< Vita di Giacomo Leopardi
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Capitolo V Capitolo VII

Capitolo VI.


LE DUE PRIME CANZONI.


1818-1819.


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Sommario: II Giordani a Recanati. — Colloqui fra i due amici. — Gita del Giordani e di Giacomo a Macerata. — Leggenda sulla incredulità istillata dal Giordani al Leopardi. — Indipendenza della mente di Giacomo. — Muore Teresa Fattorini, e Giacomo scrive le due prime canzoni. — Da chi ebbe il poeta l’ispirazione? — Abbozzo della canzone All’Italia. — La canzone pel monumento di Dante. — Disogno abbandonato di una raccolta di scritti di Giacomo proposta dal Giordani. — Pubblicazione delle due canzoni. — Entusiasmo per esse del Giordani. — Importanza civile delle canzoni. — Orribili condizioni della vita di Giacomo. — È sospeso fra l’idea della fuga e l’idea del suicidio. — Preparativi per la fuga. — Il disugno della fuga è scoperto dal padre e sventato. — Il Giordani reputa un bene che il tentativo non sia riuscito. — Lettera disperata di Giacomo al Giordani.


Fino dal maggio del 1817 il Giordani scriveva a Giacomo: «Erami venuto in mente, tanto mi sento affezionato a lei, che l’anno venturo, se mi riuscisse di aver accomodato le cose mie domestiche, non mi rincrescerebbe di stare per qualche tempo in quel Recanati dov’ella tanto si annoia; e starvi unicamente per interrompere un poco i suoi studi; darlo un orecchio e un cuore che volentierissìmo ricevessero le suo parole; forzarla a lunghe e frequenti passeggiate por cotesti colli piceni, e distrarla un poco dalla fissazione delle malinconie.»1 E Giacomo il 30 dello stesso mese rispondeva: «Non dovrei desiderare ch’ella mi conoscesse di persona, perchè certo mi troverà minore assai che forse non pensa: ma io tanto veramente e grandemente la amo che mi fa dare in pazzie il solo pensare che l’anno vegnente, se la speranza ch’ella mi ha dato non è vana, io vedrò lei e le parlerò.»2

Il Giordani avea divisato di andare nel maggio del 1818, poi nel luglio, poi dovè ritardare ancora. Nelle lettere che si scrissero nel frattempo si accenna più d’una volta a cotesta andata; si parla al solito di studi, e della cattiva salute e della malinconia del poeta, a cui il Giordani vuole a ogni modo trovare un rimedio. «Se alla salute, scrive, è indispensabile l’uscire un poco di costì, m’inginocchierò a vostro padre; e forse si troverà modo a conseguirne questa grazia» (21 febbraio 1818). Anche gli dice che vuole stampare egli stesso a Milano o a Piacenza un libretto delle sue composizioni: «Pensate intanto a raccoglierle e accomodarle al vostro modo: che quando sarò costì ne parleremo e disporremo la cosa alla esecuzione» (8 marzo 1818).

Quanto più si avvicinava il tempo dell’arrivo del Giordani, tanto più cresceva l’impazienza di Giacomo. Il 25 maggio gli scrive: «Siamo alla line di maggio, e fra luglio e questo c’è solamente un mese. Che? Non verrete più in luglio?» Poi il 31 luglio, sapendo che avrebbe tardato ancora: «V’amo e vi aspetto;» e il 14 agosto: «Io v’aspetto impazientissimamente.» E di nuovo il 31 agosto: «Frattanto v’aspetterò io, e con me un opuscolo molto sudato.» Quest’ultima lettera s’era incrociata con una del Giordani del 26 agosto, che finalmente annunziava: «Se non muoio fra pochi dì, fra pochi dì ci vedremo.»

E verso la metà di settembre arrivò a Recanati, smontò ad una locanda, e di lì mandò un biglietto all’amico. Pare che il biglietto fosse dall’uomo che lo portava consegnato a Monaldo, il quale lo aprì, e andò lui dal Giordani, intanto che Giacomo, saputo anch’egli che l’amico era arrivato, si recò ad incontrarlo. Era la prima volta che usciva di casa solo, e ne fu rimproverato dal padre.3

Il Giordani non si trattenne a Recanati che cinque giorni, nei quali fu ospite della famiglia Leopardi. Monaldo lasciò i figliuoli conversare liberamente con lui; non credendo pericolosa per essi la compagnia del nuovo amico. Del Giordani Monaldo non sapeva altro se non che era uno scrittore famoso: se lo avesse sospettato d’incredulità e di liberalismo, non solo non avrebbe lasciato che i suoi figliuoli lo avvicinassero, ma non lo avrebbe ricevuto in casa.

