Studi leopardiani): «Nè si fa torto al Leopardi ricordando ch’egli non rifuggiva dalle inclinazioni erotiche insite nella natura umana.» Io penso invece che gli si fa torto gravissimo a supporre che, avendo avuto un figliuolo, fosse capace, come un superuomo qualunque, di lasciarlo pel mondo senza curarsene.
  20. Negli Appunti e Ricordi.
  21. Negli Appunti e Ricordi
  22. Ivi.
  23. Ivi.
  24. Vedi Lettere scritte a Giacomo Leopardi dai suoi parenti; Firenze, Le Mounier, 1878, pag. 191.
  25. Appendice all’Epistolario e agli scritti giovanili di Giacomo Leopardi; Firenze, Barbèra, 1878, pag. 222.
  26. Pensieri ec, vol. I, pag. 169.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.