Quali furono i discorsi dei due amici nelle loro lunghe conversazioni? E certo che il Giordani non avrà parlato a Giacomo di tridui nò di novene; ma è egualmente certo che nò allora nò poi non gli disse una parola in materia di religione. Lo afferma il Giordani stesso in una lettera all’abate G. F. Baruffi del 24 febbraio 1841 e lo conferma in altra al conte Giuseppe Ricciardi del 28 aprile 1845.4

Chi conosce le relazioni del Giordani col Leopardi s’immagina facilmente che gli argomenti dei colloqui fra i due amici saranno stati in particolar modo questi tre: gli studi; il desiderio di Giacomo d’uscire di Recanati; l’Italia. Sì, anche l’Italia, quella gloriosa Italia, la cui immagine aveva toccato il cuore scaldato la testa del giovinetto Leopardi fino dal marzo 1817, quand’egli scrivendo per la seconda volta all’amico gli diceva: «Mia patria è l’Italia, per la quale ardo di amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto italiano.»5

Il Giordani era un po’ pessimista anche lui; ma, politicamente e moralmente, quei tempi non erano dei migliori. Se qualche cosa di buono e di generoso fermentava negli intelletti e nei cuori, c’era nella grande maggioranza molta scoria di egoismi e di bassi appetiti. Naturalmente il Giordani e il Leopardi vedevano del loro tempo più il male che il bene; e il loro patriotismo non sapeva manifestarsi meglio che rompendo in violente apostrofi contro la bassezza dell’Italia presente, ed inneggiando alla gloria e alla virtù dell’antica. Giacomo, che appunto allora meditava di far qualche cosa di grande, dovea sentirsi tutto acceso d’entusiasmo alle parole eloquenti con le quali il Giordani, incoraggiando le sue generose aspirazioni, gli parlava del gran bene e dell’onore che farebbero all’Italia i suoi scritti.

Il tema più pungente dei loro discorsi dovette essere il desiderio di Giacomo di uscire da Recanati. Il Giordani, cercando d’accordo con lui e con Carlo il modo di sodisfare questo ch’era poi il desiderio di tutti due i fratelli, formò il disegno di farli andare a Roma; un disegno combinato in modo, che Monaldo, speravano, non avrebbe potuto farvi una opposizione invincibile. Intanto Monaldo concesse al Giordani di menare per un giorno con sé Giacomo a Macerata.

Quella gita fu un avvenimento, che poi il conte rimpianse, e del quale si rimproverò acerbamente; come si rimproverò della libertà, lasciata ai figliuoli di conversare col Giordani. Sugli effetti della andata dello scrittore piacentino a Recanati e della sua gita con Giacomo a Macerata,

andò a poco a poco formandosi in casa Leopardi una terribile leggenda, che del migliore amico e confortatore di Giacomo, di colui che primo e meglio d’ogni altro lo comprese, l’amò e l’ammirò, e con la autorevole sua parola lo impose all’ammirazione dei contemporanei, fece il suo diabolico corruttore. Monaldo, due anni dopo (3 aprile 1820), scriveva al Brighenti che alla venuta del Giordani i suoi figli avevano cambiato natura.6 La contessa Ippolita Mazzagalli narrava al Piergili che Giacomo, tornando da Macerata col Giordani dopo quel giorno fatale, era tutto mutato.7 Ciò per chi conosce il Leopardi è (sia detto col dovuto rispetto alle persone) grottescamente ridicolo.

La leggenda formatasi allora si andò divulgando e allargando per modo, che fino il Gioberti e il Capponi la crederono una verità e contribuirono a diffonderla. Que’due bravi uomini conobbero di persona il Leopardi e il Giordani, ma non conobbero interamente l’animo nò dell’uno né dell’altro, e fondarono i loro giudizi sopra le apparenze, che sono spesso fallaci. Il Giordani nelle conversazioni era un gran parlatore, che non pure non nascondeva la sua incredulità, ma a volte pareva ostentarla; era lui che aveva, si può dire, scoperto il Leopardi, e pareva il suo maestro; il Leopardi, al contrario, era quasi timido, parlava poco, non si apriva a nessuno. Ciò naturalmente giovò ad accreditare la leggenda.

Ma chi ha studiato attentamente e spassionatamente l’animo e l’ingegno del Leopardi negli scritti suoi e nello lettere, sa ch’egli non senti l’influenza di nessuno dei suoi contemporanei, neppure letterariamente. Tanto meno la sentì nella politica e nella

filosofia. Quando egli conobbe il Giordani, la trasformazione delle sue idee politiche era, come abbiamo visto, già compiuta; quella delle idee filosofiche era avanzata per modo, che non aveva bisogno di aiuti e di eccitamenti, ma piuttosto di freni.

Lo scrittore piacentino, già uomo fatto e famoso, trovò dinanzi a sé un giovine convertitosi per virtù propria all’amore della grande arte classica, all’amore della patria, all’amore della libera indagine filosofica. Non e’ era dunque bisogno di convertire un convertito. Ch’egli lo confortasse e raffermasse in quelle idee e in quei sentimenti, pur cercando di temperare ciò ch’era in essi di eccessivo; che si dolesse con lui della domestica schiavitù, pur consigliandolo a pazientare e sperare; che desiderasse per lui una vita moralmente e materialmente più libera e più sana, e si adoprasse a procacciargliela, pur usando a ciò le maggiori cautele e i maggiori riguardi verso la famiglia di lui; sono cose che, si capisce, non poterono allora piacere a Monaldo ; ma oggi non dovrebbero parere biasimevoli neppure agli ammiratori del vecchio conte sanfedista.



In quel mese di settembre, nel quale il Leopardi ebbe la visita del Giordani, morì Teresa Fattorini; e in quello stesso mese il poeta compose, non già un’elegia sulla immatura fine di lei, ma la canzone all’Italia.

Un sentimento nuovo entra d’un tratto nella poesia del Leopardi e l’occupa tutta; il poeta dimentica per un istante i dolori suoi e gli altrui, per non sentire che le sciagure e le vergogne della patria: i suoi lamenti e le sue rampogne hanno ora uno scopo pratico, mirano a scuotere dall’ignavia gli Italiani: e l’entusiasmo ond’egli eccita i fratelli suoi a redimere la patria dalla servitù, a rifarsi degni dei loro maggiori, è così forte e sincero, che gli fa dimenticare le infermità del suo corpo e gridare all’Italia:

Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio.


Finora tutte le poesie del nostro erano state pure esercitazioni letterarie, o sfoghi delle sue malinconie e delle sue smanie amorose. Come si spiega questo scoppio improvviso e violento del sentimento patriotico? «Un poeta, scrive il Carducci, potrebbe immaginare che la madre Italia fosse di celato entrata a quei giorni nel palazzo di Recanati e abbracciato il povero gobbino e baciatolo in fronte gli avesse detto: Sii grande nel mio nome e nel mio amore. Non l’Italia, ma qualcuno era stato a quei giorni in casa Leopardi: un brav’uomo e dotto ed eloquente.... Pietro Giordani.... Ecco: io non dico che suggerisse egli o ispirasse la canzone all’Italia: dico che quella canzone fu composta dopo subito partito il Giordani.»8

Il patriotismo di Giacomo, per quanto forte e sincero, non aveva ancora, com’è naturale sul cominciare, trovato la via di dimostrarsi in qualche opera letteraria. Probabilmente bastò una parola dell’amico, gittata là senza nessuna intenzione determinata, a suscitargli nell’animo un tumulto di pensieri, che si concentrarono poi nel pensiero doUa canzone, anzi delle canzoni.

Partito appena il Giordani, e rimasto il poeta nella dolorosa sua solitudine, quel pensiero lo occupò talmente, ch’egli gittò subito in carta un abbozzo in prosa della canzone. L’abbozzo, che si conserva ancora fra i mss. leopardiani, ha questo titolo: Argomento di una canzone sullo stato presente dell’Italia, e comincia così : O patria mia, vedo i monumenti, gli archi ec, ma non vedo la tua gloria antica ec. Se avessi due fonti di lagrime, non potrei piangerò abbastanza per te. Passaggio agl’italiani che hanno combattuto per Napoleone: alla Russia. Morendo i poveretti ec. (dopo una descrizione lirica del modo come morivano) si volgevano a te, o patria ec. O Italia, o Italia bella, o patria nostra, o in che diversa terra. Moriamo per colui che ti fa guerra. Oh morissimo per mano di forti e non del freddo: oh morissimo per te, non per li tuoi tiranni: oh fosse nota la morte nostra! infelici sconosciuti per sempre e inutilmente soffrenti le più acerbe pene. Così dicendo morivano e gli addentavano le bestie feroci urlando su per la neve e il ghiaccio ec. Anime care datevi pace e vi sia conforto Che non hacci per voi conforto alcuno, infelicissimi fra tutti, riposatevi nell’infinità della vostra miseria, vi sia conforto il pianto della patria e de’ parenti: non di voi si lagna la patria ma di chi vi spinse a pugnar contra lei. E mesce al pianto vostro il pianto suo: sventuratissima sempre; vi sia conforto che la sorte vostra non è stata più dolce di quella della patria.» Seguita parlando dei danni del dominio francese in Italia, delle vittorie di Adriano sui Farti, del paragonare il presente al passato, ai Romani, ai Greci, alle Termopile ec. Poi ricomincia verseggiando il principio della canzone: «O patria mia, vedo le mura e gli archi ec. Ma la gloria non vedo Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi i nostri padri antichi ec.»; e descritto parte in prosa parte in versi lo stato miserando d’Italia, dopo un accenno agli Italiani combattenti in Russia, e all’infelicità di coloro che muoiono pugnando per altro che per la patria, prosegue: «Qui si passi alla battaglia de’ greci alle Termopile. Ipotiposi de’ combattenti, muoiono tutti. Così, così, Evviva evviva. Beatissimi voi, non tempo ec. non invidia oscurerà la vostra fama. Allora Simonide prendea la lira. Qui si può fingere il canto di Simonide ma passando alle parole sue di colpo come Virgilio citato dal Monti nel settimo dell'Eneide. Così cantava Simonide. Oh potess’io cantare egualmente per gl’Italiani. Oh come mi arderebbe il cuore ec. — Che la miseria vostra colpa del fato fu non colpa vostra. — Nata l’Italia a vincer tutte le genti così nella felicità come nella miseria. — Oh come sono sparite le sue glorie ec. in tuono solenne. — Tutte piangiamo insieme, itale genti, Poi che n’ha dato il cielo. Dopo il tempo sereno. Tempo d’aifanno e d’amarezza (tristezza) pieno. Questo può servire per la chiusa. E stato meglio per voi morire comunque, poich’eravate servi ed era serva la patria vostra.»9

All’abbozzo della canzone all’Italia seguita nel manoscritto autografo l’abbozzo, ma più breve assai, della canzone pel monumento di Dante; seguita senza nessun titolo a so, e senza nessun segno dal quale apparisca che le due canzoni dovevano fin dall’origine avere un argomento diverso; tanto che non ò strana la supposizione che nella prima idea del poeta anche la seconda canzone fosso indirizzata all’Italia. Essa comincia nell’abbozzo così: «Perchè la pace ec. Italia, ti rivolgi ai tuoi maggiori, mira ec, vergognati una volta ec. Onorato italiani i vostri maggiori, poichò nessun presente lo merita.» Seguita esaltando coloro che promossero il monumento a Danto, non perchè ciò onori lui, che non ha bisogno di monumenti, ma perchò gl’Italiani si destino. E qui entra a parlare delle sciagure d’Italia, dello strazio fatto di lei dai Francesi: spogliata de’ marmi e delle tele ec. trattati come pecore vili da’ galli, itali noi.

Qual tempio, qual altare non violarono, qual monte, qual rupe, qual antro sì riposto fu sicuro dalla loro tirannide? Libertà bugiardissima ec. E’l peggio è che fummo costretti a combattere per loro. Qui alle campagne e selve rutene ec, come sopra per l’altra canzone. Ma più di tutto è male questo sopore degl’italiani.... Io finché avrò lena e voce in petto griderò sempre: Svegliati, Italia ec. ec.»10

Per quanto l’argomento sia diverso, le due canzoni nel contenuto e nello spirito hanno molti punti di contatto: esse nacquero gemelle, nacquero al medesimo soffio. Così avvenne che ciò che nel primo abbozzo era di troppo alla prima, servì alla seconda. La prima, secondo il disegno, doveva comporsi di tre parti: descrizione delle sciagure d’Italia; infelicità, degli italiani costretti a morire in Kussia combattendo per altra gente; i Greci alle Termopili, e Simonide consacrante all’eternità la gloria loro. Nella esecuzione, al poeta indugiatosi nella prima parte, e sentendosi crescere l’importanza della terza, mancò lo spazio alla seconda, ch’egli costrinse perciò in una sola strofe, serbando il resto della canzone, più che metà, alla Grecia e a Simonide, e con Simonide chiuse, abbandonando l’idea di soggiungere alle parole di lui le proprie osservazioni. L’episodio degli italiani combattenti in Russia fu poi ripreso ed ebbe largo svolgimento in quattro strofe della canzone per Dante.

Con queste due canzoni, nate ad uno stesso parto, e nate in un impeto irresistibile di ispirazione, Giacomo Leopardi occupò il primo posto fra i poeti italiani della prima metà del secolo decimonono.

Generalmente, buttato giù in fretta nel primo fervore della ispirazione l’abbozzo di una poesia, egli aspettava a tornarci su che la ispirazione tornasse, e la ispirazione tornava per il solito fra dieci, fra quindici giorni, fra un mese; o magari non tornava. Questa volta tornò subito; e fra i pochi giorni che restavano del settembre e i primi d’ ottobre le canzoni furono finite tutte due,11 e mandate il 19 ottobre al Giordani perchè le facesse stampare a spese dell’ autore ed ottenesse dal Monti il permesso che fossero dedicate a lui.

La lettera con cui Giacomo mandava le canzoni terminava con queste parole di colore oscuro: «Le cose nostre vanno di male in peggio, e avendo provato di mandare a effetto quel disegno che avevamo formato insieme del modo di andare a Roma, ci siamo visti abbandonati, scherniti, trattati da ignoranti, da pazzarelli, da scellerati, e da nostro padre derisi tranquillamente come fanciulli; in maniera che persuasi finalmente che bisogna farla da disperati e confidare in noi soli solissimi al mondo, siamo oramai risoluti di vedere che cosa potremo.»12

Alcuni giorni dopo, essendo sorto un raggio di speranza, il poeta riscrive al Giordani: «Noi stiamo qui meno scontenti di quello eh’ io vi scriveva nelr ultima che non v’è capitata, perchè nostro padre ha fatto mcn cattiva cera che non avevamo creduto al nostro disegno, il quale ancora non si può diro che sia disperato.»13 Ahimè, era stata una illusione, una canzonatura: ai 14 di dicembre Giacomo riscriveva: «Quel tenuissimo raggio s’è dileguato, e non ci resta niente a sperare da anima viva fuorché da noi stessi.»14

Che cosa era l’opuscolo molto sudato di cui il nostro parlava al Giordani con la lettera del 31 agosto? E come avvenne che i due amici si lasciarono senza aver concluso niente circa il volumetto di composizioni del Leopardi che il Giordani si era proposto di pubblicare egli stesso a Milano o a Piacenza? L’opuscolo molto sudato era, credo, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, che rimane ancora inedito fra le carte napoletane. Il Leopardi, che lo destinava alla stampa, lo dovè leggere in tutto o in parte all’amico, il quale forse non lo approvò interamente. Il germe e il succo di quel discorso sta nel pensiero che leggesi a pag. 94 e seg. del vol. I dello Zibaldone, pensiero che Giacomo scrisse appena finite di leggere nello Spettatore le Osservazioni di Lodovico di Breme sopra la poesia moderna.

Quanto al mettere insieme le composizioni che il Giordani voleva raccogliere in un volumetto, il Leopardi non doveva avere che la difficoltà della scelta. Di scritti in prosa, oltre il Discorso intorno alla poesia romantica, aveva inedite le due lettere ai Compilatori della Biblioteca italiana sulla traduzione di tutti i poeti classici greci promessa dal Bellini, ed in risposta alla lettera di Madama Di Stael, la traduzione dei Frammenti di Dionigi d’Alicarnasso e la lettera al Giordani sopra il Dionigi; di poesia, oltre la Cantica su l’appressamento della morte, i cinque sonetti satirici sul Manzi, le iscrizioni triopee tradotte, e le due elegie. L’idillio Le rimembranze era stato già riprovato da lui.

Intanto però i due lavori più lunghi, il Discorso intorno alla poesia romantica e la Cantica non avevano, il primo probabilmente, il secondo certamente, ottenuta intera l’approvazione del Giordani. Oltre di ciò, per quanto il Leopardi avesse sulle prime accettato volentieri la proposta dell’amico, forse era incerto sulle cose da raccogliere, e se raccogliere nel volumetto anche taluni degli scritti già pubblicati nello Spettatore in altri periodici. Fossero queste o altre le ragioni, il disegno di quella raccolta non ebbe effetto. Ce n’è ancora un cenno fugace nelle lettere dei due amici del febbraio 1819, e poi più niente.

Ora ciò che più importava al Leopardi erano le canzoni: era impaziente di sapere che effetto avrebbero prodotto. Intanto passavano i giorni e le settimane, e non sapeva che l’amico avesse ricevuto il suo manoscritto. Dubitando che fosse andato smarrito, fece un’altra copia delle canzoni e la mandò al Cancellieri a Roma, pregandolo che glie le facesse stampare. Alla metà di gennaio del 1819 ricevè due copie delle canzoni stampate; ma l’edizione gli parve così obbrobriosa, che pensò di sopprimerla: tuttavia mandò una di quelle due copie al Giordani; e ricevute poi le altre, che gli parvero men brutte, e seguendo il consiglio dell’amico, serbò l’edizione e la divulgò.

Ricevuti e letti i versi, il Giordani non può frenare l’entusiasmo; non trova espressioni che bastino a contenere la sua ammirazione. «Oh nobilissima e fortissima anima! Così e non altrimenti vorrei la lirica.» «Oh mio Giacomino, che grande e stupendo uomo siete voi già! quale onore, e forse ancora quanto bene siete destinato a fare alla nostra povera madre Italia! Coraggio, coraggio.» «Le vostre canzoni girano per questa città come fuoco elettrico: tutti lo vogliono, tutti ne sono invasati. Non ho mai (mai, mai) veduto nè poesia nò prosa, nò cosa alcuna d’ingegno tanto ammirata ed esaltata. Si esclama di voi comedi un miracolo.» «Oh fui pure sciocco io quando (conoscendovi anclie poco) vi consigliavo ad esercitarvi prima nella prosa che nei versi: ve ne ricordate? Oh fate quel che volete: ogni bella e grande cosa è per voi: voi siete uguale a qualunque altissima impresa.»15

Il Manzoni, non mi ricordo più dove, parla dell'entusiasmo a freddo e delle consuete esagerazioni del Giordani. Quanto alle esagerazioni, erano nell’in- l'indole dello scrittore; ma l’entusiasmo qui è senza dubbio caldo e sincero. E questo entusiasmo, che a qualche critico illustre pare retorica, al Carducci pare il grido del cuore italiano d’allora, e a me pare anche la critica più giusta delle due canzoni, quella che ne assegna il merito principale; un sentimento alto e forte d’italianità espresso in forme molto elaborate, un po’ retoriche anche, ma con una energia ed una sincerità che lo comunicano immediatamente ai lettori. Chi si riporti al tempo nel quale le canzoni furono pubblicate, e ripensi le condizioni politiche dell Italia d’allora, capirà facilmente come quei versi dovessero toccare sul vivo la coscienza della nazione, e infiammare ed elettrizzare tutti i nobili spiriti frementi sotto il giogo della tirannide. Ben lo sentiva il Leopardi, il quale rispondendo al Montani, che gli aveva lodate le canzoni, diceva: «L’esempio recentissimo delle altre nazioni ci mostra chiaro quanto possono in questo secolo i libri veramente nazionali a destare gli spiriti addormentati di un popolo e produrre grandi avvenimenti.»16

Chi vuol sapere quale fu l’importanza storica e politica delle due canzoni, legga ciò che il Carducci osserva e riferisce, a proposito di esse, nello scritto su Le tre canzoni patriotiche di Giacomo Leopardi.17




Il Giordani, scrivendo il 25 giugno 1819 al Brighenti a Bologna, gli domandava che cosa quei letterati pensassero delle canzoni; e sentendo che a qualcuno non piacevano, si meravigliava e si indispettiva. «Voi dite benissimo, che si mandi a far.... la letteratura; ma che volete che altro faccia quel povero diavolo in quell’eremo, e in quella miserissima tirannia domestica? Quell’infelice creperà : ma, se per disgrazia non muore, ricordatevi quel che vi dico io, che non si parlerà più di nessun ingegno vigente in Italia: egli è d’una grandezza smisurata, sjaventevole.... Oh in Italia nascono ingegni incredibili: ma guai a quelli che ci nascono!»18

Il Giordani era sotto la dolorosa impressone delle tristi notizie ricevute dall’amico, le cui coidizioni sì di salute sì d’animo in quell’anno 1819 eano molto peggiorate. La visita del Giordani e la pubblicazione delle canzoni avevano acuito il desiderio, già così vivo e angoscioso, di uscire ad ogni costo di Recanati. Recanati era la causa prima della sua infelicità e 'impedimento a conseguire quelli che pr lui erano i soli beni della vita. E poichè i tentatii fatti a piegare il padre avevano fruttato unicamente derisioni, non restava che rassegnarsi, o ricorrere ai mezzi più disperati. E rassegnarsi Giacomo non sapeva. Dal marzo si era aggiunta ad aggravare la sua condizione una malattia d’occhi, che gli impedia, non solamente il leggere, ma qualsiasi occuparono mentale; passava le giornate sedendo con le brada in croce, o passeggiando per le stanze: aveva appen forza di raccogliere in carta, perchè non gli cadesero dalla

memoria, i disegni che gli si accumulavano in testa. «Non ho più pace, scriveva il 21 giugno al Giordani, né mi curo d’averne. Farò mai niente di grande? né anche adesso che mi vo sbattendo per questa gabbia come un orso? In questo paese di frati, dico proprio questo particolarmente, e in questa maledetta casa, dove pagherebbero un tesoro perchè mi facessi frate ancor io, dove volere o non volere a tutti i patti mi fanno viver da frate, e in età di 21 anno e con questo cuore che io mi trovo, fatevi certo che in brevissimo io scoppierò, se di frate non mi converto in apostolo, e non fuggo di qua mendicando, come la cosa finirà certissimamente.» E il 26 di luglio: «La mia vita è spaventevole. Neil’età che le complessioni ordinariamente si rassodano, io vo scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano a una a una. Questo mi consola perché mi ha fatto disperare di me stesso, e conoscere che la mia vita non valendo più nulla, posso gittarla come farò in breve, perchè non potendo vivere se non in questa condizione e con questa salute, non voglio vivere.»19

Due idee egualmente terribili si agitavano nelr animo del poeta, l’idea della fuga e l’idea del suicidio.

Già altre volte aveva avuto la tentazione d’uccidersi per disperazione d’amore: ora ciò che lo induceva al suicidio era lo spavento di restar cieco: «Io non mi meravigliava, scrive, come altri (nel pericolo di perdere la vista) avesse il coraggio di uccidersi, ma come i più, dopo tale disgrazia, non si uccidessero.» Se non che quando voleva provarsi a mettere ad effetto il feroce proposito si rammentava di quel povero di Luciano, il quale diceva che la vita, per quanto trista e abominevole, è una bella cosa, e la morte, per quanto bella e desiderabile, è bruttissima

e fa paura.20 Racconta egli stesso di sé che un giorno, probabilmente in quel tempo, seduto sull’orlo della vasca, guardava l’acqua, e curvandocisi sopra, con un certo fremito pensava: «S’io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla mi arrampicherei sopra quest’orlo, e sforzatomi d’uscir fuori, dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso proverei qualche istante di contento per essermi salvato, e di affetto a questa vita che ora tanto disprezzo.»21

L’idea della fuga gli era passata per la testa da un pezzo, fin da quando avea conosciuto la sua condizione e i principii immutabili di suo padre; ed aveva risoluto di mandarla ad effetto fino dagli ultimi di giugno, quando scriveva al Giordani quella disperata lettera, nella quale è pure un cenno del triste proposito a cui la disperazione lo avrebbe condotto. Tuttavia la cosa doveva parergli così grave, che lasciò passare più di un altro mese prima di prepararne la esecuzione.

In cotesto tempo la sua tristezza era divenuta veramente spaventevole. Monaldo o non so ne accòrse, o non ne fece caso: se ne accorsero però Carlo e Paolina, e forse la zia Ferdinanda Melchiorri, che allora era a Recanati; ma nessuno di loro sospettò niente de’ suoi disegni. Finalmente il 29 luglio Giacomo scrisse a Macerata al conto Xaverio Broglio d’Alano, amico della famiglia, pregandolo, anche a nome del padre, di ottenergli un passaporto per il regno lombardo-veneto. Aveva divisato di partire di nascosto e andare a Milano, dove forse sperava di potere, coll’aiuto dello Stella, del Giordani, del Monti di qualche altro amico, trovare un’occupazione che gli desse da vivere. Ad ogni modo meglio mettersi a rischio di morire per via clie restare a Recaiuiti. Mentre aspettava il passaporto, preparò due lettere, una per Carlo, 1’ altra pel padre, con le quali dava contezza e rendeva ragione della sua fuga.

La lettera al padre è una terribile requisitoria, dopo la quale nessun giurì umano avrebbe potuto assolvere Monaldo. Egli e la moglie erano i responsabili, anzi gli autori, della infelicità del figliuolo, con la sola attenuante per Monaldo di una quasi incoscienza, per la moglie della mancanza assoluta di viscere di madre. La lettera a Monaldo meriterebbe per la sua importanza di essere riferita intera; ma chi non la conosce? E se qualcuno non la ricordasse, può rileggerla nell’Epistolario.

Avuto sentore del tentativo di Giacomo, Monaldo scrisse al conte Broglio per avere nelle sue mani il passaporto; ed avutolo, lo mostrò al figlio, e lo collocò in un canterano aperto, dicendogli che poteva prenderlo a suo comodo.22 Ciò, dato che fosse vero, pareva fatto per indispettire Giacomo, non per calmarlo; perchè s’intende che, se il passaporto era lì, a sua disposizione, nessuno gli avrebbe dato i denari per partire. Ed ora che i suoi stavano sull’avviso, come avrebbe egli potuto tentare una seconda volta di prenderli di nascosto? Ho detto, dato che fosse vero, perchè quando gli uomini come Monaldo affermano una cosa, è lecito dubitare che la verità sia precisamente il contrario.

Di fatti Giacomo, scrivendo poi al Broglio, per iscusarsi d’averlo ingannato, e ragguagliarlo de’ suoi atti e de’ suoi propositi, gli dice: «Ho desistito dal mio progetto per ora, non forzato né persuaso, ma commosso e ingannato.... Se mi opporranno la forza, io vincerò, perchè chi è risoluto di ritrovare o la morte o una vita migliore, ha la vittoria nelle sue

mani.... Io non voglio vivere in Recanati. Se mio padre mi procurerà i mezzi di uscire come mi li a promesso, io vivrò grato e rispettoso, come qualunque ottimo figlio, se no, quello che doveva accadere e non è accaduto, non è altro che differito.... Quanto al passaporto, non me lo diede, e se lo ritiene. Ed io ne sono contento, perchè in mia mano m’era più inutile, che non è ora sotto cento chiavi, e mi legava irresolubilmente con la buona fede, dalla quale ora son libero.»23

Inutile dire che il tentativo di fuga non riuscito aggravò ancora la condizione infelicissima di Giacomo. Gli dolse sopra tutto che suo padre desse la colpa della sua disperata risoluzione al Giordani; il quale tanto poco n’era stato consigliere, che la ignorava: e quando la seppe, scrisse all’amico: «Reputo gran ventura che sia stato disturbato il tuo doloroso disegno. Non ti biasimo che l’abbi avuto in mente: ma reputo bene, o assai minor male, non averlo potuto eseguire.» Prosegue cercando dimostrargli che andava a peggiorare, e conclude: «La tua condizione non è felice: ma uno sforzo di filosofia la può sopportare. Figurati d’essere un carcerato: ma ariosa prigione e salubre; buon letto, buona tavola, assai libri: oh Dio; ciò ò ancora meno male che non saper dove mangiare, nò dove dormire. Chi sa; forse un qualclie giorno tuo padre si piegherà.... ma frattanto invoco la tua pazienza, la tua prudenza.»24

Così scriveva a Giacomo in data del 1° novembre colui ch’era creduto da Monaldo il suo cattivo consigliere, l'istigatore alla fuga; e Giacomo il 19 rispondeva: «Sono cosi stordito ddl niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prendere la penna per rispondere alla tua del primo. Se in questo


momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere né movermi, altro che per forza, dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, né anche della morte; non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo, e sono così spaventato della vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione.» 25



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  1. Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. III, pag. 93, 94.
  2. Epistolario, vol. I, pag. 72.
  3. Vedi Epistolario, vol. III, pag. 428.
  4. La lettera al Baruffi fu pubblicata nel 1877 in un giornale torinese e riprodotta dal Vinni nell’Appendice all’Epistolario del Leopardi, a pag. LXVIII e seg.; quella al Ricciardi si trova in copia fra le carte Le Monnier nella Biblioteca Nazionale di Firenze
  5. Epistolario, vol. I, pag. 42.
  6. Avoli, Appendice all’Autobiografia di Monaldo Leopardi, pagina 299, in nota.
  7. Piergili, Le tre lettere di Giacomo Leopardi intorno alla dizinata fuga dalla casa paterna; Torino e Roma, Loascher, 1880, pag.12, in nota.
  8. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di Giacomo Leopardi, pag. 131
  9. Dalle carte napoletano in corso di stampa.
  10. Dalle carte napoletane in corso di stampa.
  11. Vedi Carducci, opera citata, pag. 125 e 165.
  12. Epistolario, vol. I, pag. 146.
  13. Idem, pag. 148.
  14. Idem, pag. 153.
  15. Epistolario vol. III, pag. 149, 150, 151.
  16. Idem, vol. I, pag. 201.
  17. Nel citato volume del Carducci, Spiriti e forme della poesia di Giacomo Leopardi, a pag. 148 e seg.
  18. Epistoario in Giordani, Opere, vol. V, pag. 23, 24.
  19. Epistolario, vol. I, pag. 206, 207 e 208.
  20. Vedi Appunti e carte nelle carte napoletane.
  21. Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia ec., vol. I, pag. 193
  22. Epistolario, vol. I, pag. 219, in nota.
  23. Epistoario, vol. I, pag. 222, 223.
  24. Idem, voi. III, pag. 169, 170.
  25. Epistolario, vol, I, pag. 210.


Note

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